28 marzo 2018

Trovatelli e Ruota di Pietraperzia: I "proietti" - 2^ Parte




A Pietraperzia è tuttora possibile monitorare il fenomeno dei proietti inclusi nell'elenco dei battezzati dei libri della Parrocchia Santa Maria Maggiore dal 1600 al 1950. Senza contare i neonati, privi di paternità certa, l’elenco degli abbandoni, molto elevato, evidenzia lo spaccato di miseria sociale di quegli anni oscuri. Il fenomeno, già molto antico, era diventato abominevole e disumano fin dal 1600. Alle sfortunate mamme, a volte vittime di stupri e di abbandoni, esposte alla riprovazione sociale e spesso ingiustamente ritenute responsabili di colpe non loro, venivano additate come “donna libera”, “meretrice” e altro d’irripetibile. Ai pochi bambini, ritrovati per caso e forse strappati temporaneamente alla morte, venivano appiccicati nomignoli spregiativi e denigratori: “bastardello”, “figlio dello Spirito Santo.
I trovatelli, proietti, esposti o come dir si voglia, i più fortunati registrati senza un cognome, diventavano esseri privi di dignità e di identità umana, abbandonati ai capricci della natura e consegnati all’oblio del tempo; era impossibile, come lo è ancora oggi, seguire il tracciato della loro vita per conoscerne il vissuto. Della maggior parte di loro e della stragrande maggioranza, venuta alla luce e mai registrata, nessuno saprà più niente. La magnanimità di alcuni, e ce ne sono stati tanti nel passato, disposti a farsi carico, per tutta la vita, di uno di questi derelitti, trovato per caso, non ha affrontato e tantomeno risolto l’antico e problematico fenomeno dell’abbandono. Nacque allora l’idea della “Ruota”, non come semplice attrezzo per recuperare nascituri, ma come struttura sociale finalizzata al recupero immediato dei proietti e poi alla loro crescita e al loro inserimento nel tessuto sociale.
Nel 1751 il viceré borbonico, Duca Laviefuille, sollecitato dai parroci dell’isola, cominciò ad interessarsi dei proietti. Tanti anni dopo, con la circolare del Marchese Fogliani pare che si abbia avuto voglia di affrontare definitivamente l’annoso e mai risolto problema. Il provvedimento incontrò non poche difficoltà applicative, specie nei piccoli comuni e si trascinò fino alla fine del secolo.
Tra il 1753 ed il 1768 la frequenza di bambini abbandonati e ritrovati ancora vivi diventa più frequente. In quegli anni era Parroco l’Arcipresbitero Don Michele Ramistella, da cui dipendeva il Santuario Madonna della Cava ed erano gli anni in cui le autorità centrali stavano intensificando gli sforzi per istituire la “Ruota dei proietti”. Qualcuno, a conoscenza del progetto e interessato a ridurre la piaga dell’abbandono, avrà illustrato favorevolmente la proposta della istituenda “Ruota”. Persone interessate, intuendo che a breve le proprie creature sarebbero potuto diventare ospiti della “Ruota”, si adoperarono ad abbandonarli in luoghi ritenuti sicuri e di facile ritrovamento, per evitare probabili attacchi di cani randagi o altri animali selvatici.
Dall'elenco dei battezzati, da cui questo lavoro trae tutte le informazioni, non si rileva, in quegli anni, l’esistenza di una sola organizzazione pubblica che si facesse carico del problema dei proietti. Solo madrine e/o padrini, presenti al rito del battesimo, solo rari  volontari disposti all'adozione, avrebbero potuto assumersi tale pesante onere per tutta la vita. Per i neonati abbandonati, senza fortuna d’incontrare persone motivate all'adozione, c’era la più totale indifferenza.
Sarebbe interessante capire perché degli 86 trovatelli registrati nell’arco di 26 anni, tra il 21 marzo 1756 e il 4 dicembre 1782, solamente 5 siano stati affidati ad una fantomatica ruota.
Con l'annessione del Regno di Napoli al Regno Italico (1806-1815) ad opera di Napoleone, la Ruota nel meridione, venne ufficialmente istituita in numerosi paesi del Sud per la tutela pubblica dell'infanzia abbandonata.
In realtà ruote degli esposti erano presenti a Catania, Messina, Napoli anche prima del 1800. In alcune grandi città o in centri abitativi più grossi esistevano dei brefotrofi che accoglievano anche bambini arrivati da lontano, portati da uomini prezzolati, ma pochi riuscivano a superare lo stress del trasporto. Contenuti in ceste di vimini, a volte portati a spalla, esposti alle intemperie, alimentati solo occasionalmente e in modo assolutamente incongruo, in condizioni igieniche spaventose, spesso eliminati per strada o gettati nei fossi come oggetti fastidiosi e ingombranti; quei pochi che sopravvivevano fino al brefotrofio spesso morivano poco dopo perché giunti in condizioni estreme.
La mortalità dei bambini abbandonati era altissima alla fine dell'ottocento; si stima che ne morissero all'incirca la metà nel primo anno di vita e un'altra metà prima del compimento del settimo anno.
Le ragioni di questo alto tasso di mortalità, in linea con quello di altri paesi europei, erano legate principalmente a due ordini di fattori: il periodo trascorso al freddo e la malnutrizione, oltre alle malattie infettive contratte nei luoghi di degenza.
La "Ruota" lasciava comunque i piccoli "esposti" al freddo anche se per un periodo di tempo minore rispetto ai tanti neonati lasciati davanti alle chiese; proprio da questa "esposizione" nacque il cognome Esposito che era dato a molti di questi infelici. E se nel napoletano era Esposito il cognome più adoperato per questi bambini, nel Lazio si utilizzava soprattutto Proietti derivante da "proietto" cioè gettato via.
In altre parti d'Italia, altri cognomi segnavano i bambini abbandonati: Colombo a Milano, Innocenti a Firenze, Della Scala a Siena e poi Trovato, Del Frate, in altre località.
Colei che per prima accoglieva il neonato, prestando le prime cure e scegliendo, nella maggior parte dei casi, il nome di battesimo, era la “pia ricevitrice”, una donna, spesso una suora, (a Pietraperzia era una donna con esperienza pluriennale di mamma) che aveva il compito, al suonare della campanella esterna, di prelevare i trovatelli dalla ruota.


Giovanni Culmone






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26 marzo 2018

Don Giovanni in Sicilia e quegli sguardi di troppo




Incontro con l’Autore

Vitaliano Brancati. Un affascinante e poliedrico protagonista. Un autore dalla natura intricata e oscura, non sempre visto dalla critica con degna oggettività, la quale lo ha spesso etichettato come “colui che portò il gallismo e il dongiovannismo in Italia”.
Ahimè, mai ci fu errore più grave di questo.
Il dongiovannismo è sinonimo di vitalità, forza, vigore, coraggio, carnalità, tensione verso la più accesa virilità maschilista; elementi del tutto estranei a Giovanni Percolla e alla sua strampalata combriccola, protagonisti del romanzo Don Giovanni in Sicilia (1941). Già il titolo dimostra quella connotazione tutta siciliana dei personaggi, il che comporta una serie di tratti distintivi: primo fra tutti, quello del mero atto sessuale non più carnale, ma solo apparente, statico e a tratti platonico, poiché l’eros, colonna portante dell’opera, si regge su un'unica e sola logica: quella degli occhi e quella dello sguardo.
Don Giovanni in Sicilia non è l’unico romanzo in cui lo sguardo assume un significato pregnante, si veda Anni perduti, in cui i protagonisti sono impegnati nella costruzione di una torre, una torre da guardare, una torre da cui guardare il panorama, un guardare che si sostituisce all’agire. Lo sguardo, quindi, nasconde dei significati più profondi, che saranno ben chiari se si entra nel merito dell’opera.
Giovanni Percolla ha tre sorelle, Rosa, Lucia e Barbara. Si ricordi che Santa Lucia è la protettrice della vista e degli occhi, e Brancati non sceglieva assolutamente a caso i nomi: le sorelle, infatti, rappresentano un surrogato materno, quell'elemento che tiene Giovanni ancorato al nido, che non ne permette la crescita e la maturazione. Gli occhi, quindi, sono strettamente legati alla sfera sessuale. Perfino la sua attività lavorativa è all'insegna degli occhi, poiché “il suo lavoro al negozio si riduceva ad aiutare con gli occhi quello che facevano lo zio e i cugini”. Anche il padre non è esente dal motivo degli occhi, poiché «La notte, il commendatore Percolla fu assalito dalla febbre, e i suoi occhi ingranditi s’attaccarono alla porta come vedendo qualcosa che gli altri non vedevano» La morte si associa quindi ad una padre ipervedente, dotato di un sentire unico. Tutti i membri della famiglia, chiaramente in misura diversa, sono convulsamente trascinati nella giostra degli occhi e dello sguardo.



Veniamo quindi a Giovanni.
Il suo eros non è concreto, ma soltanto astratto e mortifero. Non si bea della carnalità, ma si associa sempre ad immagini di fissità. Non passa all’azione, ma è solo un gioco di sguardi, come nel Dolce Stil Novo, divenendo simbolo di una mancata crescita dei personaggi. Gli occhi, quindi, sono un prolungamento, o meglio una sostituzione, del membro virile, poiché essi approdano dove tutto il resto non arriva.
«“Talìa?” dicono a Catania. “Che fa, talìa” domanda a voce bassa lo studente al compagno di banco, insieme al quale, col capo chino e rigido, passa sotto il balcone di lei.» Alla fine tutto si riduce ad uno sguardo, anzi ad una talìata.
Perfino il primo incontro tra Giovanni e Ninetta è all’insegna dello sguardo: Giovanni viene, per la prima volta, talìato, questa volta non è lui ad esercitare lo sguardo sulla donna, ma a subirlo.
Dietro il motivo dello sguardo si celano ragioni ancora più inconsce e recondite, a tal proposito si vedano le condizioni in cui Giovanni venne al mondo:
«Giovannino nacque un giorno più tardi di quando doveva nascere. Per ventiquattr’ore, gli sguardi, che i parenti mandavano al grembo della madre […] furon quelli che si mandano a una tomba precoce. Il bambino, il “corazziere”, che non usciva alla luce, fu considerato morto, e il nonno del padre lo pianse con gli occhi asciutti e certi rumori della gola che somigliavano a colpi di tosse».
Come si legge, Giovanni nacque all'insegna degli sguardi rivolti al grembo della madre, visto come una tomba precoce, simboleggiando ancora un ripiegamento verso la rassicurante dimensione uterina. Il nonno del padre, invece, lo pianse con occhi asciutti, con un dolore quasi indifferente ed estraneo. Madre, padre, occhi, sono motivi ricorrenti nella psicanalisi, in relazione al cosiddetto “complesso di Edipo”, che si accecò per non vedere più quel sole che era stato testimone dell'incesto. Anche Giovanni, quindi, come Edipo, non vuole abbandonare “il nido”.
Il complesso di Edipo sembra poi tornare in Anni perduti, secondo cui «si diventa adulti quando si diventa padri» a testimonianza di una impossibilità di paternità, un’angoscia di castrazione. A proposito di ciò, si vedano “i rimproveri” della madre nei confronti del padre di Giovanni, il quale, quando era bambino, lo baciava morbosamente:
«“Smettila di baciarlo così! Gli porti via gli occhiuzzi!…”»
Secondo Freud, la paura dell’accecamento (e quindi anche quella di Edipo) consiste nell'originario e inconscio timore dell’evirazione. L’evirazione denota, ancora, impossibilità di un amplesso carnale, richiamando anche l’impotenza del Bell’Antonio, simbolo di un eros mancato. Sempre secondo Freud, il complesso di Edipo collegato al motivo degli occhi è fortemente presente nel racconto L’uomo della sabbia (o Mago sabbiolino) dello scrittore tedesco E. T. A. Hoffmann, tematica affrontata nel saggio Il perturbante.
Fra tutte le profonde relazioni che tra le due opere si possono stilare, una cattura la nostra attenzione: l’espediente della bambola. Muscarà, uno degli amici di Giovanni, tornò da un viaggio con una bambola che assomigliava molto ad una donna in carne ed ossa; l’oggetto del desiderio venne nascosto in casa di Muscarà, poiché esso consisteva nell'elemento “perturbante”, un particolare inquietante che suscitava anche attrazione. La bambola avrebbe sconvolto la loro routine, rischiando di far “passare all'azione” i personaggi confrontandoli con una realtà più corporea rispetto a quella in cui avevano vissuto, per questo doveva essere celata.
Anche nel racconto di Hoffman è presente una bambola, Olimpia, la quale si rivelerà essere, alla fine del racconto, un automa, una bambola senz’anima.
Il motivo degli occhi e dello sguardo connesso al complesso di Edipo è presente anche nell'ultima eredità che lo scrittore ci ha lasciato, Paolo il Caldo. Il protagonista ci consegna un triste e malinconico soliloquio:
«Lo sforzo costante della mia vita è stato di vedere la luce del mondo (che per me è quella della Sicilia) dalla parte ridente, ed espellere dal cervello le influenze della sua ripresa buia, dalla quale derivano l'apprensione e la lussuria.
Non vi sono riuscito sempre. I periodi, in cui non vi sono riuscito, portano il nome di esaurimento nervoso. Che cosa era esaurito in me? Il fosforo, dicevano i medici. E questa diagnosi mi piaceva in modo particolare, perché fosforo vuol dire luce. In uno di tali periodi, mi son trovato seduto su un gradino del teatro greco di Siracusa, a una rappresentazione dell'Edipo a Colono di Sofocle. Quando il vecchio cieco gridò, con un gesto falso:
"Luce, che nella mia vivente tenebra più non vedevo, e sempre eri pur mia…" io ebbi un capogiro. Il verso, nonostante il gesto falso da cui era accompagnato, sembrava avesse premuto, come il dito di un chirurgo che operasse sul mio cervello, il punto in cui sono concentrate le forze della coscienza e della veglia.
»
Come si evince, il protagonista è consapevole di un suo oscuramento della coscienza, di un tragico conflitto interiore, va quindi alla ricerca della "luce" (motivo presente anche in Anni perduti), senza la quale la mente è ottenebrata dall'apprensione e dalla lussuria. E della stessa luce va alla ricerca Edipo che, dopo l'accecamento, viveva nelle tenebre.
Ricordiamo che il Novecento è il secolo della psicanalisi, dell’inconscio, del monologo interiore, del flusso di coscienza, basti tener presente l'Ulisse di James Joyce e La coscienza di Zeno di Italo Svevo (il cui protagonista, guarda un po’, è afflitto dal complesso di Edipo).
L’analisi riportata denota quindi una grande attenzione di Vitaliano Brancati al panorama novecentesco della letteratura italiana e straniera, un autore che, in virtù delle sue mille risorse e dei numerosi spunti di riflessioni, non può e non deve essere ridotto ad anguste etichette.
Spogliamo quindi i preziosi scritti del Brancati da tutte quelle nomee astruse e da quelle classificazioni riduttive, andiamo alla loro natura più intima ed essenziale, di una tempra tutta siciliana. Gettiamogli quindi uno sguardo, anzi, una talìata.


Anna Marotta


23 marzo 2018

INTERVISTA IMPOSSIBILE A VITALIANO BRANCATI. Una chiacchierata sull’Amore




Per quanto si possa parlare di un Autore, per quanto si possano leggere e commentare le sue opere, si ha sempre la sensazione che gran parte del suo pensiero rimanga nell’abisso dell’inesprimibile, del non-detto. Questa pseudo-chiacchierata con Vitaliano vuole rubare all’ombra ancora un piccolo lembo del suo pensiero e offrire alla luce ancora una parte della sua concezione della Vita.
Sono in sala d’attesa nell’anticamera dei cieli, circondata da una gran folla. Tutti chiedono di Vitaliano. Mentre ripasso con lo sguardo ancora qualche appunto sulla sua vita col block notes fra le mani, mi meraviglio che così tanta gente lo conosca. Scruto gli astanti: sono giovani, perlopiù uomini fra i venti e i quarant’anni. Molti hanno un aspetto curato e sicuro di sé, come predatori all’attacco saettano le donne della sala con sguardi maliziosi; altri, al contrario, sono timidi e insicuri; i loro sguardi sembrano creature spaurite che si aggirano per una radura senza la protezione della madre né di una fronda che faccia loro ombra, ansiosi di nascondersi dietro il primo cespuglio che si offra loro.
Le due categorie fanno gruppo ciascuna da una parte diversa della sala. Un’immagine grottesca e curiosa: sembrava che un capriccioso Mosè si fosse divertito a separarle come le acque del Mar Rosso, la Baldanza da un lato e la Pavidità dall’altro.
Ad interrompere le mie riflessioni sul curioso campionario umano, da dietro una porta, come un ronzio di una voce irata, ma non di un iracondo per natura, bensì di qualcuno che, punzecchiato oltremisura, perda d’improvviso la pazienza, e forzi perciò l’eleganza della sua voce in un momentaneo e attoriale sfogo d’ira: «Ma insomma, basta con queste richieste! Tutto credevo di essere ricordato dopo la morte, tranne che come il mental coach per la conquista dell’altro sesso! Selezionate, selezionate!».
Realizzo d’improvviso l’accaduto e mi si fa chiaro il motivo della copiosa presenza maschile nella sala. Un uomo sbuca da una porta a vetro, scruta con lo sguardo nella mia borsa la pila di libri dell’autore e, indovinato il block notes fra le mie mani chiuse, mi invita ad entrare.

B. Ah, una donna! (Tira un respiro di sollievo). Almeno lei non mi farà richieste assurde su come diventare il perfetto Don Giovanni!

V. (Chiudo la porta alle mie spalle e saluto con una punta di timidezza. Dalla penombra affiorano due occhi, dietro le cui fessure intravedo un abisso, penetranti e dolci, sovrastati da due sopracciglia perfette, scure e nette che, dopo un attimo di distrazione, rimbalzano il mio sguardo sulle iridi scure. E mi trovo occhi negli occhi con Vitaliano. Lui non disturba il mio silenzio. Mentre lo osservo sul suo volto si sovrappongono più volti: quello seducente di un arabo dall’incarnato e dalle iridi scure; quello elegante di un normanno dai lineamenti quasi filiformi sul viso sottile e aggraziato; quello caldo di un siciliano dalla fronte alta e i baffi scuri sulle labbra che, ora, accennano un sorriso.)

B. La gente crede che lo scrittore sia un prete sul pulpito, e invece è solo un fedele che ha il coraggio di levare la sua preghiera più forte degli altri.

V. Oggi non si solleva nemmeno più lo sguardo al cielo, perché non si hanno preghiere da levare. O a volte si chiede qualcosa, ma non è ciò che si vorrebbe realmente, presa in prestito com’è dal commerciante di sogni di turno. Così si cercano, più che guide che dicano cosa fare, uomini che prima ancora suggeriscano cosa desiderare.

B. Non mi dica che gli uomini non desiderano più nemmeno le donne!

V. La maggior parte crede di desiderarle, ma le concupisce soltanto, cosicché una volta avutele, viste e toccate, non sa più che farsene e va alla ricerca di emozioni sempre nuove, che diventano vecchie e consunte in un batter d’occhio.

B. (Sorride con un respiro ruvido che sfrega in fondo alla gola come un archetto sulle corde tese di un violino, senza voler minimamente celare una soddisfazione in procinto d’esplodere.) E poi lo criticavano il povero Antonio! “De-siderare”, signorina, dal latino DE- : rafforzativo e SIDERARE, da sidus, sideris: stella. “Fissare attentamente le stelle”, tenere lo sguardo fisso su qualcosa che è distante da noi, alto e quasi irraggiungibile e per ciò stesso affascinante, che rinnova un desiderio e un’emozione costante.

V. Meravigliosa etimologia, signor Brancati, ma prima o poi Antonio doveva “raggiungerla” quella donna!

B. E cosa vuol dire “raggiungere una donna”? Congiungersi con lei? Tanti uomini portano a letto le donne, vi fanno perfino dei figli, ma non le hanno mai raggiunte.

V. (Sgrano gli occhi in segno di stupita approvazione, poi dalle mie sopracciglia aggrottate trapela una profonda delusione). Ma fare l’amore è meraviglioso! (L’esclamazione perde un po’ di foga nelle sue ultime lettere, mescolata com'è ad una punta di imbarazzo). Nobile, profondo sentimento l’amore, che ci fa gioire fin nei meandri dell’anima, e ci eleva. Ma rimarrebbe solo una contorsione del cuore, uno spasimo della mente se non si “facesse” concreto... fare l’amore... è l’amore che si fa odore dolce su per le narici, si fa pelle sotto le dita, si fa suono negli orecchi e sapore dell’altro sulla lingua e...

B. ...e sensazione di vederlo in persona, l’Amore, nell’immagine della donna che ami. (Esita).
Lei crede che Dante sarebbe riuscito ad amare così a lungo e con quell’intensità Beatrice, se l'avesse sfiorata anche solo una volta?

V. Ma Dante aveva nove anni al suo primo incontro con Beatrice! E la seconda volta in cui la incontra, dopo quasi dieci anni, lei gli nega persino il saluto. Non era amore quello! L’amore diventa tale solo se ricambiato, prima d’allora è solo ossessione, venerazione o contemplazione. Anche un’opera d’arte ci rapisce con la sua bellezza e ci eleva, ci rivela grandi verità. Che differenza c’è allora fra una donna e un quadro?

B. (Sospira). Vecchio dilemma. Ha colto nel segno, signorina. Era come quadri in un museo che ci piaceva ammirare le donne. Giovanni Percolla, Muscarà, Scannapieco... i marciapiedi di via Etnea erano per loro le pareti del Louvre, del Musée d’Orsay. Guardavamo quei visi dolci, quelle gambe e quelle rotondità coperte dalle vesti come Veneri del Rinascimento, e le donne a Viareggio come fossero le bagnanti di Renoir...

V. (La mia bocca si curva in un sorriso d’assenso). Se tutto quello che ci circonda fosse rimasto solo un’idea nella mente di Dio, nulla esisterebbe. Un’idea, infondo, è nulla.

B. Lei crede in Dio, dunque. La invidio.

V. Non so se Dio esista. Ma mi piacerebbe che fosse così. Anche lei cercava Dio. Quel viaggiatore dello sleeping n. 7, i tormenti di Ermenegildo inginocchiato in chiesa accanto ad Antonio... ecco, posso rileggerle un suo passo?

B.  (Sfila Il bell'Antonio dalle mie mani, e prima ancora che io gli indichi quale riga leggere), esordisce:

È possibile che le parole cielo, paradiso, giustizia divina, pace eterna non corrispondano a nulla di reale? Loro non corrispondono a nulla, proprio loro che sono le parole più belle della nostra vita? È possibile che il nome Gesù Cristo, ecco lo ripeto: Ge-sù Cri-sto, sia il nome di un povero morto e a pronunziarlo non si fa voltare nessuno né in questo né in un altro mondo? Ecco, lo ripeto ancora: Gesù Cristo, Ge-sù Cri-sto, il nome di un matto dunque, vissuto duemila anni fa, che si figurava in buona fede di versare sangue e morire solo per una sua generosa accondiscendenza alla debolezza umana, e di lasciare in piedi i soldati che lo fustigavano e le torri della città che assisteva al suo supplizio, solo frenando a stento la sua onnipotenza? Gesù Cristo, un pietoso allucinato con la testa sempre arrovesciata a guardare il cielo, di cui in realtà ignorava la forma, la composizione e la luce, ma che egli credeva ormai la sua reggia, vedendovi nel mezzo un suo trono dorato alla destra di un assai curioso Padre… E dunque la sera di giovedì, quando pregò nell'orto ripetendo nel modo più tenero questa parola “Padre”, dall'altra parte non c'era nessuno ad ascoltarlo? E quando, sulla croce, promise al ladrone convertito di portarlo in cielo con sé, povero ladrone, come dovette bestemmiare quando s'accorse che alla penombra dell'agonia succedeva un buio sempre più fitto e senza speranza!… E dunque per noi uomini, ci chiamiamo Ermenegildo Fasanaro o Gesù Cristo di Nazaret, non c'è che buio e ignoranza? E, se andiamo a scuola, una rassegnata filosofia che si accontenta di chiamare “verità” le nostre disgraziate domande senza risposta?

(L’interrogativo rimane sospeso come un equilibrista sul filo teso nel tendone di un circo. Silenzio)

V. Beh! Dio o D’io? In ogni d-io c’è un “io”, caro Brancati. Dio è il mondo visto dalla mia prospettiva, il significato che do a quello che mi circonda. Dio è nient’altro che quel senso.

B. Ecco, io credevo che fosse l’Amore il senso. È per questo che Antonio non sfiorò la sua Barbara: non voleva che lei fosse parte di tutto il resto... della materia che degrada e sfiorisce, della carne che invecchia e marcisce...

V. Quella Bellezza... quella che nei suoi romanzi lei scrive con la “B” maiuscola.

B. Esatto. Non sarebbe bastato l’acme di un orgasmo della carne per raggiungerla. Così gli diedero dell’ “impotente”.

V. Chi ama la Bellezza pura si sente sempre un po’ impotente: possiamo ammirarla in un dipinto, scorgerla in una statua, annidarla in una riflessione filosofica, corteggiarla in un’alba, in un uomo, in un tramonto, ma non abbiamo mai la sensazione di raggiungerla veramente.

B. Questo è l’essere umano: tensione, attenzione, intenzione... tutto è un tendere, insomma. Abbiamo sempre bisogno di tendere le braccia al di sopra di noi per rimanere in piedi, per ergerci sulle cose e sul mondo.

V. E ora che è qui? In questo Oltretomba su cui gli uomini fantasticano a dismisura... l’Iperuranio, il luogo della pace, della salvezza, il coacervo indifferenziato delle idee, dei sogni e dei pensieri... sente di aver finalmente sfiorato ciò che ha inseguito per tutta la vita?

B. (Solleva le sopracciglia come un bambino cui si scopre una bugia, poi disegna fulminea con lo sguardo una linea obliqua e posa i suoi occhi sul pavimento). Ora che sono qui... mi mancano i gelati di Palermo, la zuppa di pesce della Zì' Teresa a Napoli, la bistecca di Salvini a Firenze, il silenzio del Canal Grande, l'aria fresca dei fiumi dell'Alto Adige, le vasche da bagno dell'Hôtel Coccumela a Sorrento

V. (Adesso sono io a soffiare il mio sorriso dentro un sospiro mesto) Tutto quello che faceva trasalire il petto di gioia a Marietta in quel suo ultimo romanzo...

B. Ecco, ora che sono da questa parte dico: siate come lei... sentite le vibrazioni della Vita in ogni corda dei  vostri sensi; non perdetevi nell'eccesso della razionalità. Quello che si registra nella mente è solo lo spartito... ma la Vita è musica. Ecco, da scrittore mi sono sentito come un musicista che compone senza aver mai sfiorato il tasto di un pianoforte, la corda di un violino...

V. (Distolgo lo sguardo dal suo viso per lasciarlo solo con la sua Nostalgia, con discrezione, come uno che, costretto nello stesso luogo con due amanti, voglia lasciarli indisturbati. I miei occhi sono catturati dalla luce di una finestra alle sue spalle, da cui un azzurro turchino irradia forte la luce solare. Il cielo è terso al punto tale che i vetri sembrano non reggerne il peso cromatico e, dissoltisi, brillino in minutissime schegge danzanti insieme al pulviscolo luminoso. Una risata ovattata d’improvviso vi fa da melodia. Allungo la vista e nella nebbia luminosa pian piano si materializzano due figure. Riconosco Antonio, dal volto olivastro, affumicato potentemente dalla barba, ma delicatissimo e quasi unto di lacrime al di sotto degli occhi, bello, proprio come Vitaliano l’aveva descritto. Scompigliati dopo la giravolta, i capelli neri di Barbara, attraversano il viso di lui come una nube passeggera e scura il sole di primavera. Antonio prende il viso di lei fra le mani e con gli occhi raggianti di felicità stringe le labbra sulle sue. Un bacio impetuoso, lungo e profondo come uno che si tuffa da uno scoglio e viene inghiottito dal blu... riemerge e apre gli occhi. L’abbraccio che segue è così stretto che vedo le due sagome diventare un tutt'uno, fra loro, con l’azzurro, con la luce).




20 marzo 2018

Trovatelli e Ruota di Pietraperzia: Cenni storici - 1^ Parte

CENNI STORICI SULLA NASCITA DELLA RUOTA 


Si racconta che Papa Innocenzo III, in seguito alla visita di alcuni pescatori che gli avevano mostrato le loro reti, tratte dal Tevere, piene di piccoli cadaveri, decise di prendere una posizione in merito: nel 1198 istituì, per la prima volta in Italia, la così detta "Ruota". La ruota volle essere la risposta all’infanticidio dei figli indesiderati.
Consisteva in un meccanismo  di legno a forma di cilindro, ruotante su un asse verticale, diviso in due parti chiuse e munite di uno sportello; le parti combaciavano con una apertura posta sulla cinta esterna dell'istituto e permettevano di collocare il bambino abbandonato, senza essere visti. Facendo girare la Ruota, la parte che conteneva il bambino, veniva immessa all'interno dove, aperto lo sportello, si poteva prelevare il bambino; vicino alla Ruota vi era un campanello che avvisava una guardiana di turno nota come "Rotara", dell'arrivo del bambino. 


La Ruota degli Esposti dell’antico ospedale di Santo Spirito a Roma
La prima Ruota però nacque in Francia nel 1188 presso l'Ospedale dei Canonici di Marsiglia, per poi diffondersi anche in Grecia e Spagna.
A Pietraperzia, nello stesso periodo, le cose non andavano diversamente e dei neonati abbandonati e mai recuperati non c’è riscontro. Il primo trovatello battezzato di cui si ha notizia risale al 12 dicembre 1602 ma non si conosce il luogo del suo ritrovamento.
La zona indicata del primo ritrovamento,14 marzo 1607, si individua nei pressi della Chiesa San Rocco, allora fuori del centro abitato.
Nella tradizione comune, i Sacerdoti avvicinati da genitori d’un neonato per impartirgli il sacramento del battesimo, dopo avere declinato e trascritto nel registro dei battesimi le proprie generalità, chiedevano ai presenti, quelle dei genitori e il nome da dare al battezzando. Per i trovatelli si seguiva la stessa procedura e in assenza dei nomi dei genitori inventavano le formule più disparate, come quelle già riportate nei tanti altri documenti: “figlio dello Spirito Santo”; “figlio di meritrice”; “figlio di donna libera”; “figlio di genitori sconosciuti”; “trovato davanti … e seguivano le precisazioni e tante altre diciture consimili.
Il 21 marzo 1756 in uno dei tanti atti di battesimo, a cura del Sac. Don Pietro Giarrizzo e Nicoletti Cappellano Sacrale di questa Ven. Chiesa Madre S. Maria, si legge per la prima volta “ho battezzato un bambino esposto la notte scorsa nella ruota dei proietti di questa città” dicitura che non ripete, undici giorni dopo, nel successivo documento del 2 aprile 1756, redatto dallo stesso Sacerdote, ma afferma: “ho battezzato una bambina sub condizione, trovata davanti la porta della Chiesa S. Maria della Cava nelle ore mattutine, nata verosimilmente otto giorni fa”.
Il 20 marzo 1759 il Cappellano Don Giovanni Emma battezza una bambina trovata nella ruota di questo ospedale.
Il 9 aprile 1773 il Sacerdote D. Michele Gregorio, battezza un bambino trovato in questa ruota di orfanotrofio.
il 22 aprile 1780 il Sac. Don Vincenzo Vitale battezza un bambino trovato, nella ruota di questo ospedale.
4 dicembre 1782 l’Arcipresbitero Michele Ramistella battezza una bambina trovata nella ruota di questo ospedale.
Tutte le informazioni sulla nascita, o eventuale ritrovamento del neonato, arricchiti da tutti i particolari possibili, venivano forniti al Sacerdote, dalla persona, precedentemente identificata durante il rito e veniva subito annotata nel relativo libro dei battesimi.
Dai tanti riscontri finora effettuati nel 1756 non si è rilevata l’esistenza di una struttura pubblica chiamata ruota dei proietti e nemmeno nel 1759 ruota dell’ospedale.
Ruota di orfanotrofio” citata nel 1773, ruota d’ospedale del 1780 e del 1782 sarebbero state i toccasana non solo del 1773 ma di tutti gli anni a venire, purtroppo, anche di queste citate strutture non si è riscontrata traccia.
In tutto il 1700, e in particolare nella prima metà del secolo, si riscontra il maggior numero di trovatelli abbandonati, all’interno e alle periferie dell’abitato.
Sarebbe veramente strano pensare, anche se non impossibile, che genitori, in presenza di strutture pubbliche, fatte per ridimensionare il loro rimorso e soprattutto per alleviare le sofferenze dei neonati, scegliessero di abbandonarli a cielo aperto o chi sa dove.
L’abbandono a cielo aperto della propria creatura, era sicuramente frutto di sconforto, di disperazione assoluta e della mancanza di strutture ricettive idonee all'accoglienza.
Luoghi solitamente destinati ad abbandonare i figli indesiderati erano le porte delle case di famiglie benestanti o nelle vicinanze di chiese e conventi. A metà 700 almeno quattro ritrovamenti furono fatti davanti la casa di Rosaria Montalto, Forse nota come donna pia e caritatevole. Un altro luogo prescelto dalle madri disperate era la chiesa della Cava, perché lontano dall'abitato.


Giovanni Culmone




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15 marzo 2018

Invito alla lettura: Storie fantastiche di gente comune



Buongiorno amici miei, oggi parliamo di un romanzo pieno di spunti su cui riflettere, un romanzo che ti tiene incollata alle sue pagine per ore e che a volte è capace di commuovere e a volte ironico per le storie dal sapore agrodolce.
Il titolo del libro in questione è: "Storie fantastiche di gente comune", dell'autore esordiente Stefano Valente.

L'opera narrativa si snoda in tre racconti: nel primo incontriamo Paolo, un ragazzo che decide di seguire il proprio cuore, i propri valori ed il proprio coraggio e si arruola nell’aeronautica militare, andando contro la volontà dei suoi genitori che lo volevano chirurgo. Paolo non si perde d'animo, continua a inseguire i suoi sogni e la sua strada non smettendo mai di credere nei suoi ideali, anche quando per amore sarà costretto ad abbandonare l'uniforme.

Nel secondo racconto la protagonista è Chiara, una ragazza intelligente e colta, laureata in chimica farmaceutica con il massimo dei voti e con una sfrenata passione per la chimica; passione che condivide con il fratello Alessandro, ricercatore per una grande ditta farmaceutica produttrice di "Athena", un farmaco in grado di curare il Parkinson e altre malattie neuro-degenerative. Ma all'improvviso la nostra protagonista, si troverà a dover affrontare una realtà raccapricciante che rischia di portare alla morte migliaia di pazienti, e che la metterà di fronte a scelte difficili, soprattutto quando c'è in ballo l'amore per chi ha il tuo stesso sangue.


Il terzo racconto ci porta a conoscere Matteo, un giovane brillante avvocato penalista, che a seguito dell'ennesima causa vinta, scopre di aver fatto assolvere il vero colpevole.
La sua sete di giustizia, la passione e l'amore che mette nel suo lavoro, lo porteranno alla giusta soluzione, in una strada piastrellata da falsi eroi e pericolosi colpi di scena.

Il messaggio che l'autore vuole trasmettere con questi tre racconti, che appunto narrano di gente comune, è che ognuno di noi è l'eroe di se stesso, nulla di straordinario, nella realtà di oggi un eroe è qualcuno che non ha paura di mettersi in gioco, di emergere, anche se a volte tutto ciò ci porta a pagare un prezzo troppo caro per una solida integrità morale assecondata dai propri valori e dal coraggio delle proprie scelte.

La tecnica narrativa usata è particolare, in quanto ogni racconto è affidato ad una voce
narrante.
Lo stile è fluido e ricco di particolari che si incentrano nella vicenda.
Un piccolo capolavoro letterario. Ringrazio con tutto il cuore Stefano Valenti che per l'appunto mi ha dato la possibilità di leggere come dire, questo piccolo manuale di sopravvivenza morale.

Marika Mendolia