31 dicembre 2017

Intervista impossibile a Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Se potessimo ancora parlare con il buon vecchio Principe, cosa gli chiederemmo? Fra il 1974 e il 1975 Radio Rai mandò in onda il programma radiofonico “Le interviste impossibili”: un intervistatore fingeva di dialogare con un uomo del passato, che da un immaginario Aldilà forniva risposte al confine fra il reale e l’esilarante, ma tutte profondamente vere. Ecco, sulla scia di questi Dialoghi, ho risvegliato il nostro amato Principe. E queste sono le parole che ci siamo detti.

V. Salve ...eeehm Principe, Duca, Barone, ecco, non so come chiamarla.

G. Salve a lei signorina. Mah, mi chiami solo Giuseppe. Sa, da questa parte non conta più nessun titolo. Ma mi dica: cosa la porta a varcare il tempo per venire qui a parlare con un vecchio nobile decaduto?

V. Ecco, vorrei parlare con lei del Gattopardo.

G. (Sorride a mezza bocca, fra il divertito e l’amareggiato) Già, che domanda scontata le ho fatto! È l’unica cosa che ho scritto.

V. (Sgrano gli occhi per lo stupore) Primo best seller italiano e oggi tradotto in decine e decine di lingue. Direi che non le è andata poi così male! Ha realizzato il suo sogno, no? (Sorrido) Manzoni lavorò vent’anni ai suoi Promessi sposi, ma se oggi non fosse supportato da decine di pagine sui manuali scolastici e da fior fior di antologie temo che la sua opera verrebbe dimenticata. Lei scrive il suo romanzo in appena due anni, si dilegua prima che venga pubblicato, i manuali le dedicano appena due colonne, eppure riscuote successo.

G. Non esageri, signorina. Manzoni è Manzoni. E poi erano altri tempi...

V. Già. Se Leopardi avesse scritto oggi la sua Ginestra su Facebook, avrebbe ottenuto appena un migliaio di like fra Torre del Greco e Recanati, e il giorno dopo non se ne sarebbe più parlato. Stendiamo un velo pietoso. Mi diceva che i titoli nobiliari nell’Aldilà non hanno più alcun valore, è interessante...

G. Altroché! Non sa che gran sollievo. Tutto il Gattopardo è intriso di quel melenso, struggente, ineluttabile senso della fine. Al tramonto della mia vita scrivevo quelle pagine come uno sventurato che sta per scivolare giù da un precipizio, le parole erano graffi sulla roccia, lasciati dagli artigli di quel Gattopardo. Maestoso. Nobile. Ma destinato a soccombere...

(Si incupisce. Le zampate, gliele vedo ora sulla fronte, fra le sopracciglia aggrottate.)

...poi il fiero felino precipita. Io precipito. E mi sveglio qui. Luce accecante. Strofinai gli occhi e li affondai in un azzurro zaffiro, denso e terso. Dapprima pensai che fosse uno scherzo: pensai di essere resuscitato in Sicilia, in una di quelle giornate primaverili, d’aprile o dicembre che fosse. Trassi un respiro più profondo che mai, come se non ci fossero più i polmoni a confinare l’aria: il tumore mi aveva traghettato qui e m’aveva abbandonato.

V. (Non riesco a trattenere una lacrima che fa capolino nei miei occhi, e cade scorre precipita lungo le guance schiantandosi sul foglio degli appunti, come quel Gattopardo in fondo al precipizio. Mi scuso).

G. Suvvia signorina! È così vulnerabile?! Mantenga il contegno, è un’intervista. Mi sembra proprio come quei siciliani... dai lineamenti severi come il sole di luglio, e poi facili ad abbandonarsi ai sentimenti come le spighe di grano cullate dal vento caldo.

V. Ancora con questo paesaggio? (Tono affettuoso.) Non vorrà farsi rimproverare da Sciascia anche qui.

G. Sciascia, Vittorini, allora agli esordi, avevano solo paura. Temevano che io potessi adombrarli, rubare loro la scena. Ma un astro è un astro. Le stelle in cielo non hanno paura di finire in secondo piano. Sono miliardi e c’è posto per tutte, basta che stiano alla giusta distanza. E io mi allontanai il più possibile: morto! (Ride di gusto) Quando hai qualcosa da dire dillo forte, senza paura che le altre voci si possano sovrapporre alla tua. I messaggi viaggiano ciascuno nella propria orbita, solo così giungono lontano.

V. Mi rincuora. Sa, di questi tempi fra mass media e social network c’è un tale rumore, solo pianeti in collisione. Chissà se avremo lasciato qualcosa o solo mandato l’universo in frantumi...

G. L’universo è in continua espansione, mia cara. Ne so qualcosa di astronomia. Seminate e non preoccupatevi.

V. Avrei qualcosa da chiederle a proposito di quella questione dell’Unità... Adesso che sta da questa parte dove non ci sono più aristocratici né liberali, Borbone né Savoia, può aiutarci a far luce su quegli anni così controversi?

G. Se leggeste il romanzo con la dovuta attenzione ci trovereste tutto. Ecco perché ci tenevo tanto a lasciarvelo! Le immagini, i dialoghi, ogni singolo aggettivo è un saggio storico su quegli anni. Vestito di poesia, certo, ma pur sempre vero. Se avessi solo voluto intonare il canto del cigno della mia classe sociale avrei scritto una poesia, non crede? Vi piace tanto leggere quel dialogo con Chevalley sul sonno e la morte, e tralasciate tutto il resto.

V. È comodo cantare la solita nenia dei siciliani in preda a Morfeo e incapaci di fare. Questo li tiene a bada. È un elegante suggello letterario. Credo che convenga a qualcuno non leggerlo in profondità come meriterebbe. Lei sa bene che l’uscita del suo romanzo scatenò un gran dibattito. Si disse che lei “vituperava la memoria del Risorgimento”.

G. (Ghigna sarcastico) “Vituperare”?! Dovremmo far vituperio di tutta la Storia e riscriverla come si fa con un romanzo, ma da noi stessi! Quella sì sarebbe vera Storia. Più delle storie che ci raccontano con la pretesa che sia verità... Liberarci dallo straniero, volevano! “Ne, Salina, beate quest’uocchie che te vedono”, così il Re aveva accolto il Principe, con un “accento napoletano che sorpassava di gran lunga in sapore quello del ciambellano”. E poi, qual è per un siciliano il concetto di “straniero”? Quindici dominazioni abbiamo avuto, di cui quei diplomatici imbellettati – venuti a proporci di sedere al loro Parlamento, più come un privilegio che come un diritto quale avrebbe dovuto essere – costituiscono l’ultima. Volevano piazzarsi sullo scacchiere politico europeo, ma erano piccoli e fragili. L’Inghilterra accorse in aiuto e lo fece a caro prezzo. Come pagare il debito? Abbassarono gli occhi sui ducati d’oro che riempivano le nostre banche, ecco come! L’Inghilterra pagò quell’uomo di dubbia moralità di Garibaldi che oggi troneggia sulle nostre piazze; pagò le organizzazioni criminali che oggi dilagano come metastasi in questo Stato ammalato, e si fece la conquista.

V. Ci identificano con la Mafia, ma furono le loro esigenze stesse a sancire il patto con lei. Fecero di quelle che erano disorganiche bande criminali, un’organizzazione a tutti gli effetti. Ed ebbero il coraggio di chiamare “briganti” quelli che per anni si ribellarono a quella che era stata solo l’ennesima conquista. Certi giudici e magistrati che muoiono oggi da eroi è lo Stato ad ucciderli, insieme alla Mafia... Però, lei descrive anche un Re “col faccione smorto fra le fedine biondiccie” e dice che la monarchia borbonica era “stomachevole” come il mobilio.

G. Ferdinando era un Re. Aveva proposto lui per primo già nel ’32 una Lega di Stati italiani, ma nel rispetto delle libertà di ognuno di essi. E già alla fine del Settecento suo padre Francesco aveva rifiutato la proposta dei suoi ministri di annettere la marca di Ancona, la Toscana... Non certo il figlio Franceschiello, che era solo un “seminarista vestito da generale”, Ferdinando era un Re e la monarchia era morta insieme a lui. (Indugia pensoso) E alla fine, fatta l’Italia, siete riusciti a fare gli italiani?
V. Macché! Quelli che vollero unirla a tutti i costi dal di fuori, ora sono gli stessi che vogliono tenerla divisa dentro. Partiti, divisionismi, Nord e Sud. Se fosse per loro stessi, gli italiani si amerebbero. Se solo qualcuno non si adoperasse per metterli gli uni contro gli altri... Ma la regola è quella di sempre: divide et impera.

(Lungo silenzio. Gli occhi del Principe sono persi nel vuoto. Trapela inquietudine dall’espressione assorta)

V. Perdoni l’incursione pagana in questo suo tempo sacro, ma sa, oggi è il 31 dicembre. Cosa si sentirebbe di dire in proposito ai suoi lettori?

G. Vivete ogni giorno coscienti, vigili e pieni di propositi come fosse l’ultimo dell’anno. Agite ogni giorno come foste gli ultimi rampolli di una casata in estinzione, come aristocratici in declino. Alla fine restano solo le opere, materiali o scritte che siano.
Mi scusi, ora devo lasciarla. Mi chiamano. (Sorride. Si alza)

VOCE FUORI CAMPO Fabrizio! Fabrizio!

(Riconosco la voce inconfondibile di Mariannina, che squarcia come un lampo il velo del silenzio. Popolana, vigorosa e squillante. Sbatto le palpebre. Mi perdo nell’azzurro di due occhi che mi fissano fieri e benevoli. Il volto illuminato dal bianco abbagliante di una cravatta dal nodo perfetto. La figura possente si volta portando con sé il suo sorriso, e si perde anche lei nell’azzurro. Immobile. Non scorgo più nulla. Solo qualcosa che scodinzola pettinando la luce. Il Principe si allontana col fedele compagno ancora al suo fianco, ingoiato dalla luce).

Valeria Bongiovanni


30 dicembre 2017

Giovanni Culmone racconta: Il Barone Michele Tortorici

Il casato dei Baroni Tortorici affonda le radici nella seconda metà del 1500 e che l’assunzione del titolo “Barone di Rincione”, appartenuto ai Giarrizzo fino al 1897 avvenne per non inflazionare il titolo. 
Lino Guarnaccia nel suo volumetto LA CHIESA MATRICE DI PIETRAPERZIA ha il grande merito diavere aggiunto un altro tassello alla nostra conoscenza, e per questo lo ringraziamo. Lui afferma testualmente che la baronia di Rincione, nel 1897 con atto pubblico, passò ai Tortorici. Ed è vero. Però, allora, non ribadì, a chiare lettere, che i Tortorici erano già Baroni di Vignagrande e solo, dopo la stipula di quell’atto pubblico, cominciarono a fregiarsi anche dell’altro titolo dichiarandosi Baroni di Vignagrande e di Rincione o viceversa. I titolati di vecchio stampo allacciavano rapporti di parentela tra di loro, come si evidenzia scartabellando tra le genealogie delle famiglie dei Baroni Giarrizzo e Tortorici di Pietraperzia, Trigona di P. Armerina, Furitano di Misilmeri e Grimaldi di Enna. Al lettore, per rendersene conto, basta scorrere un qualsiasi loro albero genealogico o, visionare, un antico atto funerario o certificato di matrimonio, facilmente reperibile nell’archivio della Parrocchia Santa Maria Maggiore di Pietraperzia, come quello che qui si riporta, e constatare quanti rapporti di parentela s’incrociano. Per quello che ora interessa per dimostrare inequivocabilmente che il blasonato Tortorici già esisteva nel 1828, molto prima del 1897, basta leggere l’atto di matrimonio di seguito allegato. 

Atto di matrimonio di don Michele figlio del Barone Antonino Furitano

 


Traslitterazione

Si pretende contrarre matrimonio tra Don Michele figlio del Barone Don Antonino Furitano e della Baronessa Donna Antonina Sciarrino di Misilmeri, con Donna Candida figlia del Barone Don Michele Tortorici e della fu Baronessa Donna Lucia Giarrizzo di questa città.
Pietraperzia 14 Settembre 1828

In questo atto di matrimonio si constatano i rapporti di parentela fra tre casati: Michele Furitano (sarà Sindaco di Pietraperzia nel 1860) sposa Candida Tortorici e la mamma di Candida Tortorici era la Baronessa Donna Lucia Giarrizzo.

La famiglia Giarrizzo arriva al 1897senza eredi. L’unica era Antonietta Giarrizzo, andata in sposa al Barone Grimaldi di Enna. Antonietta Giarrizzo, letterata e poetessa, nata il 22 Ottobre del 1811, non si sa se alla data della cessione del titolo fosse ancora in vita.

Il Barone Michele di Michele nacque nel 1878 e s’incontra la prima volta al capezzale del padre, Barone Michele Tortorici di Giuseppe, il 20 Marzo del 1904 quando resta orfano. Il defunto Barone era Consigliere Comunale ed il Sindaco, Stefano Di Blasi allora in carica, e tutto il Consiglio lo vollero al posto del padre e così, il Barone Michele di Michele diventa Consigliere Comunale. Il 23 Dicembre dello stesso anno 1904, appena venticinquenne, venne eletto Sindaco e il primo Febbraio del 1905 sposò Rosa Nicoletti, figlia del Cav. Uff. Giuseppe Nicoletti, già Sindaco. Rimase in carica fino al 22 Dicembre del 1909.
Dopo di lui e fino all’elezione a Sindaco dell’Avv. Giuseppe Milazzo del 25 Maggio 1921 s’alternarono dieci Sindaci tra i quali si ricordano:

Mendola Cav. Rosario Sindaco dal 27/04/1912 al 18/07/1914, nonno della Farmacista Dottoressa Cristina Mendola;

Perdicaro Dott. Vincenzo Sindaco dal 18/07/1914 al 26/08/1917, nonno della Professoressa Concettina Perdicaro;

Ragusa Sig. Rosario Sindaco dal 26/08/1917 al 09/11/1919, poi Presidente del sodalizio “Regina Margherita”.
Furono gli anni più duri della sopravvivenza dei nostri antenati. La partecipazione alla guerra del 15/18, come tutti ancora oggi la ricordano, lasciò strascichi dolorosi. In quel periodo nessuna opera pubblica di rilievo fu realizzata. Per la popolazione con un tenore di vita molto basso non c’erano ammortizzatori sociali né assistenza sanitaria. I giovani che s’immolarono al fronte per la patria lasciarono spesso vedove ed orfani senza alcun sostegno. Il governo centrale era allo sbaraglio, non riusciva a dare risposte credibili. A complicare la sopravvivenza ci fu la nascita del brigantaggio e la diffusione dell’abigeato: si rubavano anche le galline.

L’avvento del fascismo, percepito ufficialmente dopo il 2 Aprile del 1927, data di nomina del primo Podestà, fu salutato dalla gente comune come un toccasana. Si avvertì la frenata del brigantaggio e la scomparsa dei furti di bestiame. “Si poteva dormire con la porta aperta”, ripeteva la gente. Andare al mulino per la macina di una bisaccia di grano, diventò più sicuro, non si correva il rischio, come prima, di essere privati del grano e della cavalcatura.

Eletto Sindaco l’Avv. Giuseppe Milazzo nel Settembre 1921 si approva il progetto della sistemazione della Sorgente S. Giovanni e relativa conduttura fino al fonte canale.

Allora l’acqua della sorgente scorreva a cielo aperto e arrivava al fonte canale, abbeveratoio comunale, come tutte le sorgente di campagna: per facilitare il riempimento delle brocche spesso vi si sistemava allo sbocco una foglia di agave. Pensare ad una grossa vasca ottagonale per abbeverare gli animali da soma, a diverse cannelle per riempire le brocche, ad una vasca più bassa per dissetare gli ovini e ad altre due vasche a terra, concepite per lavare il bucato, com’era nel progetto, sembrava una chimera. La realizzazione di quest’opera pubblica segnò un salto di qualità della vita.

Ancora in carica lo stesso Sindaco Avv. Giuseppe Milazzo, si precisarono i provvedimenti per l’illuminazione elettrica.

Dalla delibera del 9 Agosto del 1925 si legge… »... Indi il Presidente propone perché in esecuzione a quanto venne stabilito nel verbale di verifica e consegna del 20 ottobre 1924 in riguardo alla maggiore illuminazione notturna, il Consiglio nella odierna seduta, che è la prima dopo la sua costituzione in cui si occupa della questione, deliberi, se intende averla in modo quasi totale, così come risulta dal detto verbale, cioè con l’accensione di lampade da 25 nei corsi Vittorio Emanuele, Garibaldi e Umberto I e completa in tutte le altre strade, oppure intende averla per come stabilito nel contratto del maggio 1923 e con la forma di cui nel verbale del 20 ottobre 1924 per quanto riguarda i Corsi Vittorio Emanuele e Umberto I».
Dopo analoga discussione nel riguardo, il Consiglio con voti unanimi Delibera di invitare la ditta Martorana e Compagni a fornire l’illuminazione elettrica notturna secondo le condizioni stabilite nel contratto del 13 maggio 1923 e di corrispondere fino all’approvazione della presente deliberazione il compenso di L. 3.000 all’anno per la maggiore illuminazione notturna fornita a questo Comune giusta quanto fu stabilito nel suddetto verbale di verifica e consegna. Indi il Presidente invita il Consiglio a deliberare nel seguente…”

Da una intervista fatta al testimone oculare, Rocco Zappulla del 1905, morto poi a 98 anni, si apprese:

Tra il 1919 e il 1920 arriva a Pietraperzia un certo Petrosino. Affitta un locale a piano terra, di modeste dimensioni, ubicato allora di fronte la tettoia del mulino della Signora Martorana. Per i pietrini, di fronte “l’appinnata di la màchina di Callararu”. Dov’era il locale preso in affitto, oggi insiste la casa di Filippo La Monica.
“La màchina di Callararu”, locale interrato e a piano terra occupava tutta l’area dove oggi sorge il palazzo che ingloba la farmacia Cannata-Quartararo.

Il Petrosino collocò, in quel locale, un motore a scoppio, residuato bellico, e una dinamo da accoppiare al motore con lo scopo di generare corrente elettrica. Sfruttando amicizie locali, ottenne dal Comune un contratto per la fornitura di corrente elettrica, sufficiente ad illuminare, con cento lampade da 25 Watt, il Corso Vittorio Emanuele, la via Umberto e la via Garibaldi. Alla scadenza del termine fissato per contratto, il Petrosino, non potendo onorare il contratto, fu obbligato a cederlo alla Martorana. Si dice che, il meccanico del mulino, abbia sabotato il motore del Petrosino, inserendo una bulletta (na taccia) all’interno del cilindro, mentre era aperto per manutenzione!

Per la Signora Martorana, fu un regalo inaspettato. Il suo impianto, da qualche tempo produceva corrente elettrica, per opera del valente meccanico, Giovanni Pastorello, conosciuto nel campo dei geni, che era riuscito ad ammodernare il tutto, da meccanico ad elettrico: col motore a gas povero, anziché dare movimento alle macine, attraverso una serie di giunti cardanici, riuscì a produrre corrente elettrica necessaria a muovere l’impianto. Per onorare il contratto col Comune non si frapposero problemi di rilievo: di giorno azionava il mulino per la macina del grano di notte forniva corrente elettrica per illuminare le strade.

La Principessa di Deliella sottolineò l’evento col regalare alla Chiesa Madre l’impianto d’illuminazione interna che fece realizzare da maestranze fatte arrivare da Palermo.

A proposito dell’inaugurazione dell’illuminazione elettrica nella Chiesa Madre la notte di Natale del 1925, Michele Ciulla scrive: «a un certu pųntu di la Mįssa lu parrįnu Cųccu si mįsi a-ccantari ccu la vųci forti e –qquannu dįssi Gloria in eccelsissi la chjisa sbampà. Mamma mia cchi-llųstru! Si putiva scarįri na ǥuglia nterra. Ncapu l’artaru unni cc’era lu Bamminiḍḍu cc’era u-llųstru ca pariva lu sųli».

Sembra essere cominciata per Pietraperzia l’era dell’evoluzione e della trasformazione del vecchio in meglio: nel Febbraio 1926 si avvia la pratica per la pavimentazione del Corso Vittorio Emanuele.

Il 2 Aprile del 1927 il Barone Michele Tortorici fu nominato Podestà. La gente comune non percepisce niente dell’avvento fascista, avverte solo il cambiamento formale: il Sindaco di ieri si chiama oggi Podestà. Lo accetta ben volentieri per la generosità da sempre dimostrata, per i suoi precedenti di amministratore e ora si aspetta grandi miglioramenti.

Con Deliberazione n. 7 del 20 Aprile del 1927 «si accetta la proposta dell’Ing. Vincenzo Nicoletti, notificata al Comune con lettera del 25-05-1926, che individuava, come unica sorgente (sei litri al secondo) capace di alimentare il paese, quella dell’ex feudo Sciortabinello territorio di Castrogiovanni e di approntare il progetto esecutivo per la realizzazione della rete idrica e fognaria in tutte le strade del Comune».

Il 05/05/1927 s’istituisce la Banda Comunale

Tra i mesi di gennaio e dicembre del 1928 vengono deliberate numerose opere.
La pavimentazione del Corso (oggi Piazza) Vittorio Emanuele con mutuo a lungo termine concesso dalla Cassa Rurale Maria SS. del Rosario.
L’acquisto di n. 7 “candelabri” da sistemare nel Corso Vittorio Emanuele.
La nascita della Villa Comunale, Parco della Rimembranza e Campo Sportivo, terreno acquistato ai Sig. Crisafi Vincenzo e Di Lavore Liborio in contrada Canale Tonnovecchio. Nella deliberazione si legge che il pagamento del terreno doveva avvenire con le somme recuperate dalla vendita delle case di proprietà del comune site tra le vie Castello, Bottino e la nuova via dietro le scuole femminile (plesso Carmine).
In successive delibere si legge che per la realizzazione della recinzione, del cancello, della sistemazione interna e della messa a dimora delle piante fu promossa una sottoscrizione volontaria e molti cittadini prestarono gratuitamente la loro opera.
In contemporanea alla Villa Comunale e al Campo sportivo doveva essere realizzato il Boschetto Littorio su terreno comunale sito all’incrocio della via per Riesi e la strada vicinale per Vallone dell’Oro e Cerumbelle.

Tra i mesi di novembre e dicembre sempre de 1928 si approva il progetto per l’alimentazione idrica dell’abitato (condotta esterna, costruzione serbatoi, distribuzione interna). Si approva anche il progetto delle fognature nell’abitato.
A maggio del 1929 si approva l’installazione dell’Impianto telefonico nell’Ufficio Municipale.
A dicembre del 1930 si decide l’apertura della strada attaccata al teatro comunale (oggi via Monfalcone) e la concessione dell’appalto fu affidata a Adamo Calogero fu Luciano per £. 20.684.

Si fa notare che la delibera per l’apertura della strada attaccata al teatro comunale fu firmata dal Commissario Prefettizio Salvatore Ardizzone. Si temevano interessi privati da parte di qualche consigliere Comunale abitante in quel quartiere.

A gennaio del 1931 si decise la ricostruzione del prospetto del teatro comunale: Direttore dei lavori: Geom. Vincenzo Tortorici.
Le pietre della facciata del teatro comunale furono lavorate dallo scalpellino Cavagrotte di Barrafranca; i mascheroni delle chiavi delle volte dei tre portoni d’ingresso, furono ideati dello scultore pietrino Di Romano, copiate e scolpite su pietra da Matteo Di Natale (testimonianza resa il 04-09-2002 dal perito elettrotecnico Michele Ciulla).

Nel disegno di Michele Ciulla, l’angolo della Piazzetta di S. Maria, spicca il prospetto del vecchio teatro e, all’estrema sinistra di chi guarda, s’intravede un squarcio delle case attaccate al teatro. Le case furono abbattute, ed oggi vi scorre la via Monfalcone. Leggendo la Deliberazione n. 2 del 07/10/1931 con cui si approvano i lavori di sistemazione del teatro comunale, si apprende che, “dopo decenni di forzata chiusura” i pietrini potranno vedere con gioia il teatro riportato al vecchio splendore.
Facendo pochi calcoli si capisce che: il teatro non era agibile dal 1910 circa; i lavori di restauro cominciarono abbondantemente dopo la delibera della concessione dell’appalto e furono ultimati e consegnati, alla fine del 1938. Poi ci furono gli eventi bellici del 1939 e la guerra mondiale. E dulcis in fundo, come si suol dire, la bomba sganciata dagli Americani il 14 Luglio 1943 che danneggiò lo spigolo del teatro, tra via Monfalcone e Piazza V. Emanuele. Da allora il teatro restò chiuso e, dopo il 1946, la decisione irrevocabile degli amministratori di abbattere i palchetti interni e realizzare una sala cinematografica con possibilità di essere adibita all’occorrenza a teatro.
Nella seconda metà del 1900 s’è parlato sempre di restauro e si sono approntati e finanziati progetti con quali risultati? Ma qual era il teatro gioiello di cui la gente sempre ne parla? Quello che si vede nel disegno di Ciulla o quello che si ammira nella fotografia del 1939? 

Per dare maggiore risalto alla trasformazione del sito e potenziare il valore architettonico dell’opera si mostrano a confronto il disegno di Michele Ciulla, unico documento finora reperito, e fotografia del prospetto appena realizzato. 


L’elencazione delle delibere può continuare ma chiudiamo con la n. 31 del 19-02-1938, a firma del Barone Michele Tortorici di Michele, l’ultima del mandato a Podestà, con la quale si approvava la contrattazione del mutuo con la Cassa DD. e PP. di £. 455.580 per le opere della rete idrica interna. Il Barone Michele Tortorici resta uno dei Sindaci più famosi che ha segnato la storia della nostra cittadina. È entrato nella leggenda e tutto quello che di buono s’è realizzato a Pietraperzia nella prima metà del 1900, la gente comune l’attribuisce al Barone Tortorici che fu onorato da quattro mandati, detiene il primato di Primo Cittadino più giovane, almeno fino al 2012, Governò per 4567 giorni.

Giovanni Culmone





27 dicembre 2017

Il cane Bendicò è la chiave di lettura del Gattopardo




Il secondo appuntamento dell’”Incontro con l’Autore”, svoltosi sabato 23 dicembre, ha visto protagonista Giuseppe Tomasi di Lampedusa col suo titanico Gattopardo. Diversi gli spunti di riflessione emersi, sia sui controversi anni in cui il romanzo è ambientato, sia sulla profonda simbologia dell’opera.
Riguardo quest’ultima, di pregnante significato è la presenza dell’alano Bendicò, fedele alleato del Principe di Salina. In realtà, fu lo stesso scrittore a sottolinearne l’importanza in una lettera inedita, inviata da Tomasi il 30 maggio del 1957 al suo amico, il barone Enrico Merlo di Tagliavia, presentandolo coma la chiave di lettura del romanzo stesso.
È necessario premettere la poliedricità della razza: per via della poderosa stazza, fino al Medioevo veniva utilizzato come cane da guerra, per poi divenire un fedele custode di castelli e salotti nobili, come simbolo di regalità ed eleganza. A ciò si associa il suo fondamentale ruolo nella caccia: grazie al suo aspetto longilineo e alla velocità, ha il compito di inseguire la preda fino a farla stancare, per poi lasciare l’infausto compito al cacciatore. Si veda quindi come l’alano non tolga la vita, quasi posizionandosi in un confine labile tra vita e morte, binomio che sarà più chiaro nell'ottica del romanzo.
Il Gattopardo ha come protagonista il Principe di Salina che, sullo sfondo dello sbarco dei Mille a Marsala, assiste alla decadenza della sua classe nobiliare, conservatrice e tradizionalista, e all'arrivismo dei nuovi ricchi, il tutto vissuto in maniera disincantata, con un moto di rassegnazione. Ma il Gattopardo è molto di più: esso è il romanzo dell’immobilismo, della Sicilia che ha un tempo senza tempo, della stasi, dove nulla può cambiare. Ma l’immobilismo si associa al trasformismo, che non è sinonimo di trasformazione, poiché anche ciò che sembra cambiare in realtà rimane com'è, il tutto perfettamente esemplificato nella frase pronunciata da Tancredi, nipote del Principe: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.
Quindi la controversa logica della stasi e del moto, della morte e della vita, dell’immobilismo e del trasformismo è la colonna portante dell’opera, e lo stesso Bendicò diventa compartecipe di tale contraddittorietà, comparendo in punti strategici del romanzo e rappresentando di volta in volta vita o morte,  stasi o moto, per poi occupare prepotentemente la scena nel finale.
Al momento della sua prima comparsa, è evidente già il suo cruciale ruolo: il cane, rattristato dalla propria esclusione, entrò e scodinzolò esattamente al termine della recitazione del rosario, quasi a voler spezzare, con la sua irrompente vitalità, una quadro di religiosità fatto di rito, apparenza, finzione.
Il moto e la vita saranno ancora a lui associati, come quando è definito eccitatissimoaffannato dal proprio dinamismo, o impegnato affannosamente nelle devastazioni delle aiuole, dietro cui si nascondono, probabilmente, le devastazioni dei garibaldini, poiché il cane rivolgeva a lui gli occhi innocenti come per esser lodato del lavoro compiuto: quattordici garofani spezzati, mezza siepe divelta, una canaletta ostruita. Sembrava davvero un cristiano.
Bendicò appare poi accanto alla morte, all’immobilismo. Nel giardino viene nauseato dall’odore delle rose, infatti si ritrasse nauseato e si affrettò a cercare sensazioni più salubri fra il concime e certe lucertoluzze morte. In un passo del romanzo il Principe porta con sé Bendicò nei “carnaggi” e, poco dopo aver osservato degli agnellini squartati, quattro paia di galline attaccate per le zampe si dibattevano per paura sotto il muso inquirente di Bendicò. “Anche questo un esempio d’inutile timore” pensava “il cane non rappresenta per loro nessun pericolo; neppure un osso se ne mangerà, perché gli farebbe male alla pancia.” Il passo, oltre che richiamare l’attività della caccia dell’alano, sembra denunciare l’inutilità delle stragi e della rivoluzione, poiché nessuno ne trarrebbe beneficio, né vinti e né vincitori, essendo il cambiamento solo apparente.
Vita e morte, moto e stasi, sono perfettamente esemplificati nel finale. Dopo molti anni dalla sua morte, il cane appare imbalsamato, nell'inutile tentativo di eternare la regalità della classe nobiliare. Ma egli diviene simbolo di un gattopardo degradato, che nel suo volo fuori dalla finestra sembra muovere le zampe nell'aria; quindi qualcosa di inanimato (ma che vuole essere vivo, poiché imbalsamato) prende vita, in un continuo gioco tra apparenza e realtà. Ma quest’impeto di vita è solo un’illusione, come lo è il cambiamento; tutto, infatti, si trasforma in un mucchietto di polvere livida. D'altronde Tomasi ci aveva già annunciato che tutti gli uomini sono destinati a diventare polvere, e lo aveva fatto con un andamento circolare all'inizio del romanzo, con la preghiera Nunc et in hora mortis nostrae.

Anna Marotta

26 dicembre 2017

Incontro con l'Autore: Giuseppe Tomasi di Lampedusa


Sul Blog del “placido don” padre Carà, è stata pubblicata la cronaca della serata di Incontro con l’Autore. Vogliamo riproporvela integralmente a conclusione di quest’anno, così importante per le iniziative che l’Associazione persegue e si propone di conseguire; per amore della cultura tout court e l’amore per il nostro paese. Queste sono le uniche motivazioni che impegnano e sostengono gli Amici della Biblioteca. Invitiamo tutti: insegnanti, professionisti, giovani e meno giovani, senza preclusioni per nessuno. L'invito di avvicinarsi alla vita dell’Associazione è rivolto a tutte le persone che amano Pietraperzia.



Il ciclo di conferenze storico/letterarie “Incontro con l’Autore” organizzato dall'Associazione “Amici della Biblioteca di Pietraperzia” è giunto al suo secondo appuntamento, svoltosi alle porte del Natale, il 23 dicembre alle ore 19:30 presso la Sala Dionigi del Chiostro di S. Maria.

In una fredda sera d’inverno è stata data luce allo scrittore siciliano Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957) col suo sontuoso Gattopardo pubblicato postumo, nel 1958. Diversi linguaggi si sono intrecciati e hanno allietato il caloroso pubblico: la storia, la letteratura, l’arte drammatica, cinematografica e la musica. 

Acquarello di Nicolò Speciale
Diversi i momenti interessanti della serata, curati meticolosamente dall’Associazione. L’incontro si è aperto con la proiezione di alcuni spezzoni del colossale film “Il Gattopardo” di Luchino Visconti, tratto dal romanzo omonimo. A seguire il moderatore Francesco Lalomia, che ha fornito intriganti curiosità sul gattopardo come specie felina e sul significato che si cela dietro il titolo del romanzo. Brillante poi l’intervento della dottoressa Valeria Bongiovanni, che ha fatto luce sull’ambientazione storica del romanzo e sui controversi anni del Risorgimento, non sempre tramandato dai manuali con la giusta oggettività storica. La scrittrice Lucia Miccichè ha sapientemente letto e recitato le parti più significative del romanzo, accompagnata dal dotto commento della dottoressa Anna Marotta, la quale ha messo in evidenza il profondo simbolismo e le chiavi di lettura dell’opera. Si è approfondita, inoltre, la travagliata vicenda editoriale dell’opera. L’allietante spazio musicale è stato curato dall’Associazione “Musica è Vita”, ad opera della professoressa Teresa Rapisardi alla tastiera, il giovane Stefano Guarneri al violino e il coro di bambini e adulti, impegnato nell’esecuzione dell’inno di Sicilia “Madre Terra”.

L’Associazione appena nata si mostra quindi zelante nel panorama culturale, portando avanti propositi ambiziosi e di alto livello culturale. Il moderatore ha infatti ricordato gli interessanti progetti in cantiere: oltre ai già avviati “Lettura Creativa” e “Incontro con l’Autore”, seguirà la seconda importante donazione di libri alla Biblioteca comunale di Pietraperzia, oltre che il progetto “Mappa Libri”, con lo scopo di far nascere nella cittadinanza pietrina l’amore per la lettura.

Partendo dal verista Verga e passando all'aristocratico Tomasi, si esploreranno pian piano tutti i meandri della nostra cara letteratura siciliana, grazie all'amore e la passione che caratterizza l’Associazione e il proficuo zelo dei soci. Al prossimo autore, con nuovi e stimolanti percorsi letterari da scoprire.

Giuseppe Carà



21 dicembre 2017

Invito alla lettura: Alibi di una notte






Devo premettere di essere un’appassionata lettrice di libri gialli e di thriller in genere, ma ho trovato che Alibi di una notte sia tra i migliori romanzi di Sandra Brown. Autrice di molti bestsellers dal talento letterario eccezionale. Il racconto è avvincente e ben costruito, non scontato e con una descrizione impeccabile dei personaggi.
Nella città di Charleston in una lussuosa suite di albergo, dove viveva, viene rinvenuto il cadavere di Lute Pettijohn, ricco e potente proprietario dell’albergo. Un uomo di dubbia moralità dai molti intrallazzi e con molti nemici. Nemici nella malavita, nemici nella polizia e ci sono sospetti anche su Davee, la giovane vedova, diventata libera e milionaria con la ricca eredità.
Gli intrighi sulla morte di Lute s’infittiscono coinvolgendo anche le persone che indagano il caso. Infatti una persona vicina all'integerrimo Hammond Cross, che aspira a diventare il nuovo procuratore distrettuale, trama per depistare la sua inchiesta. La sera dell’omicidio Hammond conosce una donna, Alex Ladd. Con lei ha una notte di passione. Nel corso delle indagini la bella psicologa Alex Ladd, della quale si è innamorato, diventerà, per una serie di coincidenze, una delle principali sospettate che però, per la sera dell'omicidio, ha un alibi di ferro. Il nostro aspirante procuratore dovrà indagare anche la donna per scoprire chi è il pericoloso killer. Il finale, come ogni giallo che si rispetti, è sorprendente e inaspettato.

16 dicembre 2017

La Grande Bouffe


Vincenzo Campi - La cucina
 
L’occidente sprofonda, mollemente adagiato, su di un sofà logoro e sbiadito.
La grande bouffe non cessa, non può cessare si deve mangiare, masticare, divorare, ingurgitare, ingrassare, aggiungere giorno dopo giorno, ogni benedetto giorno, uno strato di grasso al nostro girovita.
Cosi ci vuole il Re del mondo: grassi, pingui, veloci solo nel consumare.
Ecco, il Neoumanesimo inizia da qui, dalla lentezza dallo Slow Food, dalla riflessione, dal ragionamento, dall’immaginare una nuova esistenza costruita su un nuovo patto con la natura, l’ambiente e il territorio.
Se è vero, come è vero, che noi siamo quel che mangiamo, la rivoluzione inizia da qui: dal buon cibo, da prodotti rispettosi dell’ambiente, della natura, di noi stessi che di quel territorio siamo parte come gli alberi, gli animali, la terra e l’acqua.
In fin dei conti parliamo della legge del ventre: questa è la Gastronomia, sapere le regole per ben mangiare e cioè per ben vivere; bando, quindi, alla fretta, alla frenesia, alle decisioni prese d’istinto senza un forte pensiero dietro, senza una via, una idea, un progetto che non valga solo per il presente, per il contingente, ma che abbia un respiro tale da abbracciare più epoche e generazioni.
Nel cibo meno si innova e meglio è; perché in questo campo l’innovazione fa rima con bieca speculazione.



Non abbiamo bisogno di nuovi prodotti, di nuove creme, nuovi e più solubili grassi, di moderni e più digeribili tipi di latte.
Abbiamo i nostri millenari formaggi, abbiamo la bianca e soffice ricotta -della quale si abbuffò Ulisse con i suoi compagni-, abbiamo l’olio di oliva: -donato all’uomo dalla dea Athena-, il vino che inebrio Noè e che Dionisio diede come elisir ai cattivi pensieri-, e ancora il latte e il miele che scorrono agli uomini dai fiumi del paradiso.
Non abbiamo bisogno di niente altro che non sia la nostra capacità di immaginare un mondo più pulito grazie ad un consumo più etico.
Qualcuno la chiama decrescita felice e che è, teosoficamente parlando, il messaggio delle grandi religioni monoteistiche: vivi con poco rispettando il tuo prossimo.
La regola aurea di Ebrei, Cristiani, Mussulmani, Indù, Buddisti, nativi americani...
Per chi scrive questo è il compito di un Buongustaio, non solo apparire in televisione, nella grande bouffe dei numerosissimi e invasivi programmi di cucina, ma quello di essere guida, anche critica, di tutto quello che ruota intorno al cibo al servizio della natura intesa nel suo complesso come ecosistema.
Significa anche non chiudere gli occhi di fronte ai nuovi e sempre più stringenti temi di carattere etico che la moderna sensibilità ci presenta, ma prenderne atto per cercare un equilibrio che sia possibile tra noi e il mondo sensibile delle piante e degli animali.
Niente ipocrisia, ma rispetto per ciò che si consuma, sperando che un giorno qualcuno non ci chieda di rendere conto delle nostre azioni.
È questo il dubbio che si era insinuato in un giovanissimo porcaio dei Nebrodi, conosciuto durante una visita alla ricerca dei salumi prodotti con il maialino nero dei Nebrodi che percepii avesse in risposta ad una mia domanda, circa una recinzione strana che avevo notato: “Quella si può dire anche che è una specie di camera della morte. Lì facciamo passare i maiali che quel giorno devono essere portati al macello”. Una pausa, un silenzio, e continuando -“di solito sono tra i tre e i cinque maiali; ecco, i primi  non si scompongono più di tanto (anche se diventano un po’ nervosi all'arrivo del camion di cui conoscono il rumore), ma gli ultimi” -e lì un altro silenzio e ancora “gli ultimi non ne vogliono sentire di entrare, grugniscono quasi che sembra gridino e girano vorticosamente come invasati, sbattendo la testa nel recinto”- ed io -“ma mi vuoi forse dire che sentono, percepiscono l’odore della morte?” e lui sorridendo- “si”.

Valerio Eufrate











14 dicembre 2017

Invito alla lettura: Etty Hillesum



           

 
Questa estate La nave di Teseo ha  pubblicato, di Edgarda Ferri, Un gomitolo aggrovigliato è il mio cuore. Vita di Etty Hillesum. Un bel libro che si legge come un romanzo e che ci da l’occasione per andare a leggere o rileggere anche il suo “Diario”. Non è facile descrivere in poche righe la profondità del percorso che Etty Hillesum ci racconta.
Esther Hillesum, detta Etty, è una ragazza olandese di origini ebraiche, colta, curiosa, dalla sensibilità inusuale. Appassionata di letteratura russa e lettrice vorace, piena di vita, di passioni, profondamente libera; lavora come dattilografa al Consiglio Ebraico: la sua è una condizione privilegiata, allo scoppiare della Seconda guerra mondiale e con l'inizio delle persecuzioni razziali potrebbe scappare e salvarsi. Potrebbe coltivare i suoi studi, scoprire l'amore che comincia ad affacciarsi nella sua vita, realizzare i mille sogni suggeriti dalla sua fantasia. Ma decide di non abbandonare la sua famiglia, il suo popolo, e di condividerne fino in fondo la sorte. Etty Hillesum non ha neanche trent’anni quando tutto questo accade. Così, il 7 settembre 1943, dopo i mesi passati nel campo di transito di Westerbork, sale su un treno per Auschwitz da cui, non farà più ritorno. L’animo ribelle e poetico di Etty Hillesum, gli anni della gioventù e della guerra affrontati con uno spirito mai esausto, un “umanesimo radicale” che ha trovato nelle pagine del suo diario e delle sue lettere un'altissima interpretazione letteraria. E può sembrare strano, forse inappropriato, trovare un’intima, preziosa bellezza nelle sue parole, poiché queste si riferiscono a una tragedia storica di portata immensa, l’annientamento di un popolo per volere di altri uomini e al contempo la distruzione di ogni aspetto di umanità che un uomo può infliggere a un suo simile.
La descrizione di ciò che accade, di ciò che si sente dire, delle paure, dei segnali della tragedia incombente, lentamente lascia il posto nel diario al racconto della sua trasformazione interiore, come unico modo per resistere a quegli avvenimenti.
La sua resistenza è puramente interiore, e nasce dalla consapevolezza che la possibilità di trasformazione del mondo è intimamente legata alla disponibilità a trasformare se stessi.
Una pace futura potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso, se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo.
Un testo, il suo diario, ricordiamo ancora, che non si limita alla testimonianza di una tragedia storica, ma che pone un tema universale: la solitudine dell’uomo davanti al dolore, e la ricerca, tutta interiore, profondamente intima, di una possibilità di comprenderlo e accettarlo.
Considerata uno dei simboli della Shoah, la vita e le opere di Etty Hillesum sono diventate fonti di ispirazione contro l'oblio della memoria, esempi di altruismo e solidarietà capaci di sopravvivere alle atrocità della storia. Il suo diario ci trasporta con intimità e rispetto nei suoi momenti privati, nelle scelte coraggiose, nel cuore tormentato di una donna dalla forza indomita e mai dimenticata.







11 dicembre 2017

Pietraperzia. Anna Marotta prima classificata al Concorso Letterario Nazionale “La Nostra Terra 2017”





Il concorso era stato bandito dalla “Giambra Editori” di Terme Vigliatore, nel messinese. Hanno partecipato oltre 150 concorrenti da ogni parte d’Italia. Anna Marotta ha vinto nella sezione “Tesi di Laurea”. Il titolo del suo lavoro è “Il bandito Antonino Di Blasi, alias Testalonga (1728-1767). Anna Marotta, una laurea in Filologia Moderna con 110 e Lode all'università di Catania, è la primogenita di Giuseppe Marotta e di Concetta Miccichè. La premiazione è avvenuta durante una cerimonia alla “Osteria Malarazza” di Barcellona Pozzo di Gotto. La giuria era composta da Pierangelo Giambra Editore e dagli storici dell’arte Valentina Certo e Andrea Italiano. I due sono autori, rispettivamente delle opere “Caravaggio a Messina” e “Caravaggio in Sicilia: L’ultima rivoluzione”, della stessa Casa Editrice. Cosa dichiara Anna Marotta? “Sono contenta che questa mia opera abbia riscosso così tanto attenzioni in questo caso di devianza sociale e in un contesto siciliano permeato da un modus operandi poco efficiente ed efficace”.

Ti aspettavi questa affermazione? “Non me l’aspettavo assolutamente. 
In questo concorso nazionale sono infatti pervenute 150 opere, comprensive di tesi di laurea, da tutta Italia”. Cosa ti senti di suggerire a chi voglia seguire questo tuo percorso? “La prima cosa da fare è quella di prendere i manuali più autorevoli e poi ‘buttarli via’ in quanto la vera storia non è quella raccontata dai libri ma quella dei “Vinti” a cui si può risalire solo attraverso le fonti e i documenti diretti e senza il filtro dei ‘vincitori’”. Quali sono i programmi di Anna Marotta a breve, medio e lungo termine? “Attualmente lavoro come docente in un istituto paritario e insegno Italiano e Storia. Il mio progetto primario è quello di inserirmi nel mondo dell’insegnamento ma, nel contempo, non voglio abbandonare la ricerca storica e la scrittura”. Anna Marotta è anche impegnata nella stesura di un thriller psicologico. Ha scritto, allo stato attuale, solo i primi tre capitoli “per mancanza di tempo e non di ispirazione”. Anna Marotta ha ricevuto pure proposte di pubblicazione della sua tesi – da parte della casa editrice “Giambra Editori” – “che deve essere da me valutata in termini di tempi e di organizzazione”. 

Gaetano Milino




09 dicembre 2017

Invito alla lettura: Un segreto nel cuore





Nicholas Sparks autore di tanti libri d’amore in "Un segreto nel cuore" costruisce una perfetta storia di mistero e di colpi di scena. Infatti non è solo una storia di amore, c’è il dolore e c’è la rinascita. Ambientato a New Bern , nello stato della Carolina del Nord. La tranquilla città della Pepsi Cola dove i giorni scorrono sempre uguali.
La tragica morte, di una giovane donna, Missy Ryan, investita in un incidente stradale, sconvolge la vita di Miles, marito e vice sceriffo di New Bern e del figlio Jonah. Le indagini di Miles non portano a niente e il responsabile che ha causato la morte di Missy rimane sconosciuto. Sono passati due anni da quel giorno tragico quando nella classe di Jonah arriva la nuova insegnante, Sarah. Tra Miles e Sarah, anche lei con un passato doloroso e difficile, nascerà un sentimento forte. Una storia d’amore, mai banale, che porta a riflettere sul rapporto ideale tra un uomo e una donna. Un racconto dalla trama coinvolgente ed emozionante, con imprevedibili giochi del destino, che fanno di questo romanzo "un'opera", sia nel ritmo narrativo che nella descrizione dei luoghi e dei personaggi; con un epilogo sorprendente. Un libro che tiene inchiodati alle pagine, dalla prima all'ultima.
Lina Viola


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