28 settembre 2018

Ristrutturazione del convento Santa Maria di Gesù: Opera di alto valore culturale



L’architetto Giuseppe Paolino illustra la ristrutturazione del convento Santa Maria di Gesù

Nella serata di presentazione del progetto di ristrutturazione del convento di Santa Maria, ci fu consegnata, dall’arch. Paolino, una lettera aperta che vogliamo portare a conoscenza di quanti non poterono essere presenti la sera del 25 scorso. Con la lettera torniamo a mostrare alcune immagini della ristrutturazione elaborate al computer, immagini che abbiamo chiesto allo studio Artè, che gentilmente ci sono state concesse.

Sala biblioteca. Ristrutturazione convento Santa Maria di Gesù – Pietraperzia


Lettera aperta

dell’arch. Giuseppe Paolino & Francesca Calì
 Agli Amici della Biblioteca





La “conservazione” del Convento Santa Maria di Gesù, deve essere intesa nella sua accezione più consona a definire quel concetto di sintesi, tanto nobile quanto utilitaristico, che rende possibile la trasformazione di un “Bene Culturale” in “Bene Sociale”. “Nobile” in quanto annoverabile nella sfera della conservazione di “valori culturali”; d’altro canto “utilitaristico”, in quanto capace di rendere possibile quel processo virtuoso di trasformazione di un Bene Culturale in bene capace di produrre “valori socio-economici” per la collettività attraverso anche una appropriata destinazione d’uso.

Chiostro e secondo cortile visti dall’alto. Ristrutturazione convento Santa Maria di Gesù – Pietraperzia

Oltre ad avere un importante valore culturale, il Convento di Santa Maria conduce i cittadini a prendere coscienza di una comunione di storia e di destini. La sua conservazione è perciò di un'importanza vitale. Infatti, questa ricchezza costituisce un bene comune per la collettività: il patrimonio architettonico sopravviverà solo se sarà apprezzato dal pubblico e soprattutto dalle nuove generazioni.
Il Convento di Santa Maria di Gesù rappresenta, dunque, una delle parti più interessanti, sia sotto il profilo architettonico che per il ricco apparato decorativo, del patrimonio architettonico-culturale di Pietraperzia.
Il chiostro. Ristrutturazione convento Santa Maria di Gesù – Pietraperzia

L’obiettivo principale di questo intervento consiste nel recupero, restauro, manutenzione e rifunzionalizzazione del manufatto, al fine di rendere accessibili alle proprie funzioni di strutture ricettive, educative, ricreative, per la valorizzazione turistica nel territorio, attualmente carente nonché per la conservazione e valorizzazione dei circa 4000 volumi storici e oltre 11.000 testi contemporanei che costituiscono il patrimonio della biblioteca comunale di Pietraperzia.

Uno scorcio del chiostro. Ristrutturazione convento Santa Maria di Gesù – Pietraperzia

Lo scopo sociale si fonde con quello urbanistico, sviluppandosi attorno al punto cardine del progetto che è il senso della memoria, che emerge grazie alla particolare attenzione con cui le trasformazioni vengono legate alla preesistenza, alla volontà di conservare tracce di un passato fortemente radicato in quest’area, ma anche al ruolo simbolicamente affidato alla biblioteca come “fabbrica della cultura”, e la biblioteca è solo l’attività principale e catalizzatrice di tutte le altre attività che si svolgono al suo interno, per la creazione di un vero e proprio “polo culturale”. Gli Amici della Biblioteca testimoni sicuri di questa volontaria conservazione, realtà tangibile nella nostra società, proiezione futura di una cultura che affonda le proprie radici nella storia, mezzo di conoscenza per tutta la comunità.... A voi il testimone!

Secondo cortile. Ristrutturazione convento Santa Maria di Gesù – Pietraperzia





19 settembre 2018

Il restauro del Crocifisso di "Lu Signuri di li fasci"

                                                         
Tratto da:
OFFICINA SICILIANA
a cura di Paolo Russo
editrice MAGIKA







Il Crocifisso "umanistico" di Pietraperzia: conservazione, restauro e riconoscimento stilistico


Nel caso del piccolo Crocifisso (cm 110 ca.) che si conserva nella chiesa Maria Santissima del Soccorso di Pietraperzia, nell'entroterra siciliano, lo stato conservativo in cui era pervenuta la statua in legno ne rendeva incomprensibile il reale orizzonte estetico (fig. 1).
Opera «di antichissima Religione nel Publico», il Crocifisso è tenuto ancora oggi in grande venerazione dalla comunità locale che, come nel passato, conduce l'antico simulacro per le vie cittadine il giorno del Venerdì Santo, celebrazione nota come "Lu Signuri di li fasci", per via delle numerose fasce di lino bianco che i devoti legano ad un anello di ferro posto sotto un globo policromo ubicato alla estremità di una lunga trave di cipresso, di più di otto metri, su cui è issato il piccolo Crocifisso, il tutto ancorato sopra una vara condotta in processione. La chiesa, appartenuta ai padri Carmelitani, è annoverata tra le più antiche di Pietraperzia, per quanto non se ne conosca con precisione l'epoca di costruzione. La sua fondazione dovette cadere, ad ogni modo, prima del 1584, anno della donazione di donna Giulia Moncada, moglie del principe di Pietraperzia Pietro Barrese, a Girolamo Mo[z]zicato, Superiore della Compagnia del Soccorso che aveva sede nella suddetta chiesa"11.
A quel tempo, a giudicare dall'attuale aspetto stilistico, il Crocifisso doveva già essere stato scolpito dall'ignoto intagliatore, verosimilmente siciliano. Quanto prima è possibile ipotizzarlo sulla base del suo assetto stilistico-formale originario. Nel corso dei secoli il Crocifisso ha subito il comune destino toccato alla maggior parte di questa classe di manufatti, oggetto di successivi interventi di manomissione e ridipintura che vi hanno apportato una consistente stratificazione materica apocrifa, occultando di fatto l'immagine originaria.
Il recente restauro ha rivelato, al di sotto della posticcia crosta opaca, un'opera inedita, di discreta qualità formale e sorvegliata tecnica esecutiva, aggiungendo una testimonianza preziosa all'evoluzione del tipo in Sicilia nella prima età moderna (figg. 2-4 e tavv. 1-2)12

1. Crocifisso (prima del restauro). Pietraperzia, chiesa Maria Santissima del Soccorso, vulgo del Carmine

La figura del Cristo in croce presenta un impianto frontale, la linea orizzontale tracciata dall'ampia apertura delle braccia che misurano in larghezza lo spazio, con arti esili e corti che si concludono in due grandi mani dai palmi aperti, incrocia la falcata perpendicolarità del corpo. La parte superiore del torso affusolato, dal morbido modellato anatomico, si restringe improvvisamente sotto l'addome, dove l'innaturale strozzatura del tronco enfatizza il ventre arrotondato. È questa una formula che caratterizza quei crocifissi in legno e in legno e mistura, o semplicemente in mistura, prodotti in particolare dalle officine di "crocifissai" messinesi tra la seconda metà del XV e il tardo XVI secolo, ricondotti per lo più alle botteghe familiari dei La Cuminella, dei Pilli e dei Tifano o "de li Matinati", con larghissima diffusione lungo
i versanti costieri settentrionale e ionico dell'isola, e distribuiti anche oltre i confini regionali13.

2. Crocifisso (dopo il restauro). Pietraperzia, chiesa Maria Santissima del Soccorso, vulgo del Carmine

Il Crocifisso di Pietraperzia, tuttavia, pur condividendone le scelte formali di mediazione tra tradizione medioevale e modernità pseudorinascimentale, si differenzia da quei modelli. Nella studiata anatomia della figura, lo scultore tende con più convinzione ad abbandonare i tradizionali schematismi gotici intrisi di stile inter-nazionale, ricercando una misurata attenzione al naturale, dove l'acuto realismo descrittivo cede a un inedito idealismo formale. La sopravvivenza della formula figurativa gotica, di sotto della misurata ortogonalità compositiva rinascimentale, è tradita dalla inclinazione della figura sul lato destro, con il leggero sollevamento dell'anca, mentre la spalla sinistra avanza impercettibilmente, trasmettendo una viva impressione di moto all'esile architettura del corpo. La testa reclina dolcemente sulla spalla destra; il volto, tipizzato, ha tratti regolari, l'ovale polito è segnato dal corrugamento della sella del naso e dalla prominenza degli zigomi arrotati; gli occhi socchiusi; la bocca dischiusa: dietro le labbra livide si intravede la chiostra bianca di piccoli denti (tav. 2).

3. Crocifisso (dopo il restauro). Pietraperzia, chiesa Maria Santissima del Soccorso, vulgo del Carmine

La pacata espressività del viso comunica la sofferenza interiorizzata del martirio. I baffi sono intagliati a ciocche lunghe e ondulate che si ricollegano ai peli della barba delineati a punta di pennello, assumendo all'altezza del mento un'evidenza plastica nell'intaglio simmetrico dei due corni nei quali si spartisce simmetricamente la barba. Un trattamento accurato è riposto anche nell'intaglio della matassa dei capelli che, ricadendo, ricoprono l'omero destro, distendendosi lungo il crinale della spalla sinistra.

4. Crocifisso (dopo il restauro). Pietraperzia, chiesa Maria Santissima del Soccorso, vulgo del Carmine

La struttura del corto perizoma, decorato a larghe fasce verticali alternate azzurro e oro, si distingue per la modernità del panneggio aderente al corpo. Il drappo di stoffa è segnato da pieghe orizzontali parallele che si restringono sul fianco sinistro scoprendo l'inguine, annodandosi con un lembo ripiegato ad occhiello nella parte superiore, mentre l'estremità più lunga e pendente è ravvolta in pieghe tubolari schiacciate che scivolano parallele alla coscia sinistra. Dei numerosi confronti che possono essere fatti in merito alla foggia del perizoma, si citano a titolo di esempio il Crocifisso della omonima chiesa di Montemaggiore Belsito (Palermo), databile agli inizi del XVI secolo; o il Crocifisso con braccia snodabili della Matrice Nuova di Castelbuono, attribuito a Sebastiano de Auxilia con una datazione alla fine XVI, ma che io ritengo doversi anticipare all'inizio del secolo14. 

5. Antonello Gagini, Crocifisso (particolare dei fili d’oro nelle ciocche della barba e dei capelli). Alcamo, chiesa madre

Per altro verso, l'interpretazione eminentemente pittorica della forma plastica è in linea con la tendenza della ricca produzione prima segnalata. L'organico rapporto tra intaglio e pittura, che si osserva in particolare nella definizione della barba (fig. 4), è realizzato con la stessa sottigliezza esecutiva che si riconosce nel Crocifisso di Alcamo di Antonello Gagini, dove fili d'oro illuminano le ciocche di barba e capelli (fig. 5)15; ovvero nel bel Crocifisso, in mistura come quello di Alcamo, della chiesa del Santissimo Salvatore di Messina, recentemente restaurato (fig. 6).

6. Crocifisso, particolare. Messina, Chiesa del Santissimo Salvatore

Il recupero della policromia originale del crocifisso messinese rafforza le nostre conoscenze su tale tipologia di oggetti, evidenziando quella concezione eminentemente pittorica della statua che costituisce aspetto caratterizzante, a mio parere, dell'antica produzione dei Crocifissi siciliani a cavaliere tra XV e XVI secolo: l'accurata finitura policroma concorre alla definizione della forma ai diversi livelli di rappresentazione, dal naturalismo delle ossa delle costole e dello sterno, alla stilizzazione grafica della struttura anatomica; all'iperrealismo delle vene, dei peli dell'ombelico e delle ascelle16. 
Per quanto strettamente legato al filone figurativo prima segnalato, mancano però al momento stringenti confronti lignei in Sicilia con l'esemplare di Pietraperzia, databile, a mio parere, per i caratteri sopra evidenziati, tra la fine del XV secolo e i primi anni del successivo.


 Note:
11.   Le poche notizie in merito sono tratte da Fra Dionigi di Pietraperzia, Relazione critico-storica della prodigiosa invenzione d'una immagine di Maria Santissima chiamata comunemente della cava di Pietrapercia, Palermo, presso Gio. Battista Gagliani, 1776, p. 264. Sulla processione denominata “lu Signori di li fasci'', episodio tra i più caratteristici e seguiti della Settimana Santa in Sicilia, cfr. A. Plumari, La Settimana Santa in Sicilia. Guida ai riti e alle tradizioni popolari, Troina 2003, pp. 173-174.

12.   Il restauro è stato realizzato nel 2013 da Gaetano Correnti di Misilmeri (Palermo), sotto l'alta sorveglianza della Soprintendenza per i beni culturali e ambientali di Enna. Un precedente intervento, risalente al 1986, è imputabile a Rosolino La Mattina di Caltanissetta (comunicazione orale del Governatore della Confraternita Maria SS. del Soccorso e degli Agonizzanti che ha finanziato il restauro, Giuseppe Maddalena).-

13.   Cfr. F. Campagna Cicala, Per la scultura lignea del Quattrocento in Sicilia, in Le arti decorative del Quattrocento in Sicilia, catalogo della mostra a cura di G. Cantelli (Messina, chiesa dell'Annunziata dei Catalani, 28 novembre 1981-31 gennaio 1982), Roma 1981, pp. 108-112, 115-117, con bibliografia precedente; e più recentemente, C. Ciolino, Crocifissi messinesi (1447-1551) in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. Barbera ("Quaderni dell'attività didattica del Museo Regionale di Messina”, 13), Messina 2003, pp. 9-26; Eadem, I mastri crocifissai messinesi, in Manufacere et scolpire in lignamine. Scultura e intaglio in legno in Sicilia tra Rinascimento e Barocco, a cura di T Pugliatti, S. Rizzo, P. Russo, Catania, Maimone, 2012, pp. 367-383;V. Buda, La produzione dei Li Matinati in Sicilia tra XV e XVI secolo. Lo stato attuale degli studi, in il Crocifisso in mistura di Giovannello li Matinati. Ricerche e restauro, a cura di G. Musolino e V. Buda, Palermo 2014. pp. 29-35. Cfr. anche P. Russo, La scultura in legno del Rinascimento in Sicilia. Continuità e rinnovamento, Palermo 2009, pp. 112-123, dove è riassunto quel passaggio nell'industria dei crocifissi in legno dal crocifisso cosiddetto gotico doloroso" al crocifisso umanistico. Per la diffusione oltre lo Stretto, si veda ad esempio, per la Calabria, P. Leone de Castris, schede nn. 14-16, in Sculture in legno in Calabria. Dal Medioevo al Settecento, catalogo della mostra (Altomonte, Museo Civico, 30 luglio 2008-31 gennaio 2009), a cura di P. Leone de Castris, Napoli 2009, pp. 148-154.

14.   Per questo e il precedente cfr. G. Fazio, La cultura figurativa in legno nelle Madonie tra la gran corte vescovile di Cefalù, il marchesato dei Ventimiglia e le città demaniali, in Manufacere..., cit., p. 198, fig. 2; pp. 219-220, fig. 18 e nota 132. Sempre qui, nella Matrice Nuova di Castelbuono, ma proveniente dalla chiesa intitolata al Santo, è il San Sebastiano attribuito a ignoto scultore madonita del XV secolo, che presenta un motivo analogo: P Russo, La scultura in legno del Rinascimento..., cit., p. 78; S. Anselmo, Pietro Bencivinni Magister civitatis Politiis" e la scultura lignea nelle Madonie, Bagheria 2009, p. 169, n. 128. Mentre a Naso si può infine ricordare il Crocifisso in mistura della chiesa di sant'Antonio Abate, più vicino ai modelli messinesi: cfr. A. Barricelli, Scultura devozionale e monastica del Rinascimento, inedita o poco nota dei Nebrodi, in “Quaderni dell'Istituto di Storia dell'Arte Medievale e Moderna. Facoltà di Lettere e Filosofia. Università di Messina”, 15, 1991, fig. 34, p.45. Al di fuori del contesto siciliano, per il particolare disegno del perizoma si possono citare le rassomiglianze con crocifissi prodotti in area veneta nel tardo XV secolo: Crocifissi ispirati o direttamente esemplati sul Crocifisso di Santa Maria Gloriosa dei Frari a Venezia, realizzato tra la fine del settimo e i primi anni dell'ottavo decennio del Quattrocento: cfr. A. Markham Schulz, Il Crocifisso di Santa Maria dei Frari e i suoi epigoni, e I. Matejčič, II Crocifisso rinascimentale della basilica Eufrasiana di Parenzo e altri esempi di manufatti lignei tra le due sponde dell'Adriatico, in Crocifissi lignei a Venezia e nei territori della Serenissima. 1350-1500. Modelli diffusione restauro, atti del convegno internazionale (Venezia, Gallerie dell'Accademia, 18 maggio 2012), a cura di E. Francescutti, Padova 2013, pp. 93-107 e 133-144, e specialmente pp. 138-139, tavv. 52, 54, 56,62, 93, 94, 96. Cfr. anche A. Markham Schulz, Woodcarving and Woodcarvers in Venice 1350-1550, Firenze 2011, pp. 425-435, figg. 122-133, e cat. n. 3, pp. 212-214.

15.   Si veda il bel dettaglio fotografico qui riprodotto in Manufacere..., cit., fig. 16, p. 63. Sul restauro del Crocifisso, cfr. R. Alongi e L Biondo, La memoria restituita, Palermo 2008.

16.   M. Scalisi, Il Crocifisso ritrovato. restauro, in II Crocifisso in mistura..., cit., pp. 37-48, figg. 50-53.



14 settembre 2018

Invito alla lettura: Boccamurata di Simonetta Agnello Hornby


“Boccamurata” è il terzo romanzo della cosiddetta trilogia, come l’autrice stessa l’ha definita. Una trilogia, per la verità, senza punti in comune con i romanzi precedenti: “La Mennulara” e “La zia marchesa”. Ma trilogia la dobbiamo chiamare. Pur diversi per personaggi, ambienti sociali, situazioni ma così simili per le passioni, la sensualità prepotente degli “attori” che Simonetta Agnello Hornby mette in scena, costruiti con la solita e riconoscibilissima maestria, la “parlata siciliana”, i paesaggi sempre descritti da suscitare nostalgia ai siciliani che ne sono lontani.
Toccante per me lo sguardo su un peschereccio che si osserva da lontano "navigava orizzontale, come una foglia trasportata dalla corrente".
Il romanzo si apre con una tranquilla e tradizionale riunione familiare: il compleanno del nonno Tito attorniato da figli e nipoti. Mariola, la moglie, che imbandisce la tavola con tutti i suoi piatti preferiti.
Un quadretto famigliare perfetto; Tito soddisfatto, osserva divertito da patriarca autorevole. Chiama figli e nipoti con i nomignoli che ha dato a ognuno di loro: capellini, rigatoni, spaghetti... nomignoli, che senza nessuna fantasia, affibbia loro per essere il proprietario del grande pastificio ereditato dal padre. Ma il personaggio sulla quale s’innerverà il racconto è la zia Rachele.
Custode attenta della casa, è per Tito, da sempre, un punto di riferimento imprescindibile. Tito che non ha conosciuto la madre è stato cresciuto ed educato da questa zia, che ancora adesso lo guida e lo consiglia sulle decisioni importanti che riguardano la famiglia e il pastificio.
Questo rassicurante interno famigliare è solo apparente, nasconde invidie e tradimenti. Lo stesso Tito vive un grande dolore, il tormento di non avere conosciuto la madre.
Nel clima sereno della festa il nipote Titino, il preferito, per un compito assegnatogli a scuola gli chiede di aiutarlo a fare la "La ricostruzione dell'albero genealogico della sua famiglia".
Questa richiesta riapre la grande ferita, riportandolo al suo difficile passato. Alle sofferenze e alle difficoltà vissute nell'infanzia e poi nella sua adolescenza. Quello che lui sa è quello che il padre, Gaspare, gli aveva sempre raccontato. Di essere il frutto di un amore con una donna sposata e che da questa relazione clandestina, per salvare l’onore della donna amata, l’aveva cresciuto nella sua casa e affidato alle cure della sorella, la zia Rachele.
La scrittrice ricostruisce lungo tutto il romanzo la personalità di Tito della sua complicata famiglia è di sua “zia” Rachele che aveva rinunciato a sposarsi e dedicarsi completamente all'educazione di Tito.
La spasmodica ricerca della verità sulle sue origini, che scoprirà cinquant'anni dopo, con l'incontro di Dante, figlio di una ex compagna di scuola di Rachele. Tito viene in possesso di un pacco di lettere scambiate da Rachele con la mamma di Dante che gli riveleranno quello che non avrebbe mai sospettato. Le lettere dell’allora giovane Rachele gli sveleranno una verità sconvolgente.
Un tabù che lo porta a riconsiderare la figura di Rachele. Una rivelazione che gli da finalmente la serenità cercata tutta la vita e che gli farà dire di Rachele “la donna più trasgressiva che abbia mai conosciuto".
La zia è sempre vissuta con “la bocca murata” custode del suo segreto e del destino di Tito.
Un romanzo che ho apprezzato per l’apparente facilità di scrittura e che mi ha turbato per la scabrosa vicenda di Rachele. Consigliatissimo.

Lina Viola




07 settembre 2018

IL BANDITO TESTALONGA. LA RESISTENZA DI UN VINTO.


Un libro di ANNA MAROTTA, 
Giambra Editori,
prima edizione giugno 2018.


Come dimostrano i dati del mercato editoriale italiano degli ultimi anni, i piccoli e medi editori crescono dimostrando serietà e vivacità culturale, certamente salutari in un panorama spesso viziato dal conformismo. E proprio da questi editori coraggiosi ci arrivano autentiche perle come questo libro di Anna Marotta dedicato al famoso bandito
Testalonga. Il saggio nasce come Tesi di laurea dal titolo "Il bandito Antonino di Blasi alias Testalonga" (1728-1767), a conclusione del corso di laurea in Filologia Moderna, conseguito nel 2016 con il massimo dei voti e la lode presso l'Università degli Studi di Catania. Il valore aggiunto del libro consiste nell'aver coniugato il rigore delle fonti con lo stile narrativo. Lo storico/detective dovrà dipanare un'intricata matassa, dove non solo storia e leggenda sono intimamente intrecciati, ma dove il confine tra legge e fuorilegge risulta, come vedremo, assai labile.
Per prima cosa, l'Autrice descrive il contesto storico, politico e sociale nel quale il protagonista, anzi, i protagonisti si trovarono a vivere ed operare: il bandito Testalonga, il suo "antagonista", il viceré Fogliani, i nobili, il popolo e colui che nel libro viene chiamato "l'alter ego" del bandito, che "nel tormentato inseguimento tra guardia e ladro , si scontrò con qualcosa più grande di lui che non avrebbe mai immaginato", il principe di Trabia Don Giuseppe Lanza, nominato Vicario dal viceré con l'incarico di catturare Antonino di Blasi e la sua banda.
Nella Sicilia del Settecento si susseguono ben quattro dominazioni: quella spagnola, sabauda, austriaca e infine borbonica, ma per i siciliani cambiava poco o nulla essendo semplici pedine nelle mani dei potenti e succubi di un sistema dove imperavano i privilegi e gli abusi nobiliari e l'oppressione tributaria e dove anche la natura faceva la sua parte con catastrofi, epidemie e carestie di raccolti, come la crisi del grano del 1763. Sono proprio gli anni in cui il di Blasi si diede alla macchia. Intanto, una precisazione terminologica e storica: banditismo e brigantaggio sono due fenomeni diversi, anche se spesso vengono confusi. Tra il Cinquecento e il Settecento venivano chiamati "banditi" coloro che erano colpiti dal bando, cioè da un decreto di espulsione dalla comunità; il brigantaggio fu fenomeno successivo e più complesso, che interessò migliaia di persone che non possono essere sbrigativamente e sommariamente liquidate come "delinquenti", ma che ebbe il carattere di una vera "insorgenza", dapprima contro i francesi e il giacobinismo e che esplose soprattutto dopo il 1860 contro uno Stato che evidentemente in troppi percepivano come oppressore e invasore. Contro banditi e briganti il potere rispose con una repressione cieca e selvaggia, fatta di torture, esecuzioni sommarie, teste mozzate e corpi smembrati. Una triste pagina di storia che solo di recente è stata raccontata anche "dalla parte dei vinti". L'altra faccia di questa feroce repressione era rappresentata dal compromesso, dallo scendere a patti con i malviventi da parte di molti settori "altolocati" della società.
Antonino di Blasi nacque il 19 febbraio 1728 a Pietraperzia. Ultimo di sette figli, crebbe in un ambiente povero e privo d'istruzione. A soli 15 anni sposò Antonia Anzaldo che di anni ne aveva addirittura undici. Non sappiamo esattamente che lavoro facesse il giovane sposo, comunque per un certo tempo cercò di sbarcare il lunario. Poeti, romanzieri e cantastorie hanno tramandato il momento in cui Antonino si diede alla macchia. Lo fece dopo aver ucciso il bargello (nome con il quale si indicava il capitano militare addetto all'ordine), perché questo gli aveva assassinato la madre. Una "romantica leggenda" come la definisce Anna Marotta, che non trova riscontri oggettivi poiché si è potuto appurare dall'archivio della Chiesa Madre di Pietraperzia che la madre morì quando Antonino aveva tra i tre e i quattro anni. L'idealizzazione del bandito come una specie di Robin Hood che rubava ai ricchi per dare ai poveri, anche se priva di prove che ne dimostrino la veridicità, risponde pienamente all'anima di un popolo assetato di riscatto e di giustizia. "La leggenda - scrive Marotta - diventa uno specchio riflettente di quei difficili anni, anche perché i bargelli, così come i gabelloti e i campieri, rappresentavano gli emissari dei "nobili" feudatari e loro erano i fautori delle peggiori barbarie a danno del popolo" Plausibile è la notizia secondo cui Antonino di Blasi scontò tre anni di carcere ad Agrigento per aver rubato un bue. Rimesso in libertà incrociò il suo destino con quello dei compagni di (s)ventura Giovanni Guarnaccia di Pietraperzia e Antonio Romano di Barrafranca. Insieme organizzarono una temibile e numerosa banda i cui primi movimenti sono attestati, come si evince dal fondo Trabia presso l'archivio di Stato di Palermo, a partire dal 1766. Il primo luglio di quell'anno l'Avv. Fiscale Don Giuseppe Iurato scrive al viceré Fogliani mettendolo in guardia sulle malefatte della banda ed invocando i necessari provvedimenti. Viene subito promulgato un bando con cui si mette una taglia di cento onze sui tre principali capi della banda: Testalonga, Guarnaccia e Romano. Da questo momento non sono più semplici ladri, ma "abbanniati", banditi. L'attività principale della banda consisteva nell'assaltare le masserie ed estorcere ai benestanti il denaro con cui Testalonga creò una fitta rete di complicità, anche ad alti livelli, tanto da dimorare tranquillamente presso nobili ed ecclesiastici. Alla banda viene attribuito un solo omicidio, quello del Tenente dei barrigelli di Butera, ma non imputabile al Testalonga. In seguito al bando, il Guarnaccia si separò dal resto della banda seguito da tre compagni, ma nel mese di ottobre vennero catturati a Regalbuto e il 10 novembre furono impiccati a Palermo nella Piazza della Marina. Testalonga, Romano e gli altri, per nulla intimoriti, continuarono le proprie scorribande assaltando feudi e masserie. Ed ecco entrare in scena Don Giuseppe Lanza Principe di Trabia che, come abbiamo già detto, viene nominato Vicario Generale Viceregio. Una volta ricevuto l'incarico dal vicerè, egli organizzò il suo quartier generale a Mussomeli e promulgò subito un bando nel quale si fissava la taglia per ciascun bandito. Deciso a stroncare l'attività della banda, il Vicario inviò corpi armati a perlustrare campagne e grotte e non esitò ad assumere come spie e capitani elementi della malavita. Dai suoi informatori e dalle numerose lettere anonime ricevute, Don Giuseppe Lanza compilò una lista dei complici e protettori del Testalonga, ai quali intimò di consegnare il bandito vivo o morto. Siamo all'epilogo della storia. Il 18 febbraio 1767 Testalonga e il suo fedele compagno Romano, in seguito ad un conflitto a fuoco, vennero catturati in una grotta nei pressi di Castrogiovanni (l'attuale Enna), traditi proprio dai principali protettori, i baroni fratelli Trigona di Piazza. Di Blasi e Romano, insieme ad altri componenti della banda, vennero portati a Mussomeli, torturati e condannati alla forca, sentenza eseguita il 7 marzo 1767. L'indomani i corpi vennero squartati e le teste tagliate, quella del di Blasi portata come trofeo a Palermo, la testa di Romano venne esposta a Barrafranca. Un potere corrotto a tutti i livelli si accanisce in modo barbaro sui cadaveri, ma nessuno dei numerosi protettori, prima additati dal Vicario, venne punito, anzi, intascarono riconoscimenti e ricompense. E allora, la domanda che più volte emerge scorrendo le pagine del volume, risulta pienamente legittima:" CHI SONO I VERI BANDITI?".
Anna Marotta ha compiuto un lavoro straordinario, da vera storica/detective ha consultato le carte con pazienza certosina (un intero capitolo è dedicato agli Archivi) restituendoci nella sua interezza la figura del bandito Testalonga e la sua epoca. Un libro che non può mancare nella biblioteca di ogni studioso o semplice appassionato della nostra storia.

Salvatore Marotta



02 settembre 2018

Invito alla lettura: Il fossile vivente e la donna dai capelli color mogano

Fabiola Gravina

Gregorio Servetti è un quarantenne reduce da storie sentimentali fallite, un personaggio con rigorosi principi etici, con valori di altri tempi, "un fossile" come lui stesso si definisce, per il suo mancato adeguamento ai tempi moderni, come fosse una reliquia di generazione passata. Pur consapevole di quanto le regole di correttezza morale siano un fastidioso bagaglio, non intende rinunciarvi e la sua reazione di fronte alla volgarità è assimilabile all’infelicità, certo che gli uomini possano  aspirare a qualcosa di più nobile. Soffre per la mancanza di una famiglia propria e la necessità di sentirsi amato lo stimola alla ricerca ostinata di una persona affine che possa colmare il vuoto  avvertito nell' intimo. In questa ricerca trova l'aiuto e la complicità della barista Gina, l'accidentale destinataria delle sue confidenze.
 Tutte le mattine, nel tempo di un cappuccino, Gina ascolta perplessa le dissertazioni esistenziali dell'amico in piena crisi di mezza età, bisognoso di dare un senso all'esistenza e proprio nel bar avviene il  fatale incontro con la donna  dai capelli color mogano,  che si siede ogni Martedì al tavolo d’angolo, con lo sguardo gonfio di malinconia.
L'intesa è immediata, perché l’inquietudine del viso di lei altro non è che una sorta di specchio dell’anima di Gregorio. La donna però scompare senza che ci sia stato il tempo di scambiare una parola e a nulla valgono le strategie inventate dall’amica barista per rintracciarla e restituire il sorriso al fedele amico sull'orlo del tracollo. La vicenda cambia registro quando la donna dai capelli color mogano e dagli occhi nocciola si presenta nuovamente nel bar, ma a sentir Gina è soltanto una copia venuta male. Sono dunque due, le donne dai capelli color mogano?  Il mistero si infittisce con il ritorno di  Manlio, amico del cuore di Gregorio.

La sua decisione di rientrare in Italia e lasciare di punto in bianco una carriera e un lavoro ben remunerato, ha forse a che fare con le due donne? Altri  personaggi arricchiscono la vicenda: la dolce Viola in cerca di un potenziale padre per i suoi figli; l'ambigua Giada che calpesta i cuori degli uomini che s’impigliano nella sua infida rete; l'opportunista Marco, emblema della disonestà e dei facili guadagni; la scaltra Katia, che impartisce lezioni su come gestire al meglio una relazione amorosa; l'eterea Estella, vecchio amore impossibile da dimenticare; lo sventurato Aquiletti, studente lacunoso alla ricerca dell'agognata promozione. Una serie di singolari eventi  porteranno il subbuglio nella monotona vita del protagonista e lo costringeranno a mettere in gioco ogni carta per portare a termine il suo piano sentimentale.  Gregorio Servetti sperimenterà sulla propria pelle la bellezza dell’innamoramento negli anni della maturità, il valore dell’onestà e della rettitudine, il dono prezioso dell’amicizia e il sapore amaro dell’inganno. Leggetelo, non vi deluderà.

Fabiola Gravina