28 febbraio 2018

VISITA AL CENACOLO DI LEONARDO DA VINCI



L'ultima cena - particolare

Ho visitato più volte nelle uscite scolastiche con i miei alunni delle scuole medie, Santa Maria delle Grazie, la chiesa di Milano dove si trova la famosa opera di Leonardo.
Ricordo molto bene che in una delle mie prime visite guidate, alla fine degli anni ’70, stavano montando il ponteggio di avvio dei lavori per il restauro. Negli anni a venire, in altre successive visite, per la complessità dei lavori dovute alle difficili condizioni in cui si trovava l’affresco, sembrava che il restauro si protraesse all'infinito e non si notava un avanzamento visibile; l’opera di restauro durò più di 20 anni. I restauri sbagliati fatti nei secoli, la polvere, l’umidità avevano ridotto l’affresco a una condizione di degrado tale da risultare quasi del tutto illeggibile. Al degrado avevano contribuito l’uso del refettorio come magazzino per le truppe napoleoniche alla fine del ‘700 e sotto la figura di Cristo, i frati avevano aperto una porta che lo collegava alla cucina. Nel 1943 un bombardamento colpì in pieno la volta e una parete, lasciando miracolosamente integra la parete con l’opera vinciana.


Recentemente son voluta tornare a visitare il cenacolo. Per evitare la lunga fila di turisti che quotidianamente assedia il cenacolo, con mio marito abbiamo acquistato i biglietti su internet. Il giorno stabilito ci siamo intruppati con gli altri turisti, perlopiù stranieri. L’ingresso viene consentito a piccoli gruppi e per un tempo definito, proprio perché anche le persone sono fonte d’inquinamento e per non alterare il microclima regolato entrano non più di una ventina di visitatori alla volta. Avendo avuto la possibilità di vedere l’opera con ancora il ricordo del cenacolo in condizione pessime e con i colori quasi del tutto scomparsi, subito appena entrata, sono stata colta come da uno stordimento che mi ha come abbagliata per le luci, per i colori ritrovati, per l'espressività delle figure che prima non si notava. I capelli di alcuni apostoli prima scuri ora molto più chiari; le bocche dei personaggi aperte per lo stupore all'annuncio di Cristo e prima chiuse. 
Il Cenacolo fu eseguito su una parete del refettorio del convento milanese, Leonardo volle proporre il tema del Cenacolo in modo innovativo, oltre che per la tecnica usata anche per aver fermato un momento preciso dell’ultima cena.
Il momento ripreso nell'opera è quello seguente all'annuncio di Cristo: “Uno di voi mi tradirà”. Nell'analizzare l’opera si può leggere che la reazione degli apostoli non è tanto quella della riflessione sulle parole dette da Cristo, quanto la varietà dei diversi atteggiamenti che provoca a ciascuno di loro. I gesti, i movimenti, gli sguardi tutti dettati dalle diverse reazioni emotive. Pietro descritto dai Vangeli come uomo istintivo e focoso, è irato e stupito dalle parole di Cristo, Giovanni appare rassegnato, Taddeo è impaurito e triste, Simone sbigottito. Leonardo come abbiamo visto ha saputo trasmettere, attraverso la rappresentazione pittorica, i sentimenti di ciascuno sviluppando l’idea rinascimentale “che ciascuna persona è diversa dall'altra”.
Nella rappresentazione i dodici apostoli si dividono in quattro gruppi di tre ciascuno. Fra loro è Giuda, il quarto da sinistra con il gomito appoggiato sul tavolo, rivolto verso Cristo, non ancora sotto accusa, in ombra e turbato perché colpevole. I quattro gruppi concatenati tra loro, formano altrettanti piramidi e al centro Cristo con le braccia aperte, isolato rispetto ai discepoli, con l’espressione serena e la consapevolezza di chi sa che sarà abbandonato da tutti. Vi è dunque uno stacco notevole tra la calma di Cristo e la concitazione degli apostoli. 
La sala è rappresentata con prospettiva lineare, non essendovi, in uno spazio interno limitato, la possibilità di usare la prospettiva aerea. Leonardo per definire un senso di profondità al refettorio usa delle linee che convergono in un punto di fuga (sulla testa di Gesù) indicate dai lati della tavola, sui ricami della tovaglia, sugli arazzi appesi alle pareti e sui cassettoni del soffitto (vedi sotto l'immagine elaborata da Paolo). L’illuminazione contribuisce alla morbidezza della testa di Cristo sostituendo così l’antica aureola.


 
Oggi l’affresco di Leonardo restaurato e rigenerato è tornato ad essere una delle maggiori attrazioni di Milano. Nonostante gli ingressi contingentati, turisti di tutto il mondo convergono al cenacolo in centinaia di migliaia l'anno. Suggerisco, a chi non l'ha fatto, di non mancare ad una visita guidata di questo grande capolavoro.


Lina Viola




24 febbraio 2018

Invito alla lettura: Cime tempestose


Buongiorno cari amici, ed oggi eccoci qui con un classico intramontabile dell'autrice inglese Emily Brontë: "Cime tempestose".Ambientato nella brughiera inglese di inizio Ottocento, Cime tempestose è la storia di Heathcliff, un giovane rimasto orfano che viene preso in custodia da Mr. Earnashaw, ricco gentiluomo proprietario di Cime tempestose, un antico maniero immerso nelle campagne inglesi.

Tra Heathcliff e Catherine, figlia di Earnshaw, si innesta fin da subito un tenero rapporto, una relazione che inizia a mostrare segni di cedimento per via delle profonde differenze sociali tra i due.

Catherine decide quindi di sposarsi con l'altolocato Edgar Linton; mentre Heathcliff, tornato ricco da un viaggio in Inghilterra, decide di vendicarsi sposando la sorella minore del suo rivale amoroso, la giovane Isabel.

Dopo aver dato alla luce la piccola Cathy ed aver confessato ad Heathcliff il proprio amore, Catherine muore e l'uomo, pervaso dal sentimento di vendetta, decide di impossessarsi di tutti i possedimenti della famiglia Earnshaw e della famiglia Linton. Vi riesce e poco dopo muore, seppellito accanto a Catherine, l'unica persona che abbia veramente amato.

In Cime tempestose c'è tutto: l'epica, la tragedia, la spietata analisi dell'animo umano; condotta con un approccio che oserei definire psicoanalitico, oltre un cinquantennio prima che la psicanalisi fosse inventata; la sottile ma implacabile critica alla costruzione sociale, l'ironia e molto altro ancora.

L'autrice con una “finesse” letteraria meravigliosa, si serve di una struttura narrativa perfettamente simmetrica per raccontarci la rottura tragica di una simmetria sociale ed etica, simmetria che sembra ricomporsi nel finale.

Il tema centrale dell'opera è indubbiamente l'amore, in particolar modo quello nei confronti di Catherine da parte di Linton e di Heathcliff.
Amore, anche in questo caso, vissuto in due modi contrapposti, in un binomio irrisolvibile. Da un lato troviamo l'amore, più razionale ma non meno sentito e forte di Linton. Il suo è tuttavia, un amore che non si aspetta dimostrazioni, che viene vissuto con pazienza e tolleranza nei confronti dell'amata. Un amore gentile manifestato in maniera delicata, elegante premuroso; un amore profondo, mai violento.

Al contrario l'amore di Heathcliff, è un amore aggressivo, appassionato; un amore che può essere scambiato per desiderio di possesso nei confronti della donna amata. Il suo è un sentimento che non ammette rifiuti, che odia l'intromissione di terzi. Heathcliff è un uomo rude, crudele, avaro, distante. Catherine è l'unica persona in grado di spogliare Heathcliff dalla sua corazza, di mostrarlo al mondo in tutta la sua debolezza, fragilità e di legarlo a sé per l'eternità.

La Brontë insiste su questo binomio, su questa duplice personalità presente in Heathcliff, sottolineando la crudeltà di quest'uomo che si lascia conquistare dalla sete di vendetta e dall'odio nei confronti dei suoi nemici, arrivando a commettere azioni riprovevoli e spregiudicate. Dall'altro lato invece troviamo un Heathcliff premuroso, estremamente sensibile e romantico nei confronti di Catherine.

Cime tempestose è un romanzo in cui il reale protagonista è l'amore, di cui la Brontë ci fornisce molte sfaccettature. L'amore infantile di Isabella, la sorella di Linton, nei confronti di Heathcliff; è un amore ingenuo che si lascia conquistare dalla rudezza di quell'uomo e spera in un risvolto fiabesco, ossia in un Heathcliff capace di lasciarsi andare e di amare. L'amore quasi materno, maturo e responsabile di Ellen nei confronti di Cathy; l'amore premuroso, attento e delicato di Cathy nei confronti di Hareton.

È evidente che questo romanzo sia in realtà un piccolo tesoro pieno di perle, che ogni lettore deve essere capace di cogliere e di gustare.

È un classico e come tale penso debba essere letto, per arricchire con un tassello in più quel grande mosaico che va a comporre la cultura letteraria di ognuno.

Marika Mendolia


Il libro è disponibile, potete ritirarlo in biblioteca:






20 febbraio 2018

L'antica chiesa rurale di Santa Lucia


Questo testo di Lino Guarnaccia fu fatto stampare in poche copie e donato ai suoi amici quarant'anni fa; una copia è conservata in biblioteca.
Un uomo mite e accogliente, i suoi modi gentili non gli impedivano di denunciare l'incuria e la dispersione dei beni culturali e archeologici, per ignoranza e ignavia, di chi avrebbe dovuto preservarli. Appassionato della storia locale, per amore di Pietraperzia fino alla fine dei suoi giorni testimoniò questo suo amore con tante opere che abbiamo potuto conoscere e leggere, tante rimaste inedite e ormai purtroppo andate perdute,  e molte altre ancora nei cassetti delle persone che ebbero la fortuna di conoscerlo. Della chiesetta rurale di S. Lucia e dei suoi affreschi bizantini, come per suo presentimento, ormai non rimane niente. Ci resta questa preziosa testimonianza e le sue tre fotografie a corredo del libretto.


APPUNTI STORICI 
SULL’EX CHIESA RURALE DI S. LUCIA IN TERRITORIO DI PIETRAPERZIA (ENNA)


Lino Guarnaccia

Pietraperzia nasconde nel suo territorio inestimabili tesori archeologici ed architettonici. È triste, però, notare che pochi se ne sono occupati e che ancora non è stata effettuata una ricerca sistematica. Chi Io ha fatto, ancora non ha dato alle stampe i propri Iavori e questo è frenante per lo sviluppo cognitivo della zona.
L’indifferenza e l'apatia, specie quella critica sottile e penetrante, disarmano invero i più volonterosi e tutto rimane come prima.
Quest’anno, nel mio solito pellegrinare in cerca di notizie su Pietraperzia, fui accompagnato da Francesco Fonti, Felice Guarnaccia e Giuseppe Toscano a visitare l'ex chiesa rurale di S. Lucia.
Ne rimasi meravigliato! La chiesa era tenuta in custodia da eremiti che vivevano delle elemosine dei fedeli.
Questa chiesa, unitamente a quella di Monserrato, fu interdetta al culto fin dal 1854 da Monsignor Cesare Agostino Sajeva, vescovo di Piazza Armerina (1846-1867), con lettera pastorale del 15 maggio 1854. Questa lettera è stata da me fotocopiata da un volume manoscritto che si trova nell'archivio della Chiesa Matrice di Pietraperzia per gentile concessione del parroco don Felice Lo Giudice. Della chiesa di Monserrato (Serre), oggi non esiste più nulla. Verso il 1960 i resti che ne rimanevano furono fatti saltare con la dinamite per aprirvi una strada per il trasporto dello zolfo della miniera di Musalà(1), abbassando il livello dell'antica trazzera di circa quattro metri proprio dove sorgeva Ia chiesa. L'ex chiesa di S. Lucia, pur non essendo più conservata al culto, conserva ancora qualche cosa di cui ci intratterremo a parlare.
L'ex chiesa rurale di S. Lucia è situata a sud-est del paese in posizione meravigliosa, a 544 metri sul livello del mare ed a circa due chilometri da Pietraperzia. Vi si gode uno stupendo panorama e Io sguardo può spaziare, a perdita d'occhio, per un vasto orizzonte.
Questa località, forse, fu scelta in antico per la sua posizione dominante e forse vi fu eretta qualche edicola, per come testimoniano certi massi di arenaria rimossi. Nello scasso del terreno attorno all'ex chiesa, per mettervi a dimora una vigna, sono venuti alla luce ossami umani e cocci di ceramica di epoche diverse. Ciò testimonierebbe che il luogo fu abitato fin da tempi antichi. Lo testimoniano anche le strade che passavano vicine a questo santuario.
Non lontano da S. Lucia è stato messo in luce un pezzo di strada romana in contrada Vignagrande-Runzi, nel fondo di proprietà di Vincenzo Barrile. Questa scoperta, fatta dal Prof. Antonio La Lomia, potrebbe portare nuova luce agli interrogativi degli studiosi circa la strada interna Siracusa-Agrigento dell'Itinerario Antonino.
Sappiamo che dal fondaco di Piraino per Aidone, Madonna della Noce (Piazza) la strada perveniva a Calloniana, stazione vicina a Barrafranca(2). Da qui la strada Barrafranca-Pietraperzia-Caltanissetta, sembra che per la gola di Capo d'Arso, dove Carlo V, nel 1553, fece costruire un ponte sul fiume Salso, andava ad allacciarsi con S. Cataldo. Ma si può pensare che la strada scendesse lungo la destra del fiume e per Sommatino-Ravanusa-Naro o Delia, andava a congiungersi a Favara con la via d'Agrigento (Biagio Pace, Arte e Civiltà della Sicilia Antica, p. 437).
La strada però potrebbe essere quella proveniente da Philosofiana (Mazzarino) che, superata la fiumara Rastello, andava ad allacciarsi a quella della Tardara(3)-Runzi-Vignagrande-Pietraperzia e per Montagna di Cane, Monte Pisciacane, il Salso andava a congiungersi con S. Cataldo (vedi schizzo).



La chiesa non ha più le tre arcate originarie ed il porticato ma conserva due arcate più l'abside, la sacrestia ed alcune stanze che servono d'abitazione. Di questo santuario o chiesa rurale, si conosce molto poco.
L'unico che disse qualche cosa a riguardo fu padre Bongiovanni Dionigi dei Minori Riformati di S. Francesco da Pietraperzia (1744-1801), nella sua Relazione critico storica della prodigiosa Immagine di Maria Santissima della Cava - Stamperia Divina Provvidenza, presso Gio Battista Cagliani, Palermo 1776.
Dice che la chiesa rurale era antichissima ed era dedicata a S. Lucia Siracusana. All'interno, dice, vi era raffigurata una immagine della Madonna, detta dell'Esperta, dal popolo, perché esaudiva immediatamente le invocazioni dei devoti. Le donne attribuivano questo affresco ad opera di S. Luca, ma le donne, dice il frate stesso, dicono delle "scioccaggini".

Nell'anno 1582, ancora padre Dionigi dice che un certo Giovanni Gilberto Riccobene, per atti del notaio Antonino Volpe addì 8 maggio 1582, 5^ Ind., legava alla chiesa di S. Lucia un ducato annuo sopra una sua vigna, perché il sacerdote don Francesco Pavone vi officiasse ogni anno una messa. Questa ex chiesa oggi appartiene ai coniugi Fonti Fioribello e Clorinda Sapia, che l'acquistarono da una loro zia emigrata negli Stati Uniti d'America, nei primi anni del 1900 ed era pervenuta a questa da certo Salvatore Bevilacqua.
Gli attuali proprietari hanno dovuto sostenere notevoli spese di rifacimento e con encomiabile intelligenza, hanno lasciato alla costruzione l'aspetto antico e salvato parte dell'affresco che si trova nell'abside.
Questo luogo dovette essere meta di pellegrinaggio; qui la gente affluiva, con le sue pene, recando suppliche e doni. Si ignora quando, da chi e per quale devozione fu costruita, e sarebbe molto interessante portare luce in questo senso.
Le opere che in essa vi si trovano sono le mura e questi pochi frammenti di affresco da me fotografati nel catino absidale. Tutto il resto è scomparso!
L'interno dell'ex chiesa è a pianta quadrata senza cupola con archi a sesto acuto e con un'unica navata centrale. Il soffitto non sappiamo come fosse in origine, ma guardando la ricchezza dell'affresco, le travature dovevano essere riccamente dipinte. Il pavimento sembra fosse stato in larghi lastroni di arenaria, come si può constatare nell'ingresso. L'abbattimento del porticato ha fatto arretrare la costruzione di circa quattro metri togliendola, in parte, allo sguardo del paese. Non sappiamo se anche le pareti furono affrescate e se la Santa Esperita, fosse anche questo un affresco, né a quale epoca attribuire gli affreschi. Sicuramente tutti i motivi sono bizantini. L'abside è perfettamente orientata ad est, le arcate si concordano in simmetria e la figura del Cristo, nel catino absidale, è la sintesi di tutta la costruzione.



L'affresco dell'abside forma un disegno a due stadi: nello stadio superiore troneggia il volto del Cristo con un'ampia aureola e quel volto è di straordinaria bellezza ed effetto. Sullo sfondo si intravedono vari disegni che lascerebbero pensare a delle allegorie. L'aureola del Cristo è molto ampia e di un colore arancione, contornata da vari segmenti in bianco e nero. Del mantello poco si vede, soltanto un po’ dell'accollo e poi più in basso si riscorge con le mani e parti del ricchissimo mantello. I colori sono delicati, sul celeste e verde scuro, mentre la tunica è tra il rosa ed il giallo. La mano destra, che si intravvede spuntare da sotto il mantello in un gesto oratorio e di bell'effetto, mentre l'altra raccoglie quasi sul petto i lembi del mantello mettendo in evidenza la bellissima orlatura in un drappeggio morbido ed elegante. La tunica che si scorge è meravigliosa sia nei colori rosa che nel drappeggio.
Il volto del Cristo è perfetto: occhi celesti, naso e bocca ben conformati, ciglia e barba sul biondo, ma non folti. I capelli non si vedono essendo rimasti nascosti dal muro tirato su per nascondere l'abside dalla navata. Sotto il Cristo Pantocratore vi sono rimaste alcune figure di Santi in atteggiamenti diversi, avvolti in meravigliosi pepli e tuniche che fasciano il corpo in ampi drappeggi. Il colore dominante è il rosso mattone, il giallo oro e sullo sfondo domina il verde.
I colori applicati allo strato di gesso hanno molto risentito del lungo abbandono e delle varie vicissitudini alla quale sono stati sottoposti nel tempo. Questo affresco ha dello stupendo. Le linee sono perfette ed il dosaggio dei colori è meraviglioso. Il Cristo Pantocratore corrisponde ad una tecnica perfetta e testimonia l'evoluzione dell'arte bizantina. Le immagini dei santi col gesto del dito, che una volta stavano ad indicare l’Agnello Divino, ora indicano il Cristo Pantocratore sopra di loro. In funzione di trasmettere alla Chiesa la realtà della pienezza della Legge. La pittura sembra voglia spiegare il messaggio cristiano prendendo su di sé i peccati del mondo. L’immagine che anima questo affresco, o quello che ne rimane, in origine deve essere stata stupenda.
Ancora oggi, nei suoi residui, ci offre la gioia delle sue luci e dei suoi colori oltre alle linee perfette di uno spirito realistico e, ad un tempo stesso, perfettamente religioso.
Se questi affreschi avessero avuto miglior fortuna, Pietraperzia oggi potrebbe ammirare e vantare un'opera stupenda e ci potrebbero, gli studiosi, raccontare tante cose.
L'arte aulica era arrivata dunque fino a Pietraperzia, in questo paese dalle mille vite e dagli occulti pensieri. L'espressione autoritaria del Cristo, la grandezza sovrumana di mistica inaccessibilità di quel volto, incute nell'osservatore, ancora oggi, rispetto e raccoglimento. La rappresentazione dei personaggi è disposta in modo che questi tributano rispetto e venerazione, con l'espediente di principale profondità. Il rigido atteggiamento della figura rappresentata frontalmente induce, in chi guarda, ad una disposizione spirituale.
L'artista, ignoto, esprime in questo atteggiamento la propria venerazione per lo spettatore che egli immagina sempre nella persona del basileus, suo committente e protettore.
La massima attrattiva di questo santuario fu senza dubbio questo Cristo Pantocratore, oltre all'amenità del luogo ed alla vicinanza del paese.




(1)     Musalà in arabo vuoi dire "luogo della preghiera"
(2)     Angelo Li Gotti, Identificazione definitiva di Calloniana in A.S.S.O. - 1951
(3)     Tardara, significa vallone dei morti, da G. Alessio, L'’Elemento Greco della Toponomastica della Sicilia, in 'Bollettino di Studi Filologici e Linguistici Siciliani". Palermo 1955, fasc. 3 - o. 257.


Lettera d’interdizione al culto delle chiese
di Monserrato e S. Lucia

Pietraperzia in corso di sacra visita 15 maggio 1855
Vescovato di Piazza
N. 498
Oggetto:
Interdetto ed assegno dei beni delle chiese filiali di Monserrato (Serre) e S. Lucia.
Rev.mo Signore,
In rigor del presente decreto di sacra visita, restano interdette le chiese filiali e rurali Monserrato e di S. Lucia e ordiniamo quindi che tanto i mobili che gli immobili e rendite delle chiese suddette passino a fare parte il patrimonio della Matrice Chiesa ed è perciò che da oggi innanzi ne rimane investito il Parroco Arciprete qual solo e legittimo amministratore dell'unica parrocchia del comune.
Ella pubblicherà questa determinazione e me ne farà tenere l'atto di affissione ed esecuzione.

Il Vescovo
Cesare Agostino Sajeva


Si pubblichi e si affissi:
Sac. Giovanni Nicoletti Vicario
Pietraperzia 16 maggio 1855

Il presente decreto è stato pubblicato ed affisso
Sac. Emmanuele Ballati maestro notaro.

Lino Guarnaccia

16 febbraio 2018

Invito alla lettura: La cattedrale del mare



Oggi vorrei presentarvi un romanzo molto famoso, scritto dall'autore e avvocato spagnolo Ildefonso Falcones, intitolato: "La cattedrale del mare".
Ci troviamo nel quattordicesimo secolo nella Catalogna, in particolare a Barcellona.
In pieno feudalesimo si snodano le incredibili vicende di Arnau Estanyol, umile ragazzo figlio del servo della gleba Bernat, fuggito dalle angherie e dalle oppressioni del suo antico signore di Bellera, al fine di conquistare la libertà.
Arnau cresce a Barcellona guidato dai saggi insegnamenti del padre e in compagnia di Joan, vivace bambino insieme al quale scopre la Cattedrale della Madonna del Mare, all' epoca già in costruzione, e fa la conoscenza della confraternita dei bastaiox.
Arnau non si distaccherà mai effettivamente dalla sua Madonna, né dai bastaiox.
Il legame è così forte che le tappe della vita di Arnau sono continuamente paragonate e scandite dalle fasi di costruzione della cattedrale. Arnau vive tante avventure che lo portano ad intraprendere diversi mestieri, a cambiare la sua condizione sociale e a legarsi a molti personaggi cruciali.
Questo romanzo dallo stile ricco e lineare, mi ha sorpreso piacevolmente per l'intreccio imprevedibile, cioè i personaggi si lasciano e si ritrovano per uno strano scherzo del destino.
Inoltre vengono coinvolte nel romanzo, molte tematiche storiche, tra cui: le angherie subite dai contadini da parte dei feudatari, le guerre intraprese dai sovrani per affermarsi sui traffici marini, la propensione al commercio della città di Barcellona, le adunate della Host (esercito cittadino), in caso di recata offesa alla città; la tremenda epidemia di peste che decimò la popolazione, le persecuzioni dell'inquisizione. 
Il personaggio di Arnau è caratterizzato da una completa assenza di pregiudizi, inoltre fautore dell' uguaglianza e della libertà. Amico di ebrei e musulmani, contrario alla schiavitù.
Mi azzardo a dire che questo romanzo mi ha ricordato un po’ "I Pilastri della terra" di Follett.
Comunque l'ho trovato un ottimo romanzo storico che unisce per bene realtà storica e finzione.
Vi troverete in un vortice di emozioni finali, posso solo assicurarvi che il vostro cuore esulterà.

Marika Mendolia

Il libro è disponibile, potete ritirarlo in biblioteca.





13 febbraio 2018

Invito alla lettura: Gli intrighi della politica e la razionalità della matematica




Quello che si riceve in regalo, si sa, non dovrebbe essere regalato ad altri; una regola, in realtà, tanto citata quanto disattesa. Di solito, tuttavia, i regali dei quali tentiamo di disfarci sono quelli che proprio non hanno colpito nel segno; difficilmente ricicliamo quelli che ci sono piaciuti e ci ha fatto piacere ricevere. Tutto questo giro per dire che il libro che intendo regalare alla biblioteca in questa occasione, è un regalo che ho ricevuto a mia volta. Ma ci tengo a dire anche che appartiene alla categoria dei regali graditi; anzi, in questo caso, doppiamente graditi perché mi è stato regalato da uno dei miei  figli e  perché si tratta di un libro che ho letto con piacere e curiosità e che ho trovato molto originale. Il titolo è “La Trappola del


gioco” e l’autore è Nicola Oddati. Il genere è il giallo
(genere sempre verde) e del giallo ha tutti i connotati canonici: l’omicidio (in questo caso una sequenza di omicidi); le indagini; la soluzione finale del mistero. 
Quello che subito appare piuttosto particolare è invece il contesto nel quale la storia prende corpo e decisamente originali sono i personaggi coinvolti nelle indagini e ancor più le metodologie che risultano decisive per risolvere gli enigmi.

  Siamo a Napoli, inizio degli anni 2000, in piena emergenza rifiuti. Le strade sono invase dall’immondizia, le discariche sono stracolme, nei depositi si accumulano le famigerate ecoballe in attesa di essere smaltite.
  
Ma l’emergenza rifiuti oltre ad ammorbare l’aria e attentare alla salute delle persone, profuma di affari e su di essa lucra e si muove una consorteria politico – affaristico - camorristica che alimenta un circuito che è perfetto fintanto che tutto si tiene ed allora sono guadagni e carriere politiche spianate; quando salta la catena sono invece morti ammazzati e carriere politiche che si infrangono tragicamente.

  La prima vittima a cadere su questa strada è un consigliere regionale che ha fatto le sue fortune politiche appunto nel settore della gestione dei rifiuti; il cadavere viene trovato (viene fatto trovare lì, perché appaia chiaro il messaggio) in un sito di stoccaggio di ecoballe.  E’ quello che si dice un morto eccellente; un personaggio chiave del sistema, un politico ambizioso che ha costruito la sua carriera con spregiudicatezza, anche a spese dei vecchi sodali di partito e macinando le loro carriere; uno che era uso a coltivare rapporti pericolosi e curare dossier in grado di compromettere tante persone: ce n’è quanto basta per agitare il sonno di molti.

 Ma non è che l’inizio. A questo segue un secondo morto ammazzato (una intraprendente donna d’affari introdotta nel mondo politico napoletano, con interessi nel campo dell’impiantistica ambientale) ed un terzo ( l’amministratore delegato di un colosso nazionale nella realizzazione di impianti per il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti).  Morti tra di loro collegate e tutte quante interne al sistema.

  Da dove partono i colpi e perché? La miscela è davvero esplosiva: i contrasti e i risentimenti dei politici, gli interessi della camorra e delle imprese che lucrano sull’affare dei rifiuti? Tutto questo insieme o qualcos’altro ancora? E dove è saltata la catena? Perché il sistema che deve produrre utilità per chi è dentro, produce morti?  E quei morti sono il segno che il sistema si è destabilizzato o sono morti che devono prevenirne la destabilizzazione?

  Questo lo scenario che hanno davanti gli investigatori. Come si viene a capo del groviglio di interessi che muove la storia? Come valutare ruolo e comportamento degli attori che agiscono su tale scenario? Con il rigore delle scienze matematiche.

 È così che la chiave per venire a capo degli intrighi politico-affaristico-criminali che reggono la storia sarà fornita da Pietro Maiorana professore di matematica all’Università di Napoli (ma palermitano di origine) che è associato alle indagini come speciale consulente degli inquirenti.

  Quella di Pietro è una mente insieme razionale e visionaria che introdurrà nelle indagini le chiavi interpretative giuste per  inquadrare il comportamento dei singoli personaggi che popolano la scena venendo a capo del mistero. Di che si tratta? Dell’applicazione alle indagini di una metodologia interpretativa del comportamento delle persone derivata dalla teoria dei giochi.

  La teoria dei giochi è una scienza vera e propria che si avvale della matematica più complessa per analizzare e studiare il comportamento dei soggetti coinvolti in una competizione che può svolgersi in uno qualsiasi dei campi dell’interazione umana e valutare le strategie poste in essere da ciascuno per ottenere il massimo vantaggio per se stessi o ridurre uno svantaggio.

  Nel modello analizzato, ogni soggetto coinvolto ha un preciso obiettivo: deve decidere come meglio muoversi per volgere la situazione in proprio favore senza sapere cosa faranno gli altri (può solo ipotizzarlo) ma sapendo che anche gli avversari applicano il medesimo procedimento logico.

 Un contributo importante alla teoria dei giochi lo diede J. F. Nash (genio assoluto e premio Nobel nel 1994, la cui vita è raccontata in un film di qualche anno fa “A beautiful mind” con Russel Crowe: assolutamente da recuperare e vedere) che formulò appunto il teorema che porta il suo nome: in una situazione dove gli attori non cooperano, anzi sono in competizione tra di loro e non possono fidarsi l’uno dell’altro o accordarsi, la mossa vincente, per tutti e per ciascuno, è arrivare ad una condizione nella quale tutti i giocatori hanno un valido motivo per non cambiare la propria strategia, che si presume sia seguita anche dagli altri: tale condizione è detta appunto equilibrio di Nash.

  In una condizione siffatta, applicata all’indagine, per l’investigatore tendono a chiudersi gli spazi perché i protagonisti (non solo il colpevole o i colpevoli, ma anche tutti quelli che hanno da temere qualcosa dal disvelamento della vicenda) non si muovono più, minimizzando così il possibile danno per se stesso che può derivare dal progredire delle indagini; una condizione di stallo che pregiudica la possibilità di risolvere il caso.

  Per stanare i giocatori ed indurli ad una ulteriore mossa, bisogna introdurre elementi di squilibrio nel gioco: gli inquirenti devono modificare la tendenza all’inerzia del sistema tendendo una trappola ai giocatori per non rimanere intrappolati nel loro gioco.

 Ed è appunto Pietro ad architettare la trappola finale; l’equilibrio si sfalda e nessuno si sente più al sicuro semplicemente non agendo; devono esporsi per ripristinare l’equilibrio.

 Ma è bene fermarsi qui nel racconto: di un giallo non si deve anticipare troppo per non compromettere il piacere della lettura.

 Su una cosa sono pronto a scommettere: chi si dovesse appassionare alla lettura del libro e non ne sa abbastanza sulla teoria dei giochi, sicuramente sentirà il bisogno di saperne di più sull’argomento. A me è andata così.

Salvatore Di gregorio




08 febbraio 2018

Sofia: città dai mille volti. Invito a visitare la capitale bulgara


Non nascondo ai lettori che scrivo questo articolo con un po’ di egoismo: tornata da Sofia, ho ancora le sue immagini davanti agli occhi quando li chiudo... così ho pensato di farlo diventare per me l’occasione di metabolizzare il mio viaggio e fissarlo nella memoria, per voi un invito a recarvi in questa città meravigliosa.

Santa Sofia, martire cristiana.
Statua eretta in luogo della precedente
raffigurante Lenin.
Sòfia è la capitale della Bulgaria. Sulla carta ha circa 1.270.000 abitanti, ma nella realtà i sofioti stessi dicono d’essere almeno 3 milioni. Una miriade di civiltà vi si sono mescolate nel tempo: dai primi Traci che l’hanno fondata come Serdica nel VII secolo a.C. -il che ne fa la terza capitale europea più antica dopo Atene e Roma- ai Romani che l’hanno conquistata nel 29 a.C., dagli Unni che vi irruppero nel 447 d.C., ai popoli zingarici che, originari dell’India, giunsero a più riprese verso l’Europa a partire dal Mille d.C., passando proprio per i Balcani, dai Bizantini ai Turchi Ottomani che la conquistarono nel 1382, fino ai Russi.
Giunti a Sofia avrete la sensazione di fare un tuffo negli anni ’80. Ad edifici di stampo comunista (il Regime vi permane dal 1946 al 1989), si affiancano edifici dalle architetture teutoniche – quelli oggi visibili in una qualunque città tedesca – tracce lasciate dal governo filo-tedesco a partire dalla Prima Guerra Mondiale, nella cui sfera d’influenza la Bulgaria rimase fino alla Seconda.

Sede del Partito Socialista bulgaro
Scorcio di una via con il classico
tram cittadino

Vista di Sofia con alle spalle il monte Vitosha 
La città sorge ai piedi del monte Vitosha. Al mattino i raggi del sole adagiano una patina d’oro sulle cime innevate dei monti Balcani che la abbracciano, e lasciano cadere una calda carezza sui lineamenti seriosi delle abitazioni. La luce muore sui palazzi squadrati e severi per poi risorgere riflessa dalle cupole d’oro delle chiese ortodosse e dai pinnacoli abbaglianti delle chiese russe.


Sferzate di vento gelido si mescolano all’odore seducente di rosa, che vi inonderà non appena aprirete le porte dei tipici negozietti di souvenir. La Bulgaria produce, infatti, da sola l’80% dell’olio essenziale di rosa del mondo, in una valle – la Rozova Dolina – che fra maggio e giugno si ricopre di migliaia di rose bianche, rosse e rosa.

Vista notturna della Moschea
Banya Bashi
Nel giro di un solo giorno ho pregato accanto agli ebrei, abbagliata dalla luce della Stella di David; ho indossato l’Hijab e mi sono rivolta verso la Mecca con i musulmani; incantata insieme ai cristiani, ho stretto le mani giunte e spalancato gli occhi davanti allo splendore delle iconostasi delle chiese ortodosse... e mai in nessuno di questi luoghi mi sono sentita figlia di un Dio diverso.




Iconostasi nella chiesa ortodossa del  Monastero di Rila

"Sinagoga centrale" della città, definita tale perché la più
importante fra le varie presenti in passato


Lettere maiuscole dell'alfabeto cirillico
L’eleganza dell’alfabeto cirillico e le centinaia di icone bizantine che costellano le chiese e i musei vi avvolgeranno in un'atmosfera da mistero sacro, atmosfera che mai mi aveva colta come a Rila, sede di un antico monastero nel cuore dei monti e meta che da sola varrebbe l’intero viaggio in terra bulgara.


A 120 km da Sofia, il Monastero di Rila è il più grande della Bulgaria. Fondato da San Giovanni di Rila nel X secolo, è patrimonio dell’Umanità dal 1983. A 1147 m d’altezza, circondato da vette innevate e ammantate di conifere, protetti dalle sue mura e immersi nel silenzio ci si sente veramente ad un passo dal Paradiso.

Monastero di Rila, il più grande della nazione

Camminando per strada avrete la sensazione che più mondi e più epoche vi sfiorino contemporaneamente. Vi incanteranno i bulgari biondi dagli occhi azzurri e i lineamenti spigolosi tipici dei popoli slavi; vi cattureranno gli sguardi magnetici e diffidenti dei bulgari scuri dagli occhi verdi, profondi come tunnel nei visi dai tratti zingarici; vi strapperanno un sorriso i bulgari dall'espressione calda e dai tratti rudi, che vi faranno sentire a casa, come foste in Sicilia... perché sì, a tratti questa terra crogiolo di razze e di popoli diversi, ininterrottamente contesa e strappata da ogni lembo come un tessuto prezioso, mi è sembrata molto simile alla nostra.

Valeria Bongiovanni



05 febbraio 2018

Invito alla lettura: Il momento di uccidere



Quando ho iniziato a leggere questo noto romanzo, il primo “legal thriller” di un lungo elenco di grandi successi di John Grisham e conosciuto la tragedia di Tonya, una bambina di colore di 10 anni stuprata da due balordi bianchi, ubriachi e razzisti... subito mi ha coinvolto facendomi prendere parte per la vittima.
Il processo per stupro è immediato. Il romanzo è costruito nel contesto tra razzismo, desiderio di vendetta e la rabbia che un padre prova verso coloro che gli hanno sconvolto la vita e rovinato sua figlia, ormai devastata psicologicamente e fisicamente per le violenze subite. Carl Lee Hailey padre della piccola, non può aspettare quella giustizia che forse non si compirà mai. Allora decide di farsi giustizia da sé sparando e uccidendo gli imputati in tribunale. Il processo a Carl Lee, così come i fatti si svolgono nel Mississippi, Ford County, profondo sud degli Stati Uniti, dove il tema razziale è molto sentito: da una parte i neri, in un clima di sudditanza dall'altra i bianchi razzisti, sprezzanti verso i diritti della gente di colore e dove imperversa l’organizzazione razzista del Ku Klux Klan.
Particolare importanza nel romanzo riveste l'avvocato difensore di Carl Lee, Harry Rex Vonner, per la sua forte personalità, consapevole della notorietà che potrà avere da questo processo. Subirà molte pressioni, minacce di morte e la sua casa verrà bruciata... nulla lo fermerà. La giuria formata da una maggioranza di bianchi non riesce a formulare un verdetto per la mancanza dell'unanimità del voto. Per giorni vivono isolati per non avere contatti col mondo esterno. Solo lo stato d'animo della giurata Wanda, attraverso una commovente descrizione dello stesso stupro mette a nudo la propria coscienza e fa riflettere gli altri giurati. In un clima di grande tensione emotiva riusciranno a raggiungere il verdetto.
528 pagine, non sono tante, quando la lettura è scorrevole lo stile semplice e curato. Emozionante, avvincente, coinvolgente, ben scritto, molto dettagliato nelle descrizioni delle varie fasi del processo.
Il libro lo trovate in biblioteca. Che dire ancora? ...Buona lettura!




La lettura di questo romanzo è coincisa con i fatti di cronaca verificatesi a Macerata. Un razzista nostrano spara da un auto a persone sconosciute, colpevoli solo di essere di pelle nera. Una brutta storia d’intolleranza che fa riflettere anche sulla nostra società attuale e dei mutamenti che stanno avvenendo nelle nostre città e di come stia crescendo l’intolleranza verso gli immigrati. Una brutta storia, dicevamo, che può portare ad altri atti di violenza se questa china razzista non viene contrastata e per non cadere nella trappola dell'odio e della violenza.
Lina Viola