29 dicembre 2018

L’Interrogatorio della Contessa Maria. Un Racconto di Paolo Cortesi




per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html


La contessa alzò appena lo sguardo, ma non abbastanza a lungo perché Quaglia potesse vedere il lampo di ira muta che brillava, come un velo di lacrime, sulla pupilla ferma.
Così che l’ispettore riprese a parlare dopo la brevissima pausa con una tranquillità che non avrebbe avuto altrimenti.
La contessa Maria se ne stava seduta sull'angolo della sedia, esibendo la sua dolorosa degnazione. Aveva voluto vedere così poco di quell'ufficio (quasi che le immagini, i ricordi di quel posto le si potessero infilare nel sangue come un’infezione), che non avrebbe saputo descriverlo.
Eppure era lì, malamente seduta, irosa e con le guance calde di febbre, da quasi due ore.
L’ispettore Cosimo Quaglia le aveva fatto dare un bicchiere d’acqua, poi un caffè, poi ancora aveva chiamato – su richiesta della contessa – una sua cameriera che le aveva portato un cachet per l’emicrania. Ora la domestica stava ad attendere nella camera accanto, con tre poliziotti che le stavano attorno e le parlavano sorridendo di cinema e pasticcerie alla moda.
La contessa Maria dette un colpo di tosse; si portò il fazzoletto alle labbra. Disse:
-Purtroppo la mia emicrania non sembra diminuire neppure con il cialdino che ho preso; vi prego dunque di lasciarmi andare a casa.-
Quaglia restò un poco senza dire niente. Rimase fermo come se nessuno avesse parlato, con le mani giunte posate sulla sua scrivania. Guardò la contessa, che non lo guardava; guardò De Santis che verbalizzava e Marinoni che stava in piedi vicino alla porta chiusa, immobile, come un oggetto che non serviva a nulla ma ci doveva stare, per la completezza dell’arredamento dell’ufficio di Pubblica Sicurezza, come i ritratti del duce e del re imperatore.
-Ma capirete, signora contessa…- iniziò a dire, sottovoce, l’ispettore, poi non continuò perché sperava che la signora capisse e dicesse il resto. Ma la contessa stava zitta, aveva solo abbassato un poco di più la testa.
-Fatemi chiamare un’automobile di piazza, siate gentile.- fece la signora, ed il tono era precisamente quello che usava, da almeno trent’anni, con la servitù.
Quaglia guardò De Santis e Marinoni, i quali lo fissavano inerti.
-Signora contessa, temo che… Vorrei dire che…insomma non so se sarà possibile subito…-
La contessa Maria strinse la labbra.
-Vedete, signora contessa. Non abbiamo ancora chiarito punti essenziali, essenzialissimi, della vostra storia.- diceva l’ispettore; chi fosse entrato nella stanza in quell’istante avrebbe pensato che stava parlando ad un caro malato che tentava di indurre a prendere la medicina – Vedete, signora contessa, voi non avete detto dove eravate mentre il signor conte Ottavio decedeva…-
Tacque. Nella stanza rancida di migliaia di sigarette fumate negli anni, si udiva il ticchettio dell’orologio a parete. Era un suono nero come un calabrone. Quaglia riprese:
-Voi, signora contessa, avete detto che siete accorsa al letto del signor conte quando avete udito le sue grida. Poc’anzi, però, avete dichiarato che quando il signor conte vostro marito defungeva, voi eravate nella serra. E prima ancora avete detto che vi trovavate in cucina, a dar disposizioni per la cena.-
Silenzio, ancora. Dalla porta chiusa, dalle finestre chiuse arrivavano rumori e voci che non si potevano distinguere, erano come remoti suoni di officine, di costruzioni: sembrava che molta gente lavorasse, assai lontano.
-E ancora, scusate, non avete detto nulla in merito alle macchie di sangue sulla vostra vestaglia, sulle pantofole. Macchie grandi. E, signora contessa, perché il coltello sporco di sangue che venne, evidentemente dico, impiegato per uccidere il signor conte è stato trovato sotto il vostro cuscino?-
La contessa piegò un poco la testa di lato. Socchiuse gli occhi, come se una forte luce la abbagliasse. Sospirò più forte del solito.
Quaglia restò in attesa, ma la contessa non diceva nulla.
-Signora,- disse l’ispettore con tono invariabile – l’autista Gualtiero Chianca ha dichiarato che vi ha vista uscire in giardino dalla stanza del conte. Lì, nella fontanella, vi siete lavata le mani che erano tutte imbrattate di sangue.-
La contessa mosse ancora lievemente il capo: parve voler guardare fuori dalla finestra. Davanti al palazzo della regia questura c’era il palazzo delle poste e telegrafi (regi anch'essi); fra i due edifici stava la piazza e in quel momento c’era il mercato. Se si fosse alzata dalla sedia, se avesse allungato un po’ il collo, la contessa avrebbe visto molta gente, donne soprattutto, camminare fra le bancarelle, e fermarsi, e poi andare via, e fermarsi di nuovo poco dopo. Tutto ciò aveva l’aspetto di una colonia di formiche, nella quale i movimenti sembrano misteriosi e casuali ma non lo sono.
Quaglia parlò ancora.
-La stiratrice, la…- iniziò a muovere fogli sulla scrivania. Cercava il verbale, cercava il nome, voleva essere impeccabile. Voleva far le cose per bene, perché con la contessa Maria non si poteva fare come con gli altri, che bastava alzare la voce, mettersi in piedi davanti a loro – seduti – e dare manate sulla faccia, battere i pugni sul tavolo, sulle loro spalle. Qui ci volevano i nomi precisi, i dati circostanziati. Circostanziati, dovevano essere.
-…la… la…- ripeteva Quaglia e cercava quel foglio, che trovò e lesse con voce un poco più ferma:
-…la Melnati Miranda ha dichiarato all’inquirente che voi, signora, subito dopo la morte del signor conte avete fatto una telefonata e sul ricevitore sono rimaste chiare tracce ematiche.-
Quaglia pareva dovesse parlare a lungo, ma tacque all’improvviso, come a voler fare restare sospese nel silenzio inatteso quelle parole terribili. Sangue.
La contessa portò le mani alla borsetta che teneva posata in grembo. Parve palparla, alla ricerca di qualcosa. Non ne prese nulla e non la aprì.
-Signora contessa, abbiate la compiacenza di dirmi a chi avete telefonato pochi minuti dopo la morte di vostro marito il signor conte.-
Marinoni e De Santis fissarono la donna con una attenzione quasi spaventata, come se la donna – che pure era piccolina, gracile – potesse da un momento all’altro fare chissà quale gesto folle, impossibile e violento, come spaccarsi la testa contro la finestra, o aggredire l’ispettore e strangolarlo, o mettersi a gridare e piangere, rotolandosi per terra. O prendere fuoco.
La contessa mosse appena la testa, la alzò un poco. Rispose:
-Ho telefonato a Carmine.-
La voce era trattenuta, come se fosse stata in una chiesa.
-Chi? A chi? A chi avete telefonato, signora contessa?- domandò Quaglia, che non avrebbe insistito tanto con l’interrogativo se non fosse stato sbalordito.
-A Sua Eccellenza il prefetto Carmine Scalise.- disse la donna, tranquillamente.
Quaglia chiuse le labbra. E Marinoni e De Santis lo guardarono. 
Ora stavano tutti zitti. E dal mercato, là sotto, fuori, arrivò – attutito e come deformato ma ben comprensibile – il grido di una donna che strillava: “E’ così fresco che muove ancora la coda!”
La contessa Maria disse:
-Volete essere così gentile da chiamarmi un’auto di piazza?-
Quaglia fece:- Eh?- perché era come stordito; ma De Santis rispose subito: -Certamente, signora contessa.-, e andò nella stanza accanto a telefonare.





21 dicembre 2018

Invito alla lettura: "La donna giusta" di Sándor Márai





Una donna domanda all’amica, in una elegante pasticceria di Budapest dall'arredamento fin de siècle, a metà del Novecento, se le va un gelato al pistacchio. Si dà la cipria al naso, chiede se l’uomo alto col cappotto nero si è già fatto incartare la scorza di arancia candita dalla commessa. In mezzo alle chiacchiere, racconta il suo divorzio da quell'uomo.
Il romanzo di Márai racconta per tre volte la stessa storia. Allo stesso modo, per tre volte il lettore legge lo stesso romanzo, ogni volta tenuto da una persona diversa, ma ad un tono affine: una gravità seriosa, alleviata dalla circostanza. Le tre circostanze: l’ora del tè nella pasticceria ungherese. Un locale a Budapest dopo la mezzanotte, davanti ad un vino. La stanza di due amanti, fra le lenzuola disfatte, in piena notte, a Roma.
Ma la trama dei fatti si deve evincere dall'intersezione, diversa a seconda della combinazione, di tre racconti, fatti sullo stesso evento: un triangolo amoroso. A raccontare sono: la moglie, il marito, l’altra donna. (In ogni implicazione di estraneità, affettiva, familiare, di classe sociale). Ogni racconto, perciò, è tenuto anche all'interno del romanzo, a tre conoscenti dei tre protagonisti. Il vantaggio del lettore rispetto ai
tre ascoltatori è di possedere tutte e tre le versioni dei fatti. Fra la richiesta di offrire il tè, o passare lo zucchero, o i convenevoli con cui si scusa per essersi dilungata, nel primo racconto una moglie descriva all'amica la storia del suo fallimento coniugale.
Viene la volta del marito, poi dell’altra donna.
Intanto tuona incombente, nel racconto di ogni personaggio, il fragore della seconda guerra mondiale, che dilaniava Budapest mentre ad una donna non importava altro che di tenersi il proprio marito, in una pervicace resistenza del bisogno personale sopra le tragedie della storia.
Ma la guerra ha colpito tutti: borghesia, alta borghesia, proletariato. Queste categorie sono rappresentate da ognuno dei narratori.
E questo libro, che macina macina lo stesso avvenimento per portare alla comprensione dei suoi attori, domanda al lettore non solo chi sia la donna giusta, ma anche l’uomo giusto, nella sua categoria economico-sociale. Non a caso, si veda il titolo ungherese della versione iniziale del romanzo: “Azi gazi”, “quello giusto”, con valore neutro.
La donna giusta è un poligono di tiro fra tre storie, che ha la verità come bersaglio. Ma Márai non la fa trapelare: né dice, tra i tre personaggi, il suo favorito; né dice chi è la donna giusta.
La donna giusta è un romanzo sul potere, sull'amore e la convivenza, sulla vendetta privata e di classe sociale e sulla sopravvivenza personale e di classe sociale.

Alessia Borriello


In biblioteca di Sándor Márai è disponibile il romanzo "I RIBELLI":


























14 dicembre 2018

Udienze Scolastiche. Un Racconto di Paolo Cortesi

Un Racconto surreale di Paolo Cortesi. Un futuro al contrario in un paese che non legge, dove i libri sono un pericoloso strumento di conoscenza e ai bambini si regalano smartphone e videogiochi per tenerli lontani dai libri.

per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html



Domani, in Italia…

Si sistemò i capelli, un ciuffo rotondo al lato della fronte, e il gesto sembrò in qualche modo legato a quello che disse subito dopo:
-Io capisco... vi capisco bene... però, voi capite...-
La donna si affrettò a rispondere alla professoressa:
-Sì sì sì, ma certo-, poi dopo questo lampo di parole, imprevisto come un accesso di tosse, la donna tacque e restò in attesa e mostrò di aver fatto tutto quello che si poteva aspettare da lei.
La professoressa Siliani Giuliana toccò ancora il ciuffo dei capelli; era evidentemente il gesto che ripeteva quand'era imbarazzata. Disse:
-A un certo punto, il consiglio dei docenti ha creduto giusto, direi doveroso, avvertire voi genitori.-
La mamma di Carlo fece sì con la testa e guardò la punta delle dita della professoressa. Il babbo di Carlo non aveva ancora detto niente, solo buongiorno quand'era entrato nella sala insegnanti, dieci minuti prima.
Il padre di Carlo aveva un'autofficina; era piuttosto ricco, ma il suo aspetto era quello di un lavoratore povero che usava muscoli e tenaglie; aveva le mani grosse, le dita quasi gonfie, curve, con tanti taglietti scuri sui polpastrelli, sul dorso e sulle nocche; aveva le macchie del grasso e della morchia che, anche dopo il lavaggio col sapone speciale, lasciavano un alone scuro, come di ustioni.
La professoressa non si aspettava che lui intervenisse nella conversazione; pensava che la moglie se lo fosse portato dietro perché finalmente si occupasse un po' pure lui del figlio. Nei suoi vent'anni di scuola, ne aveva visti tanti di padri così, che dei figli sanno poco e non ci vogliono perdere tanto tempo. Non sono cattivi, ma sono pigri e rassegnati; i figli sono loro estranei quanto un condomino con cui si scambiano appena i saluti.
Così, il babbo di Carlo (si chiamava Ennio) stava seduto e con la pancia pareva reggere la scrivania a cui sedeva, dall'altro lato, la professoressa; accanto a lui, la moglie Anna occupava poco spazio, perché era magrolina e raccolta e si vedeva che non era a suo agio.
-Carlo è un ragazzino bravo.- iniziò a dire la professoressa -È intelligente e ben relazionato in classe.-
Anna sorrise.
-Non si distrae spesso e partecipa alle lezioni con contributi personali.- continuava la Siliani. Anna pensava che diceva tutte queste cose belle per prepararli alla botta finale.
Ennio intervenne:
-Se va così bene, perché ci ha chiamato qua?- domandò senza staccare le manone che teneva intrecciate, sulla scrivania.
Anna gli toccò un braccio e disse, guardando la professoressa:
-Stai buono. Lascia parlare la signora.-
La Siliani fece un mezzo sorriso e disse in un soffio:
-No per carità, dica pure.- e bastò questo perché Ennio tacesse.
-Carlo non è un ragazzino difficile, problematico.- continuò la professoressa -Per questo abbiamo pensato opportuno intervenire subito, prima che sia un po' tardi...-
-Tardi?- mormorò Anna. La botta era arrivata.
-Sì, perché il comportamento di Carlo... cioè, noi abbiamo capito che è un ragazzino capace, ma può prendere una.... eh...-
Ennio fece, con gli occhi spalancati, come aggredito:
-Una brutta strada?-
-Non volevo dire così, però... insomma... ecco... come dire?...-
Ennio restava incerto e immobile, guardava la moglie e aspettava di uniformarsi alla sua reazione. Anna, però, sembrava inerte: fissava la professoressa e teneva sulla faccia un sorriso piccolo, sommesso, quasi involontario. La professoressa Siliani capì che non era il caso di tirarla tanto lunga; i due genitori che le stavano davanti non sembravano capaci di partecipare in modo costruttivo alla chiacchierata. Doveva dire tutto chiaro e tondo. Loro non volevano altro. Anche se la faccenda si faceva, per lei, più faticosa.
-Vede, signora, noi lasciamo ai ragazzi una certa libertà, perché se no la scuola sarebbe...sarebbe...sarebbe una galera, una caserma...eh?- disse la professoressa, con tono conciliante.
-Sì sì.- Anche Ennio disse:
-.-
Siliani annuì e continuò:
-Però bisogna che ci sia il controllo da parte nostra, da parte degli educatori. Così noi cerchiamo di stare vicino ai ragazzini soprattutto quando vediamo che c'è qualcosa che non va... che non va bene... qualcosa che noi abituati a conoscerli e a vivere con loro tutti i giorni...-
-Ma cos'ha fatto Carlo?- esclamò Ennio e mise tutta la sua anima nelle parole, dette a voce più alta e piena, senza muoversi, con le due mani posate sul bordo della scrivania.
-È un'età delicata. È adesso che si formano per il domani.- rispose la professoressa e pareva che non avesse neppure ascoltato l'uomo.
-Allora?- incalzò Anna, supplichevole.
La Siliani aprì un cassetto della scrivania, estrasse un libro e lo posò davanti ai due genitori, che lo fissarono come se non fosse un libro, ma un pezzo di carne appena tagliata dal corpo del figlio.
Era "Le avventure di Huckleberry Finn" di Mark Twain; un piccolo libro che aveva un disegno colorato in copertina.
Il babbo ebbe un rantolo sofferto:
-E questo?...-
La professoressa disse:
-Gliel'ho sequestrato due giorni fa. Prima ancora gli avevo preso questo. Non vi avevo detto niente. Volevo aspettare. Volevo capire.-
Posò accanto al libro un altro volumetto: l'Odissea in una versione per ragazzi. Entrambi i libri erano vecchi, con le copertine opache per un velo appiccicaticcio di sporcizia e polvere. Gli angoli delle pagine avevano pieghette e tagli.
Ennio fece:
-Madonna...- e alzò un po' la testa, come per allontanarsi dagli oggetti che sembravano due cadaverini sul tavolo.
La mamma Anna domandò con apprensione:
-Ma è sicura che li avesse Carlo? Non poteva averli un suo compagno? Magari glieli hanno messi sotto al banco e lui non sapeva niente.-
La professoressa fece un sorriso bonario, mosse un po' la testa per negare, rispose con la dolcezza che si usa coi malati:
-Mi dispiace, ma li aveva Carlo. Li stava leggendo.-
Anna si portò le mani alla bocca. Ennio strinse i pugni furiosamente, emise un gemito, poi:
-Li leggeva lui? Lei lo ha visto che li leggeva?-
La Siliani disse sì con un filo di voce, appena udibile, come se volesse avvicinarsi quanto più possibile al silenzio.
Per la prima volta, i due genitori si guardarono l'un l'altra. Anna abbassò subito gli occhi, ed Ennio si mordicchiò l'unghia nera del pollice.
-Leggeva i libri.- sussurrò.
La professoressa cominciava a pentirsi di non aver voluto la psicologa di classe accanto a sé. Aveva sottovalutato il dolore dei genitori.
-Ma lui cosa dice?- domandò Ennio, con la voce incontrollata con cui si rivolgeva ai suoi lavoranti.
-Sì. Gli ha parlato? Ne avete parlato?- domandò Anna.
-Dice che gli piace leggere.- rispose in fretta la Siliani.
Ennio chiuse gli occhi. Restò così per un minuto. Poi fece un gran respiro e prese fiato come se stesse per alzare un grosso peso e disse inarrestabile:
-Io non lo so. Non lo so. Ci siamo stati attenti a quel bambino. Magari io ero spesso al lavoro e non stavo tanto a casa. Ma lei capisce. Chi porta i soldi a casa, se no? E come si campa senza soldi? Ma mia moglie è sempre stata brava. Gli è sempre stata attenta. Fin da piccolo piccolo che andava all'asilo gli abbiamo comprato tutti i film che uscivano, poi le musiche. Tutte le canzoni. Tutte. Guardava sempre la tv. Ma mi creda: sempre. Entrava a casa, lo mettevamo davanti alla tv e ci stava per sette otto ore. A due anni già conosceva tutti i gruppi, i solisti. Perfino gli svedesi. Cantava le canzoni senza sbagliare una parola. Poi lo abbiamo iscritto subito a balletto e poi al corso di comico con specializzazione cabaret. Abbiamo speso un sacco di soldi. Eh Anna? Poi cosa abbiamo fatto? Ah sì! A sei anni, a sette non mi ricordo, lo abbiamo iscritto a un corso di ipod. Il suo primo smartphone gliel'abbiamo regalato quando gli è spuntato il primo dentino. Era piccolino e conosceva tutti i nomi dei suv dei fuoristrada delle macchine sportive. Lo portavo con me sempre alla partita sempre sempre. Pensi che è stato per un paio d'anni la mascotte ufficiale del mio gruppo di ultras. Gli volevano tutti bene. Cantava le canzoni della tifoseria e ne sapeva tante a memoria. Eh Anna? ti ricordi? Allo stadio una volta ha anche avuto il microfono e cantava e tutti tutti in cinquantamila gli hanno battuto le mani. Mi è venuta la pelle d'oca, giuro. Guardi, in casa non c'è mai stato un libro ma mai mai; pensi che una volta..."
Anna tentò di placare la foga affannata del marito:
-Ennio, la professoressa non...-
-Ma un minuto! Solo un minuto!- gridò lui, perché si doveva capire bene che non aveva colpa -Pensi che una volta, in tv, vide una scena d'un vecchio film dove c'era un libro. Era una scena in prima serata che era scappata alla censura. Mi chiese: babbo cos'è? e io: ma niente, una roba vecchia brutta schifosa puzzolente che non c'è più. Lui voleva sapere cos'era a cosa serviva, ma io dissi subito: no no non devi interessarti di quella roba che fa male che rovina la gente.-
Ennio si arrestò, esausto, disorientato. Aveva la faccia di chi è arrivato correndo in un posto che non conosce.
La moglie Anna, dopo una breve pausa in cui tutti stavano in attesa, intervenne cauta:
-Guardi che noi ci siamo stati sempre attenti, al bambino. Pensi che una volta lui trovò un libro vecchio rotto in casa della nonna...-
-Tua mamma.- esclamò Ennio, assorto.
-Sì. Appena gli ho visto quella cosa tra le mani gliel'ho presa, gliel'ho buttata via.-
La professoressa intervenne:
-Ma forse era meglio se non dava peso, se glielo portava via dolcemente. Così forse ha fatto nascere in lui un interesse morboso, una curiosità che altrimenti non avrebbe avuto.-
-Eh dice bene lei.- rispose Anna, risentita, che si sentiva accusata -Ma quando ho visto quella cosa nelle sue manine... guardi, mi si è gelato il sangue nelle vene... avrei voluto vedere lei...-
Poi Anna tacque, perché non voleva irritare la professoressa. Esiste sempre un limite che chi non ha potere non valica mai.
La Siliani sorrise e abbassò lo sguardo, e guardando le mani grosse di Ennio disse:
-Adesso dobbiamo solo pensare al bene di Carlo. Il consiglio docenti gli ha affiancato un sostegno per il corso di analfabetismo.-
-Il sostegno.- mormorò Anna e guardò appena il marito, che sembrava non essere più in grado di parlare, dopo quella tirata fitta di prima.
-Sì, ma non vuol dire niente, non si preoccupi. È solo un aiuto, un sostegno. Non pensi male.-
-Il sostegno.- ripeté Anna, e nella sua voce perduta la parola suonava come il nome di una malattia.
La Siliani aveva già visto altre volte certe facce, certi occhi. Stava per dire le solite cose per consolare i genitori sconvolti. Si vergognava un po', dopo tanti anni, a recitare sempre la stessa parte e dire le stesse cose. Era stanca di vedere le facce patite e dolenti dei genitori che scoprivano figli diversi da quelli che credevano di avere in casa.
-Non vi preoccupate troppo.- iniziò a dire e ripeté quasi esattamente ciò che aveva detto la settimana prima a genitori convocati perché la figlia sapeva a memoria L'infinito che aveva detto ad un'amica di nascosto -Con un corso intensivo di un paio di mesi, Carlo diventerà analfabeta irreversibile. Qui seguiamo il corso psicodidattico di Khek Zalovic. E fra poco il vostro bambino avrà tanto orrore dei libri che non vorrà neppure vederne uno.-
-È colpa di quei porci che spacciano libri ai bambini!- esclamò Ennio, che misteriosamente puntò il grosso indice verso la faccia della professoressa e lo tenne così finché quella non sembrò annuire -La pena di morte ci vorrebbe, per quei delinquenti maledetti che rovinano i bambini! La pena di morte ci vorrebbe.-
Tacquero. La Siliani stava per iniziare la lenta goffa fase dei saluti, quando Ennio, fissandosi il dito, disse a voce bassa, parlando al suo dolore:
-Ma se ne prendo uno......-



I libri di Paolo Cortesi






10 dicembre 2018

Invito alla lettura: "Pastorale americana" di Philip Roth




Non avevo letto Philip Roth, ma l’eco suscitato dai mass media dopo la sua scomparsa, mi ha incuriosito e spinta a leggere Pastorale americana, uno dei suoi romanzi più noti.
La voce narrante è quella di Nathan Zuckerman uno scrittore appartenente alla comunità ebraica di New York che narra la vicenda personale e famigliare di Seymour Levov, detto lo Svedese, suo compagno al liceo e fratello maggiore di un suo compagno di classe. Soprannominato lo Svedese per il suo aspetto fisico e per la sua carnagione chiara. Un uomo generoso, bello, con un forte senso morale e grandi doti sportive, era stato l’idolo degli studenti.
Il romanzo racconta della famiglia ebrea dei Levov, emigrata negli Stati Uniti alla fine dell’800. Tre generazioni con gli stessi obiettivi di benessere e prosperità. Il nonno di Seymour che aveva fatto lo scarnatore di pelli in una conceria, il figlio Lou, padre dello Svedese, a 14 anni aveva lasciato la scuola ed era entrato a lavorare nella stessa conceria. Con enormi sacrifici e lavorando duramente si arricchirà creando una fabbrica di guanti per donna. Adesso Seymour Levov, lo Svedese, è subentrato al padre e la dirige con successo.
Lo Svedese sposa la cattolica Dawn Dwyer ex Miss New Jersey.
Bellissima coppia ricca e apparentemente felice. Una classica e invidiabile famiglia americana. Dal matrimonio hanno una figlia, Merry, con un difetto, la balbuzie e problemi di personalità che preoccupano il padre e rendono infelice la madre. Per correggere la balbuzie, Merry è seguita da specialisti; ma Merry, nonostante tutto, peggiorerà.
Il dramma che sconvolgerà la normale quotidianità dello Svedese e che farà crollare gli equilibri della sua vita è quando Merry, ormai adolescente, inizia la ribellione verso i genitori, criticando i loro valori e il loro stile di vita, e con il rifiuto delle convenzioni borghesi. Comincia a partecipare alle manifestazioni di protesta contro la guerra del Vietnam e alle lotte per i diritti civili delle minoranze. Sono gli anni della contestazione giovanile che la porteranno a unirsi a un gruppo di estrema sinistra, e a compiere un attentato. La conseguenza sarà la morte di una persona che la costringe alla latitanza.
Seymour Levov non accetta la figlia terrorista che ha distrutto la vita di persone innocenti. Il romanzo è permeato dalla disperazione di un padre per la perdita della figlia e sempre alla sua ricerca; l’impossibilità di comprendere i motivi che l’hanno allontanata dalla famiglia, e l’odio che l’hanno portata a compiere atti terroristici. Triste e commovente, quando anni dopo, ritrova la figlia che aveva creduto morta. Irriconoscibile nell'aspetto, vive come una senzacasa, in condizioni di estrema povertà, provata psicologicamente. Incapace di riportare la figlia a casa e toglierla dal letame nel quale vive una vita disperata, riconosce tutta la sua impotenza di fronte alle scelte distruttive della figlia.
La vita familiare di Seymour Levov è ormai definitivamente sconvolta. La moglie Dawn, dopo un lungo periodo di depressione comincia a riprendersi la sua vita; la scopre che ha una relazione con l’architetto che ha ristrutturato la loro villa.
Il romanzo è un lungo viaggio nel dolore, il racconto di come la precarietà dei sentimenti può distruggere una famiglia. Seymour Levov aveva costruito la sua vita e la sua famiglia secondo la “pastorale americana” della classe medio-alta del New Jersey, senza però aver saputo salvare la figlia dai rivolgimenti giovanili di quegli anni sessanta e il suo matrimonio dal subbuglio dei tempi moderni.
Consiglio la lettura del romanzo, un racconto potente dal quale un paio di anni fa è stato tratto un film

Lina Viola


Pastorale americana di Philip Roth è disponibile in biblioteca. 
Puoi anche prenotarlo cliccando qui








09 dicembre 2018

Incontro con l'autore: PAOLO CORTESI


per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html



Moltissime biografie di personaggi non celebri (non abbastanza famosi da avere chi scriva la loro biografia) sono in terza persona, ma scritte dal biografato. Per lealtà verso chi legge, dichiaro che sono l’autore di queste note, scritte in terza persona per rispetto alla tradizione.

Paolo Cortesi è nato a Forlì il 23 novembre 1959. Nipote di capomastro e figlio di ebanista, è piuttosto incapace di lavori manuali per cause di cui è pienamente cosciente ma che non possono interessare chi legge. Ha frequentato il Liceo Classico G.B. Morgagni di Forlì, in cui ha sperimentato cosa sia la divisione in classi della società; di quei cinque anni ha un ricordo molto deprimente. Si è laureato in Filosofia (con lode, precisa con vanità) nel 1983 presso l’Università di Bologna; aveva scelto la facoltà piuttosto improvvisamente, dopo una lunga attenzione verso Lettere, in seguito alla lettura dello Zarathustra di Nietzsche, che però è opera molto più lirico-mistica che filosofica, dunque è possibile sospettare che sia stata una decisione un po’ imprecisa. Ma ormai….

Iniziò prestissimo a scrivere: risale ai suoi otto anni il suo primo “romanzo”, ovvero una storia avventurosa (esploratori, isola misteriosa, cannibali) che orgogliosamente fece leggere al suo maestro, l’indimenticato Natale Brigliadori, il quale restituì il quadernetto le cui pagine erano solcate di decine di correzioni che lo lasciarono basito. Le sue prime prove in prosa erano peggio che mediocri, erano infami. E lo restarono per molti anni.

Dopo una prima intensissima stagione di poesia (che ora gli è del tutto estranea), si dedicò alla saggistica: storia locale (ha collaborato a lungo con giornali e riviste locali e lo fa ancora), storia contemporanea, storia delle idee, storia del pensiero esoterico rinascimentale.

Nel 2004 pubblicò il suo primo romanzo “Il fuoco, la carne” che ha vinto il Premio Todaro Faranda per il romanzo inedito. Nel 2006 fece l’errore più atroce della sua vita, che scontò dieci anni dopo con grande sofferenza
Nel 2008 pubblicò “Il patto”, che ebbe un buon successo, se si pensa che uscì con un piccolo editore come Nexus.
Nel 2011 uscì “La velocità dei corpi”, romanzo cui è molto affezionato e che considera forse la cosa migliore che ha scritto finora. Fu pubblicato da un grande editore (Piemme) che non lo lanciò come l’autore avrebbe voluto. Con Piemme pubblicò anche “Marcel Proust e l’assassinio delle Tuileries” (2014), romanzo giallo con una accuratissima ricostruzione della Parigi del 1912; nella storia, Proust risolve un caso criminale senza mai uscire di casa (e davvero Proust restava chiuso per lunghi periodi…).

Ha pubblicato diversi volumi di saggistica con la Newton Compton, a partire dal 2001, e il rapporto continua tuttora: nel 2018 è prevista l’uscita di un libro dedicato all’Emilia Romagna nella collana “Forse non tutti sanno che…”. E sempre nel 2018 è attesa l’uscita, presso l’editore Carocci, di un saggio sull’opera di Nostradamus, un saggio molto documentato e dunque molto critico.

Lo scrittore in lingua italiana che preferisce è Dante Arfelli. Ha due figli, Federico e Giacomo, che stima molto. Totalmente astemio, è moderatissimo fumatore di sigari e colleziona cartine da gioco per bambini.

Per conoscere meglio le opere di Paolo Cortesi accedi al sito www.paolo-cortesi.com
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L'officina di Nostradamus è presente in biblioteca prenotalo qui







03 dicembre 2018

Invito alla lettura: Accabadora di Michela Murgia





Michela Murgia in
Accabadora fa intrecciare due usanze sarde. Si tratta di due pratiche dalle origini remote; ma le loro tracce non si perdono nella leggenda. Ne sopravvivono testimonianze fino agli anni Sessanta, in alcune regioni sarde.

La prima: una donna benestante adotta il figlio di troppo d'una madre povera. La donna non avrebbe figli, in altro modo; ella diviene sua madre, agli occhi della comunità. Il figlio, "generato due volte", è suo "fillus de anima"; è frutto della sterilità della donna da cui è stato scelto. E' stato scartato dalla sua prima madre ed è stato eletto dalla seconda.
La seconda pratica, invece, è un rudimento di paese dell’eutanasia. E’ una vecchia a svolgerla. La vecchia s’aggira silenziosamente, non vista, di notte. Mentre cammina, la sua gonna nera e lunga svolazza fra le case. Si veste di nero, e si muove di notte, perché la comunità di Soreni non deve vedere ciò che esula dalla sua morale. Ma anche gli abitanti di Soreni, in un anfratto senza regole (quello del mondo notturno, ma anche della femminilità più mistica e leggendaria) contempla la figura dell’Accabadora. Acabar: terminare, in spagnolo. L’Accabadora si reca, discreta nella notte, al capezzale dei morenti, cui manca il suo solo colpo finale per essere finalmente morti. Li finisce, con un colpo di bastone dove sa lei, con una pressione del cuscino; fa loro respirare polveri che stordiscono. L’Accabadora è l’ultima madre in cui a qualcuno è dato d'imbattersi. L'ultimo volto materno in cui specchiarsi. L’ultima madre cui qualcuno si accompagna nel congedo dalla vita, per alleviare il dolore prima del trapasso. Perché “non c’è nessun vivo che arrivi al suo giorno senza avere avuto padri e madri a ogni angolo di strada”. L’Accabadora è una madre esecutrice priva di figli.

La protagonista del romanzo è Maria Listru, ultima figlia di troppo della popolosa, ma povera, famiglia Listru. La vedova Listru, madre di Maria, accetta l’offerta d’una ricca vedova senza figli, che la adotta. Maria è “fillus de anima, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai.”. Non rimpiangerà la madre precedente; Bonaria Urrai, la vedova adottiva, ha molto da insegnare a quella bambina selvatica: come cucire le asole, prepararsi alle guerre del futuro, come accogliere la vita e la morte. L’aveva scelta fin da un pomeriggio in bottega, quando s’era accorta dei furti inosservati che la bambina compiva. Era stato il rossore delle ciliegie appena rubate a tradire la piccola Maria: la refurtiva si vedeva da una macchia rossa sulla tasca bianca del suo abitino. Bonaria l’aveva vista, “nei peccati senza complici dei bambini soli.” L’aveva adottata.

La piccola Maria è legata a Tzia Bonaria, insieme alla quale, senza che il lettore trovi il tempo d'accorgersene, diviene donna. Ma Maria non sa ancora che l’Accabadora s’addentra silenziosa per le strade, di notte, invisibile perfino ai vivi, avvolta nel suo scialle nero. Va a porre fine alle vite con le quali la stessa Maria è venuta a contatto, nella piccola Soreni. Ogni tentativo operato dai personaggi del romanzo per ristabilire un ordine, seppure precario, agli avvenimenti più precari della vita, è sventato dalla figura dell’Accabadora, puntuale come la morte, l'evento che porta con sé.
Tanto remissiva alle sue colpe, nei momenti di debolezza, l'Accabadora è tuttavia altrettanto risoluta quando sia giunto il tempo di commetterle.

Queste due pratiche raccontate nel romanzo conferiscono all’Accabadora una lontananza storica; ma che non si perde troppo lontano, nella storia. Ed una distanza antropologica, ma che si trattiene, fra le tante punte liriche del romanzo della Murgia, nei confini etici dell’umano. Ed è proprio il dibattito sull’umano, su cosa sia giusto e cosa sia soltanto morale, ad intrecciarsi nei dialoghi dei protagonisti. Tale dibattito è tenuto in ragione della distanza fra ciò che essi credono e il modo in cui le loro azioni sono accolte dagli abitanti di Soreni. Ma non solo quelli di Soreni: il dialogo di questi personaggi si inserisce nel dibattito oggi attuale sui temi di eutanasia e adozione. Lo affronta da una certa distanza, lo pone sotto la luce di una Sardegna tradizionalista, quasi atavica.

Una lontananza spaziale e temporale conferisce all’Accabadora, nei termini di ambientazione e d'atmosfera narrativa, un sentore di isolamento che ricorda qualcosa dei luoghi più sperduti della letteratura. Il parente più illustre della Soreni della Murgia è forse la Macondo di Marquez. Questi luoghi traggono specificità dalla loro dimenticanza d’un mondo civilizzato. In questi luoghi, è possibile che gli zingari si spingano ai confini del mondo a far conoscere il ghiaccio (Marquez, Cent’anni di solitudine). Ma in questi luoghi prende forma anche la Sardegna delle tradizioni che Michela Murgia ci ha raccontato magistralmente nell’Accabadora.


Alessia Borriello









19 novembre 2018

La strega. Ragionevoli dubbi di Alessia Borriello



Quando la vidi per la prima volta aveva gli occhi gialli. Era bassa in modo buffo, le gambe piccole zampettavano ossesse e lasciavano intravvedere il loro movimento. Ma spuntavano solo con le punte delle scarpine, dopo le onde di una gonna che sembrava un mantello. La gonna la copriva dalle spalle ai piedi, ma non si capiva dove iniziava. Si vedevano solo le scarpine finali. Il vestito assumeva una forma sferica, nell’insieme. Come una palla divinatoria. Ma lei, quando si muoveva, sembrava un astuto animale della fattoria. Andava dove trovava cibo.
Mi guardava spesso.

La prima volta che parlò disse cose che non capii. Non capivo perché mai fosse sincera. Impiegai cinque anni a comprendere che, infatti, era retorica. Quella retorica fu fondata in Grecia nel V secolo a.C. Vide in Gorgia il suo esponente più convincente. Da allora nessuna arma più pericolosa fu mai sperimentata. Lei la sapeva usare divinamente, nascostamente. Come quando muoveva le scarpine.

Diceva cose buffe, come lei, a cui era buffo credere. Era questo il pericolo: iniziarle a crederle, per gioco; finire col convincersi che quel che diceva era bello.
Era strana.

“Siete ragionevolmente certi che quel che fate è completamente inutile?”
Ma che buffa retorica.
Fu così che iniziai cinque anni di liceo classico.

Ogni giorno mi tuffavo in una stanza piena di luci e suoni distanti. Non voglio parlarne. La ricordo con questa distanza, e mi scotta, mi scotta il cuore. Parlare del liceo classico è impossibile, sadico. Ma anche il giorno allora era vissuto come distante da sé stesso. Quella distanza era riempita continuamente dalla sua voce, che diceva cose che nessuno avrebbe mai dovuto capire veramente. Oggi la distanza che pongo rispetto a quei giorni è mediata ancora da lei, dal suo ricordo, da ciò che ho capito di quella sua misteriosa figura, che è riuscita a manovrare il mio rapporto con la realtà. Per gioco o per magia. Che sono la stessa cosa.

Era magica. Entrava in classe con un andamento irriproducibile, e fingeva di entrare a casa sua. Dopo mezz’ora sembrava ridestarsi, ma la sua confidenza non era cessata. Eppure, quella non era improvvisazione. Ogni sua parola era già stata decretata molti anni prima, ma sembrava sempre sibillina e nuova.
Usava schemi formulari. Ripeteva gruppi di parole. Quando ripeteva un certo gruppo, lo studente poteva etichettare la situazione in cui si trovava. Ogni avvenimento era catalogato con le parole che lei gli dava.
“Siete ragionevolmente certi che…?” significava che stava per dire una cosa non del tutto ovvia; ma che lo poteva sembrare. Che poteva essere resa semplice. Bisognava seguire il suo ragionamento. Mi immaginavo sopra la sua testa un filo. Lei era così bassa perché aveva bisogno dello spazio anche per quel filo. C’era qualcuno a manovrarla. C’era qualcosa. Un segreto, un mistero.

Sapeva quando stava per piovere. Lo sentiva nelle ossa. Sapeva quali autori sarebbero stati sorteggiati per la versione scritta alla maturità. Sentiva anche loro nelle ossa.
Immaginavo le sue ossa come lunghi e tortuosi canali, pieni di buchi, annunciatori meteorologici, autori latini, che si aggrovigliavano sotto il suo vestito.
Era una strega. Fumava sempre, e si muoveva nella nube del suo fumo. Fumava come una turca e si vedeva dai denti, ma la voce, profonda, saliva dalla pancia, e non era roca. Era morbida, stregata.

Alessia Borriello



14 novembre 2018

Invito alla lettura: Il bordo vertiginoso delle cose




Nel romanzo di Gianrico Carofiglio mi ha incuriosito questa frase: “da bambino avevo paura di tutto”. Queste parole mi hanno riportato alla mia infanzia. Le mie paure erano le stesse che lo scrittore evoca nel suo romanzo. Alcuni incubi, sempre gli stessi, che mi svegliavano la notte chiamando la mamma per essere rassicurata da lei. Le paure poi con le quali tutti conviviamo tutta la vita, le ansie che ci tormentano e a volte ci paralizzano e ci impediscono di portare a termine un’attività, un lavoro. È quello che accade nel romanzo ad Enrico, Il protagonista del racconto, dopo il suo primo libro di successo non ha idee per scriverne un secondo, quello in cui potrà avere la conferma del suo talento letterario, ma non rinuncia e si rifugia con apparente rassegnazione nel ruolo di Ghostwriter, scrivendo libri per altri scrittori.
Mentre leggo il romanzo che si può definire “romanzo psicologico”, ho come una immedesimazione col protagonista, la sensazione di stargli fianco a fianco. Ascoltare le sue lunghe digressioni, il racconto delle lezioni di filosofia che spiega come farebbe un insegnante con i suoi allievi. I ricordi della sua adolescenza nella sua città di origine, Bari, mi riporta alla mia adolescenza e alla mia prima giovinezza e a tutte le mie difficoltà che, come per il protagonista, fanno fuggire da una realtà che sembra non dare un futuro accettabile.
A Firenze, dove Enrico vive da anni, gli capita di leggere casualmente una notizia di giornale che lo travolge psicologicamente. Un suo ex amico e compagno di Liceo, Salvatore, da poco uscito di galera, durante una rapina, è stato ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri.
Enrico decide tornare a Bari e affrontare quei fantasmi del passato dai quali è scappato. Inizia così in un racconto dove l’autore alterna capitoli che riguardano gli avvenimenti della sua adolescenza e altri dove racconta della varia umanità che incontra nella visita alla sua città di origine, personaggi del suo passato e personaggi incontrati casualmente.
Enrico è stato un adolescente insicuro, ma tutto inizia a cambiare con l’arrivo nel suo liceo di una supplente di filosofia. Celeste è la giovane professoressa, libera e disinibita, della quale Enrico s’innamora, che ha saputo fargli amare e fare amare a tutta la classe la sue lezioni di filosofia. Un altro incontro importante che lo cambierà profondamente è l’amicizia tra lui e Salvatore, un suo compagno più grande di lui e più volte ripetente. Salvatore è un attivista della sinistra extraparlamentare, come venivano definiti allora certi movimenti di sinistra formati perlopiù da studenti. Dopo una rissa violenta con alcuni ragazzi Salvatore gli insegna le tecniche di lotta facendolo allenare alle arti marziali e all’uso delle armi. Enrico si farà coinvolgere in piccole rapine e persino in un attentato a un avversario politico. La fine della supplenza di Celeste, la scoperta di una relazione sentimentale tre lei e il suo amico Salvatore, e il carcere di questi per rapina lo allontaneranno per sempre da lui.
Il romanzo di Gianrico Carofiglio, alle prime pagine, mi aveva scoraggiato nel continuare a leggerlo; ma dopo un avvio faticoso ho iniziato ad apprezzarlo sia per i temi che per l’abilità narrativa di Carofiglio.
Trovarsi nel "bordo vertiginoso delle cose" può capitare a chiunque, il racconto ci dice che dobbiamo lottare e non farci trascinare "nell’abisso", conta non cedere alle grandi delusioni che la vita immancabilmente ci riserva e che non spingersi oltre quel "bordo"può offrire nuove possibilità di futuro.

Lina Viola


Il libro Il bordo vertiginoso delle cose di Gianrico Carofiglio
è disponibile in biblioteca. Puoi anche prenotarlo cliccando qui
 






01 novembre 2018

Il prequel di “The Game”: Il saggio “I barbari” di Alessandro Baricco



Alessandro Baricco, I barbari


Nel saggio I barbari, Baricco scorre prima di tutto il filo di una metafora. È questa l’abilità dello scrittore che si presta come saggista. Prima di attorcigliarsi in ogni tecnicismo, che, forse, non gli compete fino in fondo. Prima di farlo, lo scrittore svolge il filo di questa metafora, da cui si fa guidare.

Ma occorre, in una recensione, spiegare prima l'argomento canonico scelto per il suo saggio. Il libro di Baricco illustra alcune delle più significative mutazioni che ci ha portato in consegna il nostro mondo contemporaneo della rivoluzione digitale (quello contemporaneo alla scrittura del libro: 2006). Baricco illustra il nuovo volto di alcuni ambiti della nostra vita: i libri, la musica. Ma anche: il vino, il calcio. Le melodie che fischietta un postino camminando per strada, nel consegnare la posta.

Ma, insieme al saggio di Baricco, dobbiamo smottare fino al livello metaforico, scelto dallo scrittore per raccontare il suo argomento. Si tratta della metafora dell’invasione della nostra civiltà da parte di sconosciuti barbari. I barbari sono le nuove generazioni a partire dagli anni ’60 – ’70. L’ultimo capitolo si conclude con il resoconto del loro assalto alla Grande Muraglia Cinese. Nella sua visione, ci sono ingegneri che stanno innalzando il Grande Muro. Ne sono preposti alla manutenzione.

Intanto, i barbari lo hanno già valicato da tempo. Non solo perché per loro non c’è confine che tenga: ma per loro quel confine non esiste. La ragione d’essere dei civili è quella di edificare un muro che tuttavia sussiste solo nel momento in cui lo si vuole difendere. E a nessuno che venga in mente di navigare la corrente della mutazione. Il flusso portato dai barbari.

Barbaròs in greco significa esattamente barbaro, nella sua corrispondenza di significato e significante: e cioè significa proprio “bar bar”. I greci, colti e civili, usavano questo termine per riprodurre con un termine onomatopeico e canzonatorio il modo di parlare di questi incivili. Costoro non conoscevano il greco, ma parlavano un’altra lingua, e sembrava che barbagliassero. “bar bar”: era ciò che i Greci sentivano. Ma altro e di più era ciò che i barbari dicevano, se si stava ad ascoltarli. Un giorno, nel II sec. a.C, i barbari furono i Romani. I Greci civili furono conquistati dai barbari incivili, che diedero inizio ad una civiltà più grande della loro. In quella novità, la Grecia era una provincia. Il suo modo per salvarsi fu quello d’abbandonarsi all’impero, di divulgare una cultura, le proprie scoperte, il significato che aveva estirpato dal mondo prima di decadere dolcemente.

Baricco, nella sua metafora, vuole dirci anche questo, evocando proprio il termine: barbari; certo, insieme ad una compresenza di altre implicazioni. È questa la natura propria della metafora, lo strumento più provocatorio che Baricco avrebbe potuto usare per un saggio, che trascina con sé molte implicazioni attorno ad un oggetto preposto come indagine specifica.

Eppure, anche la provocazione di Baricco è da “barbaro”. E questo Baricco lo sa. Ne fa uso consapevole.

I barbari sono le mutazioni della società digitale, gli attori e i pionieri che le hanno apportate. La civiltà è, in antitesi, l’assetto antropologico e culturale precedente.

Un’altra metafora: la civiltà è un animale. I barbari sono un pesce. Il segno di una mutazione può essere letto solo alla luce di questa scoperta. Perché l’evoluzione non sia letta come degenerazione. Perché l’inizio di una branchia non sia considerato come la malattia d’una zampa. Ma solo l’inizio di un pesce.

Ed è così che, in una cauta spirale di metafore, Baricco procede ad illustrare le tappe fondamentali che hanno condotto alla trasformazione della società borghese consegnata in eredità dalla cultura ottocentesca. Google, cinema, fotografia. Commercializzazione spinta: di vino, di calcio, di libri, di musica.

Baricco dimostra grande apertura mentale e scarsa tendenza all’apocalisse. Il modo più sfrontato che ha per farlo è paragonare questa incompresa mutazione di oggi a grandi, già riconosciuti cambiamenti epocali del passato. Baricco trova molte similitudini fra l’allargamento dell’odierno pubblico editoriale e la mutazione di prospettive che il romanzo abbracciò in pieno Ottocento, quando scelse di rivolgersi a tutto il mondo borghese. Nel farlo, Baricco dimette ogni giudizio di qualità sull’odierna mutazione, preponendosi di valutarne solo la direzione. Poi, traccia la fisionomia dei barbari. È questo ciò che più gli preme: il loro volto. Lo disegna seguendo il filo della mutazione, la traccia di un cambiamento.

Per questo, fra le sue epigrafi, non può mancare Walter Benjamin. La sua voce si fa sentire lungo l’intero corso del libro. L’eclettico studioso tedesco di XX secolo, prima che per la sua erudizione, viene evocato per la sua maestria nell’arte di riconoscere i cambiamenti e di intravvederne la direzione. Di dedicarsi a diversi aspetti della realtà, congiungerne i tasselli, ricostruirne la fisionomia. Maestro, insomma, nell’arte di fiutare la direzione del presente verso il futuro.

I barbari, dunque, è un saggio sulle mutazioni della civiltà e del mondo del libro. È un saggio sull'arrivo dei barbari. Il saggio-romanzo, nella sua struttura esplicita, fornisce dapprima una mappatura per comprendere il loro saccheggio. Poi, un tracciato del loro volto. Infine, l'invito a comprendere la loro strategia. E la proposta d’una soluzione ragionevole: abbandonare il senso dell'apocalisse, osservare il disegno della mutazione.

Alessia Borriello
@Alessia Borriel5