03 aprile 2024

Immagine del settimanale “LA  TRIBUNA  ILLUSTRATA” del  14/01/1894
“I  CASI  DI  SICILIA  –  GLI  INCENDI  DI  PIETRAPERZIA”

Il fascio dei lavoratori di Pietraperzia davanti al Tribunale militare di guerra di Caltanissetta. A centotrenta anni da quei drammatici eventi, quale memoria ne conserva la comunità pietrina?

 

In memoria di Salvatore Di Gregorio
nato a Pietraperzia il 7/4/1865
villico, iscritto al locale Fascio dei Lavoratori

 


Giusto 130 anni fa, il giorno 3 di Aprile del 1894, a Caltanissetta prendeva avvio un processo a carico di 73 imputati (fra cui dieci donne) tutti quanti di Pietraperzia.
L’accusa per tutti loro è quella di “avere nel di 1 gennaio 1894 commessi fatti diretti a suscitare la guerra civile ed a portare la devastazione del detto comune di Pietraperzia e per avere nelle suddette circostanze usate violenze e minacce con armi per opporsi a pubblici ufficiali (carabinieri, truppa) ... e ciò commesso in riunione di oltre cinque persone con armi ed in riunione di oltre dieci persone previo concerto”.
A giudicarli sarà il Tribunale militare di guerra per le province di Caltanissetta e Girgenti.
Ma quali sono i fatti di cui devono rispondere e perché a giudicarli è un tribunale militare di guerra?
Il contesto storico nel quale si svolge quel processo è quello che segna l’epilogo drammatico dell’esperienza dei fasci siciliani dei lavoratori; una vicenda che percorse la Sicilia, le sue città e le sue campagne allo spirare del XIX secolo e che vide consumarsi a Pietraperzia una pagina importante di quella tragica ed esaltante epopea.
Una storia, quella dei fasci dei lavoratori siciliani che a buon diritto è considerata una pagina di primo piano della storia d’Italia, della storia del socialismo e del movimento operaio e contadino del nostro paese.
Ebbene, quella Storia irruppe con tutta la sua forza anche nella vita della piccola comunità di Pietraperzia, della sua gente, ne sconvolse la quotidianità e ne segnò in qualche modo la vita.
Questa volta la storia di Pietraperzia non si identifica con la storia di questa o quella dinastia; con questo o quel casato più o meno nobile e illuminato che si incarica di rappresentarne lustro e ruolo. È la storia di una moltitudine senza blasone; la storia di gente senza storia. Si accese, in quella breve stagione, come una scintilla che diede a quella comunità di viḍḍàni senza istruzione, la consapevolezza che potevano prendere in mano e farsi protagonisti della propria storia per correggere un futuro di miseria e privazioni che gli era cucito addosso come un destino ineluttabile.
Come si sa, finì in tragedia! Quelle aspirazioni vennero sconfitte e duramente represse; l’illusione fu spezzata e le umiliazioni che ne seguirono alimentarono ancor più, rabbia e frustrazione in tutta la comunità e all’interno di quelle famiglie.
Ebbene, il processo di Caltanissetta è la rappresentazione tragica ed emblematica della brutalità con la quale venne spenta quella speranza.
Ma, si diceva, di quali fatti sono accusati quegli imputati?
I fatti sono quelli accaduti a Pietraperzia nel giorno di capodanno del 1894.
In quella giornata si era svolta nelle strade di Pietraperzia una manifestazione di protesta organizzata dal locale fascio dei lavoratori durante la quale il paese era stato teatro di tumulti e devastazioni anche di uffici pubblici compreso il palazzo comunale. Ma oltre alle devastazioni, il bilancio della giornata registrò nove morti sparati rimasti per terra nel piano innanzi alla chiesa di Santa Maria e quindici feriti tutti quanti tra i manifestanti oltre ad alcuni contusi tra le forze dell’ordine.
Rapporti di polizia, corrispondenze giornalistiche, testimoni offrirono ricostruzioni non univoche sulla cronaca di quella giornata. Di esse da conto l’ottimo lavoro di Vincenzo Di Natale “Il Fascio dei lavoratori di Pietraperzia”[1].
Ma come vengono ricostruiti gli avvenimenti di quella giornata nella sentenza che concluse il processo? Riportiamone alcuni stralci. Scrivono i giudici “Nelle ore antimeridiane di quel 1° gennaio i componenti del fascio tennero una riunione segreta nella quale si stabilirono certamente le modalità della dimostrazione che doveva avere luogo in tal giorno...” Il corteo mosse verso le due del pomeriggio uscendo dalla chiesa Madre al grido abbasso le toghe, abbasso il municipio.
Nella piazza S. Domenico, davanti al palazzo comunale, Filippo Napoli (segretario del locale fascio) tenne un comizio “che terminò con le parole quello che facciamo è per la fame...”
“Quella turba tumultuante” – prosegue la sentenza - scese ancora verso il piano di San Rocco esi diresse per l’ufficio centrale del dazio ma giunto davanti alla chiesa di S. Maria trovò la forza che tentò di fermarlo”.
E qui si consumò la tragedia! Seguiamo ancora la ricostruzione dei giudici.
Di fronte alla truppa schierata “la turba sempre più eccitata accennava a violenze …incominciava a scagliare sassi contro la forza. Diventò anche più accanita quando si diedero i tre squilli di tromba tanto che parecchi soldati furono colpiti e contusi.”
Ma il peggio deve ancora accadere. Infatti, prosegue la ricostruzione del collegio giudicante, “Nella speranza di intimorire quella turba vennero tirati dalla forza alcuni colpi in aria … dalla folla vennero tirati alcuni colpi di arma da fuoco contro la truppa per cui l’ufficiale che la comandava fu costretto ordinare il fuoco per non lasciarsi sopraffare…”
Ne seguì la decisione della truppa di ritirarsi in quartiere (nel convento di S. Maria) lasciando campo libero ai manifestanti.
Dunque, la truppa prima sarebbe stata fatta segno di lanci di pietre, poi di colpi di arma da fuoco da parte dei manifestanti e, solo in risposta, avrebbe a sua volta sparato per non lasciarsi sopraffare.
E tuttavia i morti si conteranno solo dalla parte dei manifestanti, mentre sul fronte della truppa saranno annotati solo contusi, alcuni con lesioni guarite oltre i 20 giorni.
In effetti l’ipotesi dell’uso di armi da fuoco da parte dei manifestanti, prima che la truppa si vedesse costretta a rispondere, a parte il rapporto di polizia assunto nella ricostruzione processuale, non riscosse gran credito nelle cronache delle numerose corrispondenze giornalistiche di quelle giornate (dalla Gazzetta Nissena al Giornale di Sicilia, da Vita Nuova al Corriere della Sera, alla Revue de Paris); le stesse testate più filo governative diedero una versione dei fatti non collimante con la ricostruzione operata dalle autorità di polizia e comunque piuttosto evasiva sull’uso di armi da fuoco da parte dei dimostranti.
Una ricostruzione che il deputato Napoleone Colajanni non esitò a definire falsa, in un appassionato intervento che tenne nel corso del dibattito alla Camera dei Deputati che si svolse nel successivo mese di febbraio del 1894 sui fatti in Sicilia: “Si è scritto e si è detto che i contadini di Pietraperzia fecero uso delle armi prima del massacro. È falso!  Io vi domando: dove sono i feriti, dove sono i contusi fra le truppe? Abbiamo avuto massacri, in otto o dieci paesi…. In nessun punto troviamo traccia di conflitti; non troviamo uso di armi, da fuoco o da taglio… Or bene, una folla armata che spara contro la truppa, non ne ferisce uno, non ne ammazza uno! Tranne il soldato ucciso a Belmonte Mezzagno, il disgraziato Sculli, tutti gli altri soldati sono rimasti illesi; …. A Santa Caterina sapete in che numero era la forza pubblica che uccise 11 persone, e ne ferì 23? Otto soldati di fanteria, 4 carabinieri ed 1 tenente dei carabinieri. Ebbene essi tirarono sul popolo, perché ebbero paura di 5.000 uomini. Ma ditemi, se questi 5.000 uomini avevano intenzioni aggressive, e volevano difendersi, ma che cosa sarebbe avvenuto di questi 13 soldati?”
In quanto ai metodi utilizzati per imbastire una versione di comodo di quegli eventi, Colajanni accusò senza mezzi termini le autorità di polizia di avere costretto alcune delle persone arrestate a Pietraperzia “…a sottoscrivere delle carte, delle quali ignoravano assolutamente il contenuto”.
Ma naturalmente, il presupposto dell’uso delle armi da parte dei manifestanti contro la truppa (costretta a sparare per rispondere a quelle fucilate) rappresentava un elemento essenziale nella configurazione di uno dei reati per i quali si procedeva (violenze e minacce con armi per opporsi a pubblici ufficiali) e della responsabilità degli imputati. Sarà dunque questa la versione dei fatti che, assunta nelle carte processuali, determinerà la sentenza.
Sentenza che semplicemente ignora la presenza dei morti nel luogo e nel corso dei tumulti: in nessuna parte di essa se ne parla. Quei cadaveri sono semplicemente irrilevanti ai fini processuali.
Rilevante, ai fini processuali, è quello che successe dopo l’eccidio nel piano di Santa Maria. Infatti, prosegue la ricostruzione dei giudici, “Dopo che la truppa si era ritirata, la turba sempre più eccitata dai caporioni del fascio anzitutto si reca a bruciare l’ufficio principale del dazio… indi si portò al convento di S. Domenico ove risiedevano il municipio, la pretura, il telegrafo e l’ufficio di registro ed in breve tutto venne messo a sacco e fuoco… uguale destinazione facendo dei circoli dei civili e dei buoni amici. Quella turba selvaggia si recò allora alle carceri per liberare i prigionieri e quindi si recò ad assaltare la casa della Esattoria, ma tanto nell’uno quanto nell’altro posto furono vigorosamente respinti e fugati.”.  Questi i fatti assunti nel processo.
Ma perché a giudicare di quei fatti e della responsabilità degli imputati doveva essere un Tribunale militare di guerra?
Per questo dobbiamo ritornare brevemente a quel contesto storico.
In quel volgere di anno, tra la fine del 1893 e l’inizio del 94, si produsse nella storia del regno d’Italia una profonda svolta politica che vide le dimissioni del governo Giolitti e la nascita del nuovo Gabinetto Crispi che fu presentato alle Camere il 20 dicembre 1893.
Nell’economia di questo breve intervento non posso che rinviare alla copiosa storiografia esistente sulle implicazioni e i presupposti connessi a quel passaggio cruciale nella storia d’Italia. Qui ci si limita a riportare alcune delle principali conseguenze che quegli eventi ebbero sul fronte delle vicende siciliane e pietrine che qui vogliamo raccontare.
Come primo atto, il 23 dicembre, il Consiglio dei ministri votò l’autorizzazione al Presidente a proclamare lo stato d’assedio nelle province siciliane “ove e quando l’avesse creduto necessario”.
Il 24 dicembre il generale Morra di Lavriano fu nominato comandante del XII corpo d’armata in Sicilia e reggente della prefettura di Palermo.
Seguì l’invio in Sicilia di una forza militare di ulteriori 30.000 uomini.
Il segnale che il Governo inviava con quei provvedimenti era inequivoco e di grande risolutezza sulla volontà di volere ripristinare l‘ordine in Sicilia.
E tuttavia a quelle decisioni il siciliano Crispi, forte anche del seguito e del prestigio personale di cui godeva nell’isola, associò una iniziativa indubbiamente connotata da una certa apertura e da un certo grado di comprensione delle ragioni sociali che erano alla base delle proteste promosse dai fasci.
In particolare, il 25 dicembre Crispi diramò una circolare ai prefetti dell’isola con la quale indicava tra le cause del malcontento delle popolazioni lo stato di indigenza, i tanti vizi delle amministrazioni locali; corruzione, privilegi, iniqua ripartizione delle imposte locali “il cui peso veniva fatto gravare prevalentemente sui  lavoratoriÈ tempo di correggere cotesti errori e sarebbe questo il vero mezzo per impedire giorni luttuosi e di portare la pacificazione degli animi di coloro che vivono della loro opera manuale”. La circolare si concludeva con l’invito ai prefetti dell’isola ad intervenire sulle amministrazioni locali nel senso auspicato dal governo.
Come osserva lo storico Francesco Renda[2], nell’intento del Presidente del Consiglio, la circolare avrebbe dovuto contribuire a disinnescare il malcontento della popolazione ed il diffondersi delle agitazioni nei comuni siciliani ed incanalare la protesta verso una piattaforma legalitaria. Avvenne esattamente il contrario!
Quello che venne letto come un riconoscimento governativo delle ragioni delle proteste, la sostanziale inerzia, quanto non l’ostilità, delle amministrazioni a dare seguito a quegli indirizzi, moltiplicarono le iniziative dei fasci; in quelle giornate furono numerose le manifestazioni promosse dal movimento e scattò una repressione violenta contro di esse.
Teatro di quelle violenze furono tanti piccoli comuni delle province siciliane: Pietraperzia tra essi. In quelle settimane, da Giardinello a Lercara, da Pietraperzia a Gibellina, da Belmonte Mezzagno a Marineo e Santa Caterina si contarono 85 morti tra i partecipanti a quelle manifestazioni. Vennero operati arresti di massa, migliaia di persone furono mandate al confino e sospese le libertà individuali, l’inviolabilità del domicilio, la libertà di stampa e il diritto di riunione e di associazione.
In quelle drammatiche giornate, in una corrispondenza con il prof. Girolamo De Luca Aprile (riportata nell’opera di Renda citata), il Presidente del Consiglio scriveva “I saccheggi gli incendi, le rapine, gli assassini non possono confondersi con la politica né possono cessare con atti di benevolenza. All’apertura del Palamento, tornata la calma in Sicilia, proporrò leggi utili al miglioramento delle classi operaie. Oggi nulla posso promettere di fronte alle plebi insorte per ordine di palesi o occulti incitatori”. Così dunque Crispi riassumeva la linea d’azione del governo: una risoluta azione per ripristinare l’ordine in Sicilia con le leggi speciali e la repressione militare poi, tornata la calma, attendere a quei provvedimenti utili al miglioramento delle classi operaie.
Alla luce dei fatti successivi, si può ben dire che maggiore efficacia ebbe l’azione governativa sul primo degli obbiettivi, molto, molto meno sul secondo.
I provvedimenti che daranno corpo all’indirizzo governativo vennero assunti in rapida successione.
Dopo l’autorizzazione governativa alla proclamazione dello stato di emergenza, già deliberata dal Consiglio dei Ministri in dicembre, il relativo decreto fu sottoposto al Re ed emanato il 3 gennaio del 1894.
Con esso venne dichiarato lo stato d’assedio nella città di Palermo e in tutte le province siciliane ed il generale Morra di Lavriano fu nominato Commissario straordinario con pieni poteri sotto la cui dipendenza sono poste tutte le autorità civili e militari dell’isola.
Con proprio editto del 5 gennaio il Commissario straordinario istituì tre Tribunali militari speciali (Palermo, Messina e Caltanissetta) cui deferire i responsabili dell’ordine turbato e rese applicabili alle persone estranee alla milizia “le disposizioni relative al tempo di guerra stabilite dal codice penale per l’esercito”.
L’11 gennaio i Prefetti dell’isola ebbero la delega per: “lo scioglimento di ogni singola sezione dei fasci siciliani e il sequestro delle carte, dei registri, dei gonfaloni, delle bandiere e di quant’altro sia di pertinenza dei sopradetti Fasci in quanto l’azione fin qui spiegata da essi è stata causa delle agitazioni, dei disordini e delle sommosse avvenute in alcuni comuni.”
Con decreto speciale del febbraio 1894, venne messo a punto un penetrante sistema di censura preventiva oltre che sui giornali siciliani anche su quelli provenienti dal resto del paese per le notizie riguardanti gli avvenimenti nell’isola; alcune testate vennero chiuse e furono introdotte forti restrizioni per i permessi di entrata nell’isola di esponenti politici provenienti dal resto d’Italia.
Si perfezionò così l’armamentario poliziesco-giudiziario volto a cancellare quel movimento e si ebbe cura che il tutto potesse avvenire senza troppo clamore.
Da quel valente soldato che era, il generale Morra di Lavriano non risparmiò energie e determinazione nel portare a compimento la missione affidatagli predisponendosi, come ebbe ad anticipare, “ad una applicazione pronta ed energica dei rigori della legge”.
Lo Stato d’assedio andò avanti fino al mese di agosto di quell’anno e il generale, commissario concludeva con queste parole la propria relazione conclusiva al Governo: “…vedere conservata la pace, che ho procurato di ridare stabilmente a questa regione ed il saperla continuamente diretta ad ottenere il suo miglioramento economico ed amministrativo, sarà il miglior compenso all’opera da me prestata in favore di questa terra benedetta”. A riconoscimento dell’ottimo lavoro svolto, Morra di Lavriano a conclusione di quel suo impegno, venne insignito dell’onorificenza di Grande Ufficiale dell’Ordine Militare d’Italia.
Ma torniamo agli avvenimenti di inizio anno.
Nelle giornate drammatiche che portarono, il 3 gennaio 1984, a decretare lo stato di assedio in tutta la Sicilia, il Parlamento del Regno d’Italia era chiuso, in pausa natalizia. Alla sua riapertura, a partire dal 21 febbraio 1894, la Camera dei Deputati dedicò una tormentata sessione di lavori ai tumulti scoppiati in Sicilia ed ai provvedimenti adottati dal Governo volti a ripristinare l’ordine in quella Regione.
Crispi - primo Ministro e Ministro degli interni - fu protagonista assoluto di quel lungo ed aspro dibattito. Già in avvio di quella discussione, in un breve intervento su una questione incidentale, ebbe modo di anticipare, con parole molto dirette, la valutazione del Governo sugli avvenimenti siciliani e non esitò ad evocare la responsabilità di potenze straniere interessate alla dissoluzione della nazione: “È una spedizione all'inverso di quella di Marsala, che si voleva compiere. Si tentò, insinuandosi nell'animo ingenuo dei nostri contadini, laboriosi, sobri, di una bontà mirabile, far loro credere che il Governo nazionale fosse un nemico anziché un protettore. E come si svolse questo movimento? Con incendi, con rapine, con assassini di pubblici funzionari, distruggendo gli archivi dei municipi, recando la desolazione nei quattordici Comuni che sventuratamente furono il teatro dei loro perfidi conati….  La Sicilia, che era stata scelta come quella che doveva dare l'iniziativa del moto al quale doveva rispondere anche il continente, dette a noi in quei giorni lunghe ore di mestizia e di dolore, soprattutto a me che avevo speso i primi anni della mia vita alla costituzione dell'unità d'Italia...”.
Dunque alla base di quanto era accaduto in Sicilia, per il Primo Ministro, vi era l’opera interessata di sobillatori che utilizzavano lucidamente il malcontento popolare con lo scopo palese di attentare all’unità della nazione con la copertura di potenze straniere che sostenevano tale disegno.
Una ricostruzione, in particolare la evocazione del complotto internazionale e la minaccia all’unità del paese, che è da considerare tutt’altro che estemporanea perché sarà giocata dal Governo come il presupposto fondamentale (sotto il profilo giuridico statutario oltre che politico) a sostegno della proclamazione dello stato d’assedio.
A questa lettura dei fatti seguì un duro scambio polemico con l’On. Napoleone Colajanni che accusò Crispi di dire falsità sulle cose di Sicilia dove “non esiste un movimento separatista che volesse disfare la patria comune” e con la replica del Presidente del Consiglio che garantiva invece sull’esistenza di “documenti che schiacceranno le sue affermazioni”.
Altrettanto decisa la reazione del deputato socialista Badaloni che rivolto al Presidente del Consiglio affermò: ” Di fronte a questi fatti, di fronte allo strazio della libertà e della vita di centinaia e di migliaia di uomini, spinti ad insorgere (lasciatemelo dire, onorevole Crispi, perché è il vero) non dai sobillatori o dai nemici dell'idea nazionale, ma dalla miseria, qualunque cosa in contrario possano dire i documenti da voi raccolti, perché questi non possono distruggere in nessun caso la realtà provata della miseria infinita, inenarrabile, che gli stessi vostri cooperatori al Governo videro e descrissero..”. E questo fu l’inizio della discussione.
Alla base di quella sessione di lavori parlamentari vi era una mozione presentata dal gruppo socialista il cui testo così recitava: «La Camera, ritenuto che il Governo con lo stato d'assedio, coi tribunali militari straordinari e con le enormità commesse a danno della vita e della libertà dei cittadini, abbia, per interessi di classe e col pretesto dell'ordine, dato esempio di arbitrii e violenze repugnanti alle leggi del progresso e della giustizia sociale, violando gli articoli 6, 26, 27, 28, 32, 70 e 71 dello Statuto; delibera: a norma dell'articolo 47 del medesimo di porre il Governo in istato di accusa. — Badaloni, Agnini, Prampolini, Ferri».
La discussione che ne seguì offre uno spaccato di sicuro interesse sulla considerazione che dei tragici eventi di Sicilia avevano maturato i principali partiti ed esponenti politici nazionali e sul posizionamento che assunse la deputazione siciliana di fronte al precipitare di quella crisi.
Una discussione che meriterebbe uno spazio più ampio e appropriato, ma nell’economia di questo intervento mirato a ricostruire alcuni aspetti della specifica vicenda processuale a carico dei componenti del fascio, l’attenzione è riservata a quella parte della discussione che si concentrò sulla contestazione della legittimità giuridico-statutaria dei provvedimenti adottati dal governo e segnatamente la decretazione dello stato d’assedio e la istituzione dei tribunali militari speciali.
La strategia dell’opposizione fu evidente fin dall’inizio; l’attacco al Governo non si limitava a contestare il merito politico dell’azione repressiva intrapresa in Sicilia ma intendeva dimostrare che proprio il Governo nel reprimere i fasci, accusati di violare la legge, si poneva esso sul terreno della illegalità calpestando i principi giuridici dello Statuto che pure asseriva di volere difendere.
Intervenendo sul punto, l’On. Altobelli non esitò a definire il decreto di proclamazione dello stato d’assedio “…incostituzionale…non essendo il provvedimento consentito dallo Statuto.
L’oratore fece osservare come il decreto non riportasse un solo articolo di legge dal quale, anche indirettamente, si potesse fare discendere la misura eccezionale adottata e ricondurla all’interno dell’ordinamento.
Ribatté il Presidente del Consiglio Crispi che invece tale norma esisteva ed era l’art. 246 del Codice penale militare; seguì la lettura in Aula da parte del Deputato Altobelli della disposizione richiamata dal Governo come fondamento del regio decreto: “ Allorché il territorio di una divisione o sottodivisione militare o quello dipendente da una piazza di guerra, fortezza o posto militare, saranno invasi da truppe nemiche, ovvero saranno le stesse a distanza minore di tre giornate ordinarie di marcia, dovrà quel territorio o piazza di guerra, fortezza o posto militare essere considerato in stato di guerra” ed aggiunse, rivolto al Presidente del Consiglio,  “Ma dove erano le truppe nemiche che avevano invaso, o minacciavano d'invadere il territorio italiano? Forse il Governo ignorava che quella disposizione si riferisce unicamente allo stato di guerra? Qui si è fatto ricorso… al Codice penale militare che voi, onorevoli colleghi, sapete, si riferiscono allo stato di guerra e non possono per conseguenza applicarsi in tempo di pace”.
Appare chiaro dunque il senso di quel riferimento alla condizione sostanziale da stato di guerra anticipata dal Presidente del Consiglio e la sua evocazione del disegno di potenze straniere teso a sobillare il malcontento popolare in Sicilia per smembrare lo Stato italiano. Questioni sulle quali Il presidente del Consiglio aveva promesso al Parlamento la presentazione di prove inconfutabili; prove che si risolsero in realtà nella citazione di denunce generiche, documenti improbabili e storicamente inconsistenti, quando non riconosciuti del tutto falsi, prodotti nei sottoboschi delle strutture investigative più compiacenti, a cominciare dal famigerato Trattato di Bisacquino.[3]
In effetti sulla debolezza della costruzione giuridica portata a fondamento del provvedimento di proclamazione dello stato d’assedio, a dubitare per prima era stata la Corte dei Conti che ne aveva rifiutato la registrazione e quando successivamente lo dovette fare sulla reitera del Governo, lo registrò con riserva e riportando nelle motivazioni che comunque il provvedimento usciva “dai confini della legge scritta”.
Lo stesso Crispi finì con l’offrire una prova indiretta del vulnus giuridico che era stato operato con l’adozione di quel provvedimento, allorché propose di aggiungere al progetto di riforma del Codice penale militare allora in itinere, un nuovo articolo 337 bis che prevedeva la possibilità di proclamare lo stato di guerra anche “in caso di insurrezione o d’imminente pericolo della pace pubblica”; segno che quella fattispecie non era rinvenibile tra le disposizioni vigenti e che le due condizioni (invasione da parte di truppe nemiche e insurrezione o imminente pericolo della pace pubblica) non potevano considerarsi equivalenti.
Del resto gli stessi interventi pronunciati nel corso della discussione alla Camera da quei parlamentari schierati a sostegno dell’azione governativa, argomentarono sostanzialmente che la questione aveva natura politica e non giuridica.
Particolarmente esplicito fu, al riguardo, l’intervento dell’On. Antonino Di San Giuliano che difese le scelte del governo e criticò gli argomenti utilizzati da Sacchi ed Altobelli “i quali sono andati interpretando questo o quell'articolo dello Statuto, questa o quella disposizione del Codice penale militare… mentre la vera questione sta nel vedere se lo stato d'assedio, con tutte le sue conseguenze, era, o non era necessario. Se non era necessario, il Governo ha fatto male, comunque s'interpretino lo Statuto e le nostre leggi. Se era necessario, la questione di diritto costituzionale è implicitamente risoluta”.  E lo stato d’assedio era necessario, concludeva il deputato siciliano.
Dunque nello stato di diritto immaginato dall’oratore, legittimo non è ciò che è previsto dallo Statuto (la Costituzione del Regno) e dalle leggi vigenti ma ciò che il governo valuta necessario e meritevole di essere considerato tale.
La discussione registrò anche un siparietto con applausi ironici e grida di bravo provenienti dai banchi dell’estrema sinistra indirizzate all’On La Vaccara deputato per Piazza Armerina, allorché affermò che nello Stato d’assedio aveva addirittura trovato vero e proprio conforto.
Parimenti illegittimo, per Altobelli, era da considerarsi il provvedimento adottato dal Regio Commissario Morra di Lavriano che aveva istituito i tribunali militari speciali; illegittimo perché assunto da una autorità che non ne aveva la competenza e perché in contrasto con “il divieto di essere sottratto ai propri giudici naturali, il divieto di non potersi per ciò creare tribunali o commissioni straordinari, scritto nello Statuto”
A tutela di tali principi furono richiamati, in particolare, l’art. 70 dello Statuto del Regno (“Non si può derogare all’organizzazione giudiziaria se non in forza di una legge”) e l’art. 71 (“Niuno può essere distolto dai suoi giudici naturali. Non potranno essere perciò creati tribunali o commissioni straordinarie”).
Con i provvedimenti emanati invece si erano sottratti dei cittadini alla giurisdizione del loro giudice naturale e si derogava all’organizzazione giudiziaria non con una legge, come previsto dallo Statuto, ma con un editto del Regio Commissario che così esercitava un potere che non aveva e che non gli avrebbe potuto conferire nemmeno il Governo poiché anch’esso non lo aveva in quanto quel potere apparteneva esclusivamente agli organi ai quali lo Statuto (art. 3) attribuiva la funzione legislativa ossia al Re e al Parlamento che lo esercitano congiuntamente.
Osservarono gli oratori che nei giudizi innanzi ai tribunali di guerra era calpestato anche il diritto di difesa degli imputati che si videro negata la possibilità di scegliersi un difensore civile di propria fiducia per essere difesi da militari comandati a quel ruolo.
E non era tutto! Nella gran parte dei casi, Pietraperzia tra questi, le persone furono sottoposte al giudizio dei tribunali di guerra per fatti che avevano commesso ancor prima della dichiarazione dello stato di emergenza e prima della istituzione dei tribunali militari speciali.
Ma al di là della fondatezza di tali denunce, i numeri in quel Parlamento erano dalla parte del Governo e quella lunga ed appassionata discussione si concluse con l’approvazione di un ordine del giorno tanto laconico quanto inequivoco: “La Camera approvando l’azione del governo diretta alla tutela della pace pubblica confida ch’esso saprà definitivamente assicurarla con opportuni provvedimenti legislativi.”
A questa azione di mistificazione del merito giuridico della questione, non si sottrasse nemmeno la Corte di Cassazione in sede di pronuncia sul ricorso contro la sentenza del Tribunale militare di Palermo a carico dei dirigenti regionali del fascio.
In quella occasione la suprema corte sostenne che “la proclamazione dello stato d’assedio, se non dalla legge scritta, poteva essere giustificata dalla suprema legge della salute della patria, ossia da necessità di Governo… e la condotta del Governo fu a grandissima maggioranza approvata dalla Camera… e la creazione dei tribunali di guerra ne era la necessaria conseguenza… come conseguenza necessaria era la facoltà del generale comandante di pubblicare bandi aventi forza di legge”.
E quanto alla incompetenza dei tribunali militari a giudicare sui reati commessi prima della loro istituzione e della proclamazione dello stato d’assedio, di fronte ad uno stravolgimento così palese di uno dei principi giuridici più pregnanti dell’ordinamento, si limitò ad osservare che “Dal momento che si deve riconoscere aver vigore di legge la proclamazione dello stato d’assedio e la creazione dei tribunali di guerra, ne consegue che la giurisdizione di questi tribunali era e doveva essere quella indicata dai bandi”.
E così il cerchio si chiuse con una pronuncia del massimo organo giudiziario di garanzia della legittimità formale degli atti e della loro corrispondenza alla legge scritta che invece ne legittimava una loro lettura sostanziale, magari fuori dalla norma ma corrispondente alla suprema legge della salute della patria secondo la declinazione che di essa faceva il Governo.
Venne introdotto così, in spregio ad ogni principio di legalità, un apparato giuridico-repressivo mostruoso allo scopo, si disse, di riportare la legalità nell’isola.
La ragion di Stato scagliata contro un manipolo di contadini ignoranti e facinorosi: come potevano sperare di farla franca?
Ed in effetti quella macchina funzionò alla perfezione. I Tribunali militari distribuirono nell’isola più di 5000 anni di prigione tra dirigenti e contadini iscritti al movimento dei fasci; circa 2000 persone (di cui 174 di Caltanissetta e provincia) furono inviate al domicilio coatto.
Ecco qual era il contesto nel quale quei 73 contadini di Pietraperzia sobillatori e nemici della patria vennero trascinati davanti al tribunale militare di Caltanissetta.
L’epilogo era scritto: stava tutto nelle premesse e nel clima nel quale quel processo veniva celebrato. Ed infatti, in poco più di una settimana si consumò l’intero rito processuale.
Furono sentiti gli imputati, sfilarono quasi 250 testimoni, parlò il procuratore fiscale per l’accusa, intervennero i militari assegnati (per meglio dire, comandati) alla difesa degli imputati ed infine giunse la sentenza.
Sentenza che distribuì condanne esemplari a quelle teste calde.
Un trafiletto del periodico nisseno Vita Nuova riporta la cronaca della seduta conclusiva del processo con la lettura della sentenza e scrive “Giovedì 12 corrente, dopo 9 giorni di dibattimento, questo Tribunale militare pronunciò la sentenza contro gli imputati dei disordini di Pietraperzia. Il Tribunale ne assolse 18 su 73, condannò a pene che oscillano dai 3 agli 8 anni, gli altri a pene superiori. Le pene più gravi furono applicate ai seguenti: Di Dio Antonino anni 21 di reclusione; Fiorino Gaetano anni 15 e 6 mesi; Lombardo Sebastiano anni 14; Mazzola Ciro anni 14 e mesi 6; Mazzola Michele anni 15 e mesi 6; Martorana Salvatore e Giuseppe anni 14 e mesi 6; Martorana Giuseppa (intesa la moglie del traditore) anni 13; Meglio Achille anni 14 e mesi 6; Nicoletti Vincenzo anni 14; Rabita Luigi anni 12. La sentenza fu accolta con grida e pianti dagli imputati e dai loro parenti che fecero un vero pandemonio”. Un compendio completo dei nomi e delle relative condanne è riportato nel prezioso citato lavoro di Vincenzo Di Natale.
Nel complesso la sentenza comminò quasi 500 anni di carcere oltre all’obbligo a risarcire le spese processuali e i danni provocati che la perizia aveva stimato in 11.710 lire così ripartiti: 4000 Municipio; 1000 Pretura; 5000 Ufficio Registro; 1500 Casino dei nobili; 200 Circolo Buoni Amici; 10 Ufficio telegrafico.
Del clima in cui si svolse quella udienza con le urla di disperazione degli imputati e dei parenti man mano che si procedeva alla lettura delle condanne, diede conto la Gazzetta Nissena riferendo anche della decisione del Presidente del tribunale, di fronte a quelle reazioni, di sospenderne la lettura e fare sgombrare l’aula prima di riprenderla.
“Terminata la lettura, gli imputati si danno in preda al più disperato pianto": così si conclude quella cronaca.
Un finale drammatico e angosciante; il più disperato pianto di donne e uomini che vedevano aprirsi davanti a loro il baratro di anni di prigione e un destino ancor più nero di miseria per le loro famiglie. Una intera comunità umiliata.
Ebbene, sono passati appena centotrenta anni da quel tragico capodanno di morte del 1894 a Pietraperzia; dalle violenze, dalla caccia all’uomo e dagli arresti che seguirono nelle giornate successive; dalla umiliazione del processo cui furono sottoposti in tanti davanti ad un tribunale militare; dalle accuse infamanti alle quali tanti furono inchiodati anche da testimonianze interessate ed inaffidabili (emerse anche nel corso del dibattimento processuale) e dalle pesanti pene carcerarie che ne seguirono. Tra testimoni e imputati il processo vide coinvolti direttamente circa 350 persone! Praticamente non vi fu famiglia di Pietraperzia che rimase estranea a quegli eventi. Tutto questo accadeva poco più di un secolo fa! Un lasso temporale che, nella storia di una comunità, viene considerata relativamente breve: appena qualche generazione. Eppure una storia così tragica, una storia che segnò così in profondità la comunità, che coinvolse direttamente la gran parte delle famiglie di Pietraperzia, famiglie che ebbero morti e patirono condanne, una storia che finì per allargare il fossato e il risentimento tra chi quelle umiliazioni e quelle sconfitte le subì e chi invece celebrò la vittoria della legalità, ebbene quella storia appare oggi come svanita nella memoria della nostra comunità. È vero, non mancano pregevoli tentativi di raccontare quella pagina di storia: un lavoro cui si sono dedicati con passione e competenza alcuni studiosi locali.

Ma io mi riferisco piuttosto a quella che appare come una evidente perdita della memoria collettiva di quei fatti; una perdita nel sentire della comunità; nel riconoscere e riconoscersi in quella storia, sentendola come la propria storia; nell’attitudine stessa delle famiglie a coltivare e tramandare, anche per le vie del racconto e della tradizione orale (un altro dei percorsi che lega le generazioni di oggi a quelle che le hanno precedute) vicende tanto intense quanto drammatiche ed a noi così vicine.
Come sia potuto accadere tutto ciò ed in così breve lasso di tempo risulta, almeno per me, difficile da comprendere. E tuttavia avverto quanto importante sia per noi cercare di colmare questo oblio; cercare di riportare in superfice (anche rovistando nelle carte, nei ricordi e nelle storie delle nostre famiglie) eventi, sentimenti, speranze e delusioni che accompagnarono quelle vicende e quella generazione che ne fu protagonista.
Recuperare, quanto più è possibile, frammenti di questa memoria serve anzitutto a noi, alla nostra ricerca di identità comunitaria ma, al contempo, è anche un doveroso atto di giustizia riparativa verso i nostri nonni o bisnonni che in quel fine secolo si organizzarono e presero parola provando a dire la loro su come andavano le cose e per questa loro improntitudine pagarono un prezzo così feroce e spropositato.
Un lavoro che potrebbe entrare a giusto titolo nel programma di recupero dell’identità e della storia della nostra comunità che l’Associazione degli Amici della Biblioteca sta meritoriamente portando avanti.

Salvatore Di Gregorio

 

[1] Vincenzo Di Natale, IL FASCIO DEI LAVORATORI DI PIETRAPERZIA - I tumulti del 1° gennaio 1894

[2] Francesco Renda. I fasci siciliani (1892-1894), Einaudi, 1978

[3] Un documento redatto, sulla base delle rivelazioni di un confidente, dal delegato di pubblica sicurezza del comune di Bisacquino. Il testo parlava di una congiura ordita da alcune potenze straniere (segnatamente Francia e Russia) che “a mezzo dei fasci dei lavoratori socialisti…hanno di mira lo smembramento della Sicilia dal resto d’Italia…la Sicilia sarebbe invasa dalla Russia e tenuta da essa come base d’operazione sopra Costantinopoli…”. Allorché quel delegato venne chiamato a testimoniare sulle circostanze nelle quali era venuto in possesso del documento, durante il processo di Palermo a carico del Comitato centrale dei Fasci, incalzato dalle domande di avvocati e imputati, si produsse in una serie di contraddizioni che gli valsero una ammonizione nel corso del dibattimento. E quando gli venne chiesto su cosa basasse la convinzione dell’attendibilità del confidente, rispose Ne ho la certezza metafisica. A quelle parole, riportano le cronache del tempo, la sala proruppe in risate straripanti (Rino Messina. Il processo imperfetto 1894: I fasci siciliani alla sbarra. Sellerio editore. Palermo).



10 marzo 2024

LA SICILIA DEGLI DEI. UNA GUIDA MITOLOGICA - Le recensioni di Salvatore Marotta

LA SICILIA DEGLI DEI
UNA GUIDA MITOLOGICA
Giulio Guidorizzi, Silvia Romani,
Raffaello Cortina Editore, Milano 2022.


Viaggio nella Sicilia da leggere


La Sicilia è da sempre culla di storia, cultura, sapori, tradizioni, ma è anche la terra per eccellenza intrisa di miti e leggende. Si può dire che non ci sia luogo in Sicilia che non abbia alla sua origine un mito o una storia leggendaria da raccontare. Gli autori di questo bel volume pubblicato da Raffaello Cortina Editore, Giulio Guidorizzi e Silvia Romani avevano già pubblicato per lo stesso editore due libri: "In viaggio con gli dei. Guida mitologica della Grecia" e "Il mare degli dei. Guida mitologica alle isole della Grecia"; era dunque inevitabile una guida mitologica alla più grande isola del Mediterraneo che di miti ne ha da vendere. Ma il titolo non tragga il lettore in inganno perché non di soli miti si parla essendo il mito intimamente legato alla storia. Grazie a questa guida potremo meglio conoscere e apprezzare con uno sguardo nuovo il significato di luoghi, paesaggi, monumenti e reperti e godere di un'esperienza di viaggio più consapevole. Gli autori attraversano la Sicilia sulle tracce dei miti e delle storie in un viaggio che parte dalle "terre di vento e di fuoco", le Eolie, dove un re leggendario di nome Liparo diede il nome a Lipari. Per i Greci era il luogo dove aveva sede il signore dei venti, Eolo, dove un giorno approdò Ulisse con i suoi uomini dopo essere sfuggiti ai massi del Ciclope Polifemo. Ci spostiamo a Messina dove troviamo Scilla e Cariddi, un mostro dalle tante teste e un gorgo che avviluppa e poi espelle. Ci avviciniamo a Taormina e alla riviera dei Ciclopi. Goethe definì il teatro di Taormina "Il più grande capolavoro dell'arte e della natura". Abitata in origine dai Siculi, i Greci si stanziarono sulla costa, a Naxos, che fu la prima colonia fondata nel 734 a.C. Siamo sulla riviera dei Ciclopi e la leggenda di Aci e Galatea ci spiega perché nove località iniziano con il nome di Aci. Poi c'è Catania, ricca di fascino e mistero, con il suo Liotru, la fontana dell'elefante simbolo della città e con la leggenda di via Crociferi; a Santalfio, sulle pendici orientali dell'Etna, troviamo "il castagno dei cento cavalli", un albero maestoso, probabilmente l'albero più antico d'Europa. Saliamo sull'Etna dove vive un gigante mostruoso, Tifone, ma anche il dio fabbro Efesto forgia nel fuoco i metalli in compagnia dei Ciclopi. Seguiamo la vicenda storica di Siracusa, "Atene di Sicilia", una delle città più potenti dell'antichità, patria del grande scienziato Archimede, che con i suoi marchingegni difese la città dall'assedio dei Romani. Ortigia è da sempre il cuore di Siracusa, terra di ninfe, di risorgive, di acque come il fiume Ciane che alla foce incontra l'Anapo e in questo modo i due fiumi rinnovano la promessa nuziale. Un'altra ninfa, Aretusa, era stata trasformata in fonte da Artemide e insieme a Ciane sta a guardia del porto di Siracusa. Come non accennare al magnifico teatro, dove tra maggio e luglio ogni anno migliaia di spettatori assistono alle rappresentazioni del dramma antico e allora sì che si percepisce concretamente che gli dei non hanno mai abbandonato la Sicilia e che il mito si fa storia. E i tesori custoditi nel museo archeologico Paolo Orsi...soltanto la Venere Landolina merita da sola una visita. Certo, il capitolo dedicato a Siracusa è il più corposo di tutto il libro perché non si finirebbe mai di parlare di questa città e dei suoi tesori archeologici ed artistici, delle sue mille storie. "Siracusa è il posto - scrivono gli autori- in cui due amici si possono dare un appuntamento davanti al tempio di Apollo, come a Londra se lo darebbero a Piccadilly Circus o a Parigi a Place de la Concorde". Nell'entroterra, a Enna, principale sede del culto di Demetra/Cerere dove c'era il santuario più venerato della dea, e dove sulle sponde del mitico lago di Pergusa, Ade, il re dei morti, rapì Persefone/Proserpina/Kore. A lei è dedicata l'Università di Enna, ancora una volta il mito si fa storia e vive nell’attualità della più importante realizzazione culturale della nostra provincia. Si può andare oltre senza nominare i mosaici di Piazza Armerina e il museo di Aidone dove ha fatto ritorno la bellissima dea di Morgantina? Qui si scopre un giallo internazionale di furti di opere d'arte che coinvolsero illustri personaggi e collezionisti. Agrigento con la sua Valle dei templi o Selinunte con il suo parco archeologico più grande d'Europa e tanti altri luoghi famosi o meno che tralasciamo per motivi di spazio. Il viaggio si conclude a Palermo, Panormos, la città "tutta porto". Un accenno soltanto al suo genio protettore, il famoso "Genio di Palermo" sulla cui origine e identità non si sa nulla di preciso ma che viene raffigurato ovunque. Nella fontana di Villa Giulia il Genio mostra tutta la sua imponenza e magnificenza:" la statua, realizzata in marmo bianco di Carrara nel 1778 da Ignazio Marabitti, raffigura un sovrano possente con un cane ai suoi piedi a rappresentare la fedeltà. Un'aquila spalanca le ali al suo fianco; alle sue spalle da una roccia pende una cornucopia simbolo di buona fortuna e di abbondanza; in un ramo stringe un serpente che gli si avvita in spire lungo tutto il corpo". Pensiamo che gli autori siano nel giusto nell'accostare il Genio a Saturno, il signore dell'Età dell'oro, la cui iconografia non era molto diversa da quella del Genio di Palermo e stava a simboleggiare un tempo felice in cui la terra offriva i suoi frutti e non c'erano le malattie e la morte. In questo senso il Genio è il ricordo di un'età favolosa e la speranza di un ritorno agli antichi splendori.
In conclusione non possiamo che raccomandare la lettura di questo splendido volume, peraltro riccamente illustrato da disegni e fotografie, a tutti gli amici sinceramente innamorati della Sicilia.



04 marzo 2024

VIAGGIO NELLA SICILIA DA LEGGERE - Le recensioni di Salvatore Marotta

Il colpo di spugna.
Trattativa Stato-Mafia:
il processo che non si doveva fare"

Nino Di Matteo, Saverio Lodato,
Edizioni Fuoriscena 2024.


"Il colpo di spugna. Trattativa Stato - Mafia: il processo che non si doveva fare" è un libro intervista del magistrato Nino Di Matteo, attualmente alla Direzione nazionale antimafia e all'epoca Pm di punta del processo Stato -Mafia, assieme a Saverio Lodato, giornalista e scrittore tra i più esperti di mafia, antimafia e Sicilia. Il libro si oppone al vero e proprio "colpo di spugna" sulla trattativa in seguito al verdetto assolutorio della Cassazione. Di Matteo dice che le sentenze si rispettano ma si possono criticare e il magistrato esercita il diritto di critica senza timori reverenziali e senza peli sulla lingua accusando la sentenza della Cassazione:" Poche pagine pretendono di smontare la valenza probatoria di fatti emersi in anni e anni di lavoro". E ancora:" Con un vero colpo di spugna la Cassazione spazza via tutto, anche fatti che in realtà neppure considera, preferendo semplicemente ignorarli". L'intervista ripercorre questi fatti in modo puntuale, il libro risulta un vero vademecum sull'intera vicenda processuale. Ma cosa s'intende per "trattativa Stato-Mafia"? S'intende l'aver instaurato un canale di comunicazione da parte degli ufficiali del ROS dei carabinieri Subranni, Mori e De Donno, grazie a Vito Ciancimino, con i capi di Cosa Nostra "volto a sollecitare eventuali richieste per far cessare la strategia omicidiaria e stragista". In sostanza, mi alleo con Provenzano per fermare Riina. Ebbene, questo patto scellerato tra uomini dello Stato e la mafia ci fu altrimenti non si spiegherebbe la mancata cattura di Provenzano e la protezione della sua latitanza e soprattutto non si spiegherebbe la scandalosa mancata perquisizione del covo di Totò Riina consentendo ai mafiosi di portar via i segreti del capo mafia e centinaia di documenti scottanti compresa, con ogni probabilità, la famosa agenda rossa di Paolo Borsellino. Che la trattativa non sia stata "fuffa dell'antimafia "lo ha stabilito la sentenza di primo grado che dopo cinque anni di processo, il 20 aprile 2018, la Corte presieduta da Alfredo Montalto " riconosceva in pieno la fondatezza dell'ipotesi di accusa e condannava Bagarella a 28 anni di reclusione, Cinà, Dell'Utri, Mori e Subranni alla pena di 12 anni, De Donno e Massimo Ciancimino (che rispondeva di calunnia in danno di Gianni De Gennaro) a 8 anni di carcere. Con una motivazione particolarmente analitica e approfondita la Corte spiegava, tra l'altro, che gli ufficiali del ROS dei carabinieri e Dell'Utri avevano svolto in tempi diversi - 1992 e 1993 Subranni, Mori e De Donno; 1994 Dell'Utri - il ruolo di istigatori e agevolatori, sollecitando i boss mafiosi a formulare e inoltrare le richieste di benefici in cambio della cessazione della strategia di violento attacco allo Stato". Tre anni dopo, però, la sentenza viene ribaltata i giudici d'appello assolvono Subranni, Mori e De Donno perché "il fatto non costituisce reato" e Dell'Utri " per non aver commesso il fatto". Intendiamoci, la sentenza d'appello non nega la trattativa ma spiega che essa, anche se "improvvida", fu fatta a fin di bene, per evitare altre stragi. Una cosa davvero inquietante. "E proprio per questa ragione - spiega Di Matteo- per evitare che diventasse definitiva una sentenza che, pur assolutoria nei loro confronti, sanciva verità così imbarazzanti, i carabinieri proponevano ricorso per Cassazione". E così si arriva alla sentenza della Cassazione che il 27.04.2023 assolve Mori, De Donno e Subranni non più perché "il fatto non costituisce reato " ma "per non aver commesso il fatto ". Le motivazioni della sentenza saranno espresse in 91 paginette a fronte delle 5237 pagine della sentenza di primo grado e delle 2971 pagine della Corte d'appello. Il colpo di spugna è stato dato sembra verificarsi quello che diceva Leonardo Sciascia:" Se lo Stato italiano volesse davvero sconfiggere la mafia dovrebbe suicidarsi".