31 ottobre 2018

Invito alla lettura: La variante di Lüneburg di Paolo Maurensig




Frisch, un ricco tedesco, viene trovato morto nella sua villa, per un colpo d'arma da fuoco. Sembra si tratti d'un suicidio, ma non ci sono messaggi. Solo una scacchiera di pezza, sul suo tavolo da lavoro, con una posizione di gioco già sviluppata. La variante di Lüneburg è, all'inizio, un giallo da risolvere.
Ma al giallo, in breve spazio, segue il racconto biografico: tempo prima del fattaccio, Frisch e il suo collega Baum, nel treno da Monaco a Vienna, incontrano Hans. Egli è un misterioso ragazzo, che prende a raccontare la sua lunga storia. Racconta di una serie di partite a scacchi. Con il racconto di Hans, La variante di Lüneburg è, prima di tutto, un libro di partite a scacchi.

Le partite, le più importanti, sono quattro: una fra un ragazzo ebreo e uno nazista, nella scalata per aggiudicarsi il titolo di campione mondiale di scacchi; siamo qualche notte prima della Kristallnacht. La seconda è la partita giocata da quei due ragazzi divenuti uomini. Il primo è un ebreo rinchiuso nel lager di Bergen-Belsen, nella landa di Lüneburg; il secondo è un sottufficiale nazista di quel campo. La partita si gioca al tavolo della sua scrivania, l’ebreo viene assolto dai lavori pesanti del lager perché sia garantita la sua lucidità al gioco. La terza è la partita delle loro due vite, una sfida, a partire dalla gioventù, ad intimidire l’altro, a non farsi circuire. La quarta è la seconda guerra mondiale.

Il rapporto fra queste partite è un giocoforza che ha la tragicità delle piccole vicende che si misurano con i grandi eventi della storia. Vince chi vince gli scacchi, o chi vince la guerra? C'è il pericolo che la sconfitta storica determini l'esito della partita a scacchi. Così, la sfida fra due vite diventa una tensione strategica allo scacco per l’altro. Non c’è più solo la bravura tecnica: lo sa il tedesco, che fin da ragazzino vuole intimidire il suo avversario. Si presenta quindici minuti in ritardo alla partita, per prendersene gioco.

Col racconto di Hans, il romanzo diviene un racconto a cornice, dove basta il tempo d’un viaggio in treno perché i rapporti fra vite trascorse siano incastrati per sempre. Per cui, la fine del romanzo sarà la chiave di lettura della mossa iniziale: quella del suicidio di Frisch. E così, tutto il romanzo è una partita ripercorsa all’indietro (la terza: quella della vita). Procedendo, se ne incontrano le vittime o pedine.

Ci si accorge allora che la variante di Lüneburg è stata applicata alla vita. Non il libro: ma la mossa di scacchi. Perché il titolo del romanzo prende il nome da una mossa di scacchi: quella inventata dall’ebreo nella landa di Lüneburg. Essa consiste nel sacrificio d’un cavallo, in ragione del bottino di due pedoni. Alla fine del romanzo, poi, si capisce chi sia il cavallo, si comprende la natura dei pedoni.

Alessia Borriello​


La variante di Lüneburg di Paolo Maurensig è disponibile in biblioteca. 





30 ottobre 2018

LA FESTA DEL GIORNO DEI MORTI




A Pietraperzia come in tutta la Sicilia “il giorno dei morti”, per i bambini, era un giorno atteso con trepidazione per i doni che nella notte i morticini avrebbero portato. Una tradizione che ormai è sempre meno sentita. Il maggiore benessere, l’introduzione nelle abitudini, ormai generalmente accettate, di consuetudini venute da fuori ci hanno privato della magia che ogni 2 novembre ci riportava alle nostre usanze. Il noto racconto di Andrea Camilleri che proponiamo ci riporta il profumo della frutta martorana e dei pupi di zucchero in  quella atmosfera incantata. I regali ricevuti da Camilleri bambino sono un'altra storia, lui era nato in una famiglia agiata, I suoi nonni erano stati proprietari di miniere e commercianti di zolfo.

Il giorno in cui i morti persero la strada

di Andrea Camilleri 

Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.
Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.
I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza. A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?».
Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo.
Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine. Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire.

(da Racconti quotidiani di Andrea Camilleri) – tratto da “Qua e là per l’Italia” – Alma Edizione, Firenze, 2008.



22 ottobre 2018

Invito alla lettura: La zia marchesa di Simonetta Agnello Hornby


Per completare la trilogia di La Mennulara e Boccamurata di Simonetta Agnello Hornby ho letto La zia marchesa, suo secondo romanzo in ordine cronologico di pubblicazione. Il romanzo racconta la saga di una famiglia nobile: i Safamita (quanti cognomi improbabili nei suoi romanzi). Come nei libri precedenti siamo in Sicilia e ancora una volta srotola le vite di tre generazioni della seconda metà dell’800. Anche in La zia Marchesa le storie personali dei personaggi s’intrecciano con gli infiniti spunti storici che l’Autrice utilizza per costruire i suoi romanzi. Nel romanzo non mancherà la comparsa effimera dell’isola Ferdinandea, il brigantaggio, i Fasci siciliani, lo sbarco dei mille, i campieri mafiosi...
Ci sono più voci narranti, sempre di persone al servizio dei Safamita, balie, camerieri, cocchieri... Amalia Cuffaro è stata fino alla sua morte la balia di Costanza, la Marchesa, la protagonista del romanzo, che ha amato come una figlia, e ci farà conoscere gradualmente la storia della Marchesa intanto che la racconta alla nipote Pinuzza, mentre la spidocchia seduta al sole della Muntagnazza. La marchesa Costanza dai capelli rossi e la carnagione lentigginosa era la secondogenita di Caterina Safamita, una figlia indesiderata, non amata, affidata alla balia Amalia, crescerà senza mai una carezza. Solo nell'adolescenza conoscerà un po' di affetto della madre. Il padre invece la vuole bene, la protegge, la stima e per lui sarà sempre la figlia dell'amore. Costanza per tutta la vita si chiederà il perché sua madre non avesse potuto amarla. Una donna che visse triste e infelice sempre incinta di figli che abortisce e madre solo di Stefano il prediletto, Costanza che non amava e Giacomo il ribelle.
Nel romanzo sono presenti sempre gli stessi temi che fanno definire a Simonetta Agnello Horby “trilogia” i suoi primi tre romanzi: l’invidia, l’odio familiare, i tradimenti, le perversioni, e in questo suo secondo romanzo anche l’incesto.
I personaggi, come al solito, sono tantissimi sempre ben caratterizzati, perlopiù gli umili, inseriti con abilità nei molteplici contesti storici, tanti “attori” che si piegano sempre ai loro padroni e cederanno sempre ai ricatti e alle sopraffazioni di campieri e mafiosi. Soprattutto le donne, sottomesse e prede sessuali dei loro padroni.
Per me è sempre piacevole leggere espressioni con la parlata chiara siciliana; a mio parere, danno anche più forza al racconto.
Per dare senso al romanzo, una morale, concludo citando un proverbio siciliano: “Cu li sordi s’accatta tutto, ma nun s’accatta ne l’onuri ne la filicità". È quello che più si adatta alla famiglia Safamita. Ricchissima, ma tutti infelici. Vittime e artefici della loro avidità e della malvagità. Si conoscerà solo alla fine il segreto di Costanza sulla sua nascita e quella dei suoi due fratelli.


Lina Viola


Il libro La zia marchesa di Simonetta Agnello Hornby 
è disponibile in biblioteca. Puoi prenotarlo cliccando qui




15 ottobre 2018

Invito alla lettura: Caterina de’ Medici. Un’italiana sul trono di Francia




Una figura affascinante e controversa del XVI secolo, fiorentina di nascita. Un’italiana sul trono di Francia che seppe conquistare il suo posto nel mondo. Caterina Maria Romula de’ Medici è stata ed è ancora oggi una figura complessa. Le leggende intorno alla sua figura l’hanno resa celebre fino ai giorni nostri. Regina tra le più influenti delle corti europee della sua epoca e donna di cultura, dotata di una intelligenza fuori dal comune, esperta politica e vera appassionata delle opere di Machiavelli. Caterina de’ Medici era pronipote di Lorenzo il Magnifico. Regina di Francia in quanto sposa di Enrico II porterà in Francia la cultura del rinascimento italiano. Fu madre di tre re: Francesco II, Carlo IX, Enrico III, fu di fatto la vera detentrice del potere durante il regno dei tre figli, cagionevoli di salute e troppo giovani per il governo della Francia.

Ma chi era esattamente Caterina de’ Medici?


Jean Orieux nel suo libro la descrive come una donna non bella, tracagnotta, magra, il viso rotondo, gli occhi sporgenti, le labbra grosse. Il suo promesso sposo, Enrico, duca d’Orléans la trovò insignificante; ma era affascinante, colpiva per la sua intelligenza, la sua esperienza politica, formatasi durante il periodo alla corte pontificia, la sua cultura e il suo gusto artistico.
Parlava un francese perfetto ma con un marcato accento italiano che contribuiva a ricordare, sgradevolmente, la sue origini italiane. Questo accentuava la diffidenza che i francesi nutrivano nei suoi confronti, sarà sempre avversata dalla corte e già mal sopportata per i suoi bassi natali rispetto al duca d’Orléans.
In verità Caterina aveva paura, si sentiva sola in una terra straniera, senza figli e con il rischio di essere ripudiata; dopo 10 anni di matrimonio metterà al mondo 10 figli. Provava una totale adorazione nei confronti del marito che però preferiva la compagnia della sua amante, Diana de Poitiers.
Una regina affascinata dall’occulto, dall’astrologia, amava consultare i suoi astrologi, i fratelli Ruggieri, che i francesi guardavano con diffidenza.
Ricordata per la lotta fratricida tra cattolici e protestanti, gli viene addossata la responsabilità di avere dato inizio alla guerra di religione che sconvolse la Francia durante il suo regno, prima come regina consorte e poi come reggente. Fu ritenuta donna crudele e spietata, artefice del cosiddetto eccidio della “Notte di San Bartolomeo”. Migliaia di ugonotti, i protestanti francesi. venuti a Parigi per festeggiare le nozze tra Margherita, figlia di Caterina, con il cugino Enrico di Navarra, capo dei protestanti francesi, furono tutti sterminati. In realtà gli furono addebitate responsabilità  non sue. Di lei si evince una figura portatrice di idee di tolleranza religiosa. Una regina illuminata e non di fatto una “Regina Nera” come considerata per molti secoli.
Nel suo libro, Jean Orieux, porta alla luce tutti gli aspetti e le sfumature di questa figura imponente e controversa che ha affascinato la sua epoca e continua ancora ad affascinare.

Ilaria Matà

08 ottobre 2018

Il Crocifisso della chiesa di Santa Maria a Pietraperzia


                                                                                  

 Tratto da
OFFICINA SICILIANA 
a cura di Paolo Russo
editrice MAGIKA












Il Cristo "appassionato" dei Riformati di Pietraperzia

Originario di Petralia Soprana, un piccolo paese arroccato sulle Madonie, il frate scultore, al secolo Giovanni Pintorno1, scolpì «molte Figure di Christo appassionato, e della Vergine», come ricordava nella seconda metà del secolo il suo "biografo", laico francescano anch'egli, Pietro Tognoletto.
Egli fu autore tra il terzo e il quarto decennio del Seicento di un nuovo tipo di crocifisso ligneo per la pietà e la devozione destinato a larga e duratura fortuna, e consistente, in buona sostanza, nella rielaborazione moderna, a partire cioè dal modello corrente del crocifisso della "maniera", del tipo del crocifisso medievale appartenente alla tradizione dell'ordine.
Del crocifisso manierista trattiene i caratteri dell'elegante complessione del Cristo, dall'accurato naturalismo della anatomia della figura, resa con sorvegliato disegno del corpo e della muscolatura.
Del cosiddetto "crocifisso gotico doloroso" il modello pintorniano reinventa i motivi esteriori, crudamente realistici, della rappresentazione, con una interpretazione marcatamente patetica dell'immagine del Cristo crocifisso, caratterizzata dalla scoperta ostentazione dei segni del martirio e dall'esasperazione descrittiva degli "accessori pietistici" (quali ferite, piaghe, sangue che scorre a fiotti irrorando il "bel" corpo del Cristo, o che si rapprende in grumi dalla evidenza plastica).
Una insistenza sui motivi "dolorosi" della passione di Cristo di cui è provato il rapporto con la letteratura mistica ed ascetica medievale che incontrò una rinnovata fortuna nell'età della Controriforma, e specificamente in ambito francescano riformato, dove è documentata la lettura di autori come Santa Brigida e le sue Rivelazioni, o lo Pseudo Bonaventura, e le Meditazioni ad esso attribuite2.
Ancorché non figuri nell'elenco delle «trentatré immagini del Crocifisso di legno, le quali tutte operano miracoli» scolpite da Frate Umile, stilato dal Tognoletto3, il Crocifisso della chiesa di Santa Maria di Gesù dei frati minori osservanti della riforma di Pietraperzia, è stato attribuito dalla tradizione locale allo scultore francescano (figg. 12-13 e tavv. V-VI).

12. Crocifisso. Pietraperzia, chiesa di Santa Maria di Gesù

Sul Crocifisso invero non disponiamo di molte notizie. Certamente la sua realizzazione è successiva allo stabilimento dell'ordine in città, intorno al 1636 secondo le cronache e la storiografia più antica, anno di fondazione del convento, pochi anni prima la scomparsa dello scultore (1639), su iniziativa di due nobildonne palermitane naturalizzatesi a Pietraperzia, le sorelle Francesca e Maria Santigliano (spose rispettivamente di don Giovanni Bonet, governatore di Pietraperzia, e don Gaspare Rignone).
La testimonianza fin qui più antica sul Crocifisso è rappresentata dalla Relazione critico-storica di un frate di quel convento, padre Dionigi di Pietraperzia, pubblicata nella seconda metà del Settecento, nella quale si ricorda che nella cappella appartenente alla compagnia del preziosissimo Sangue di Cristo «... si adora un Vener. Crocifisso, scolpito, come dicono per le mani del Santo Frate Umile da Patralia»4.

13. Crocifisso (particolare). Pietraperzia, chiesa di Santa Maria di Gesù

E sotto tale paternità, seppure dubitativamente, il Crocifisso di Pietraperzia è stato considerato generalmente dalla letteratura successiva5. Di fatto, sebbene l'autografia pintorniana sia decisamente da scartare, il Crocifisso di Pietraperzia può senz'altro collegarsi alla propaggine Più tarda della famiglia di crocifissi lignei prodotti in Sicilia nel corso del Seicento per la devozione nelle chiese dell'ordine, spesso opera degli stessi frati scultori, tra i quali si distinse giustappunto la figura di Frate Umile, cui sono stati ricondotti numerosi crocifissi disseminati in tutta la Sicilia e anche oltre i confini regionali. Il Crocifisso mostra di condividere la stessa cultura figurativa delle creazioni di Frate Umile, largamente rappresentata nel territorio della provincia ennese dai crocifissi, verosimilmente autografi, di Agira (chiesa di Santa Maria Latina), Cerami (chiesa del Carmine - fig. 14) e Aidone (chiesa di Sant'Anna); e, in stretta contiguità con questi, dai meno certi Crocifissi di Enna (Montesalvo), Piazza Armerina (chiesa di San Pietro) e Gagliano Castelferrato (chiesa di Santa Maria di Gesù)6.

14. Frate Umile da Petralia, Crocifisso, Cerami, chiesa del Carmine — 15. Giovan Battista Mistretta, Crocifisso, 1665, Nicosia, chiesa di San Michele

Vale la pena qui aggiungere, tra le espressioni più tarde del genere doloroso, "sanguinolento", pintorniano, la segnalazione di quel «Crocefisso così al vivo scolpito, che muove le stesse pietre a pietà», oggi conservato nella chiesa di San Michele di Nicosia, ma proveniente dalla chiesa di Santa Maria di Gesù dei Riformati di Nicosia, opera siglata alla base della croce: «Giovan Battista Mistretta 1665» (figg. 15-16)7. L'elegante architettura del corpo sdutto, dal fluido disegno del corpo e della muscolatura, del Crocifisso petrino, al di là della ricorrenza degli stessi elementi realistici (come, ad esempio, i segni dei legacci alle caviglie e il rilievo dei tendini del piede, o le tracce dolorose della cruenta flagellazione subita e l'abbondante evidenza del sangue) e di altre analogie iconografiche con il modello pintorniano (simile è la foggia del perizoma, ripiegato e stirato sul davanti, in luogo del rimbocco centrale, con un ricasco drappeggiato laterale che si incartoccia con avvolgimenti tubolari), spinge tuttavia a collocarne l'esecuzione ad un'epoca più avanzata.

16. Giovan Battista Mistretta, Crocifisso (particolare), 1665, Nicosia, chiesa di San Michele

Si rilevano alcune difformità dal modello, quali il fiotto di sangue che scorre dalla ferita sul costato, qui privo dell'evidenza plastica delle ferite dei Crocifissi pintorniani; o, tra i motivi non immediatamente riconducibili al repertorio di Frate Umile, la forma a pseudo-stella delle larghe ferite diffuse sul corpo; caratteristico è anche il modulo proporzionale allungato della figura.
Le lunghe ciocche dei capelli sono riunite in fasce piacevolmente ondulate, con soluzione di intaglio meno calligrafica, meno sottile della maniera pintorniana, non già sommaria ma semplificata; allo stesso modo i baffi sono dipinti e non scolpiti; singolare è pure il carattere ornamentale dei riccioli della barba divisa sul mento.
Il piano facciale appare stilizzato, dove invece in frate Umile la fisionomia era contrassegnata dai lineamenti idealizzati.
Si coglie, insomma, una più generale mitigazione dell'intaglio realistico (mentre la tonalità livida dell'incarnato è frutto di un intervento successivo) e un processo complessivo di alleggerimento e consentanea riduzione ad un livello superficiale del capitale doloroso dell'immagine originaria.
In conclusione, i caratteri salienti del Crocifisso di Pietraperzia sono, senz'altro riconducibili alla scultura devozionale della metà del Seicento largamente influenzata dalla produzione artistica di Frate Umile, e tuttavia l'impostazione monumentale complessivamente più composta e nei particolari semplificata, concorre a una ipotesi di datazione dell'opera entro l'ultimo quarto del XVII secolo.



Note:
1   Giovanni Pintorno nacque a Petralia Soprana intorno al 1601 — decisivo il rivelo del 1607 che lo dice di sei anni: G. Macaluso, Frate Umile da Petralia Soprana scultore del secolo XVII, in "Archivio Storico Siciliano", s. III, vol. XVII (1967), pp. 160-161, 226-228 — e morì nel 1639, probabilmente a Palermo, all'età di 38 anni. Entrò nell'ordine dei frati francescani Riformati dell'Osservanza nel 1623 ca., assumendo l'appellativo di frate Umile. Cfr. P. Tognoletto, 11 Paradiso serafico del regno di Sicilia..., 2 voll., Palermo, D. D'Anselmo 1,16671,1. Romolo [vol. Il, 1687], 1667-1687, t. Il, pp. 307-309; e, più recentemente, R. La Mattina, E Dell'Utri, Frate Umile da Petralia. "L'arte e il misticismo", Caltanissetta 1986, con bibliografia precedente.

2   Cfr. P. Russo, La scultura in legno..., cit., pp. 211-224.

3   P. Tognoletto, Il Paradiso.. ., cit., p. 308.

4   Relazione critico-storica..., cit., pp. 256 e ss. La cappella fu dotata grazie ai legati perpetui dei coniugi don Michele Cravotta e donna Angela Maria Balistreri,"genitori della vivente Baronessa di Maria di questa". La chiesa fu danneggiati durante il secondo conflitto mondiale e rifatta sotto padre Antonino Marotta con stucchi e pitture murali ad opera della ditta di Giuseppe Emma di San Cataldo. Il convento, requisito nel 1862 dallo Stato e ceduto al Comune, fu restaurato nel 1982.

5   Cfr. R. La Mattina, E Dell'Utri, Frate Umile..., cit., pp. 162-163.

6   P. Russo, Questioni di scultura ligneo meridionale in età moderno: testimonianze, recuperi e acquisizioni culturali nella Sicilia dell'interno, in Studi, Ricerche, Restauri per lo tutela del Patrimonio Culturale Ennese ("Quaderni del patrimonio Culturale Ennese", I, Servizio Soprintendenza per i beni culturali e ambientali di Enna), Palermo 2012, pp. 384-390, con bibliografia precedente alle pp. 397-400.

7   Provenzale, Nicosia Sacra..., cit., p. 25. Nel 1578 i frati dell'Osservanza si erano insediati nel preesistente convento d'antica origine che, dopo un breve periodo di abbandono, su iniziativa della Città veni» «rianimato» e arricchito di «statue e dipinti non dispregevoli»: G. Beritelli, La Via, Notizie storiche. . , cit., p.176. È anche il caso di ricordare come proprio nel convento di Nicosia pare che Frate Umile avesse svolto il suo noviziato.







02 ottobre 2018

Via 4 Novembre e dintorni: Govanni Corrao, chi era costui? – 4^ Parte





Govanni Corrao, chi era costui?


La perpendicolare alla via 4 Novembre tra le discese Rosolino Pilo e Giuseppe La Masa è intitolata a Giovanni Corrao.
Fino a non molto tempo fa, di fronte a questo nome ci siamo trovati come don Abbondio davanti a quello di Carneade: una personalità celebre del nostro paese? Un personaggio storico? Ma chi? Quando? Perché? Né i conoscitori delle cose del nostro paese avevano una risposta. Di lui non parlano i libri di storia comunemente in circolazione, né il suo nome compare nei repertori storici correntiAd uno stesso, unico Giovanni Corrao dedicano poche note l’EGM (Enciclopedia Generale Mondadori), la Nuova Enciclopedia Universale Rizzoli La Rousse e l’enciclopedia libera Wikipedia la quale cita come fonte una scheda che l’Archivio Biografico di Palermo ha dedicato allo stesso personaggio: G.C., Palermo 1822-1863, patriota e uomo politico, esiliato dai Borboni ed attivo nei moti siciliani, generale di Garibaldi, assassinato per motivi politici. Ma il nome di G. Corrao raramente compare nello stradario delle nostre città; pochissime quelle che gli hanno intitolato una strada (Pietraperzia sarebbe fra le poche), benché in tutte compaiano vie e piazze dedicate (oltre che a G.Garibaldi) a luoghi e personaggi connessi agli stessi eventi storici: Calatafimi, Marsala, Nino Bixio, Giuseppe La Masa, Rosolino Pilo…A tale riguardo chiarificatrice ci è stata, recentemente, la lettura del romanzo dello scrittore agrigentino Matteo Collura, Qualcuno ha ucciso il generale, romanzo del quale è protagonista Giovanni Corrao, patriota siciliano tra i più audaci e valorosi del nostro Risorgimento, la cui vicenda è passata nell’oblio per ragioni oscure legate agli ultimi anni della sua vita e alla sua fine misteriosa[1].
Palermitano, quasi coetaneo (Palermo, 1822) dei due più noti corregionali, Rosolino Pilo (Palermo, 1820) e Giuseppe La Masa (Palermo, 1819), G. Corrao fu, come quelli, ostile ai Borboni, contro i quali diresse diversi tentativi di cospirazione, subendo prigione ed esilio. Assieme a Rosolino Pilo, organizzò gruppi di volontari a capo dei quali preparò l’arrivo e lo sbarco dei Mille in Sicilia. Combatté, per l’intera durata della campagna, a fianco di Garibaldi, distinguendosi per spirito di iniziativa, capacità militari, ardimento, tanto da essere, dallo stesso, nominato generale sul campo. Successivamente all’Unità d’Italia, venne integrato nell’esercito regio col grado di colonnello. Non condivise, però, ed avversò, la politica del nuovo governo in Sicilia, che si aspettava diversa, e si dimise per coerenza. Partecipò anche all’impresa di Aspromonte. Non è improbabile che accompagnasse Garibaldi durante il suo passaggio da Pietraperzia, nel 1862. Specie di “antigattopardo siciliano”, Corrao non aveva combattuto perché tutto restasse come prima: estremista del Partito d’Azione, fu ideatore di un vago disegno politico imperniato su una sorta di dittatura popolare. Ritenuto sovversivo e pericoloso agitatore, inviso e spiato dalla polizia, rimase invischiato in ambigue trame ordite tra notabili, mafia e autonomisti palermitani e, il 3 agosto 1863, fu ucciso proditoriamente da due colpi di lupara sparati da sicari rimasti sconosciuti, presentatisi, sembra, vestiti da carabinieri. Delitto di mafia o politico-mafioso? L’assassinio di Giovanni Corrao è sempre rimasto avvolto nel mistero, essendo andati distrutti, o fatti sparire, i documenti che lo riguardavano, come se si volesse che di lui non restasse neanche la memoria.[2] Lo scrittore siciliano, col suo romanzo, ne ha voluto riportare alla luce la vicenda. [3]. Gli stessi misteri avrebbero avvolto l’evento della fine di Salvatore Giuliano agli inizi degli anni ‘50[4]
Sulla base di tali elementi, appare evidente che il Giovanni Corrao a cui è dedicata, a Pietraperzia, la discesa perpendicolare alle vie Garibaldi e 4 Novembre, in mezzo e parallela alle vie Rosolino Pilo e Giuseppe La Masa, sia il terzo dei tre patrioti siciliani, il “generale dei picciotti”in camicia rossa, eroe dimenticato dell’epopea garibaldina in Sicilia, il medesimo personaggio a cui si riferiscono le note riportate dall’Archivio biografico del comune di Palermo e dalle enciclopedie sopra citate. Riteniamo dunque che gli amministratori del nostro paese i quali deliberarono in merito alla dedicazione delle strade, a conoscenza di eventi e protagonisti, abbiano voluto, attraverso la loro scelta, onorare i tre valorosi garibaldini che tanta parte avevano avuto nell’impresa dei Mille.
Salvatore e Maria Giordano

[1] Matteo Collura, Qualcuno ha ucciso il generale, Longanesi, Milano, 2006.
[2] In una nota in appendice del romanzo, l’autore fa notare la coincidenza tra l’assassinio di Giovanni Corrao e l’uso della parola mafia comparsa per la prima volta nella commedia del 1863 I mafiusi di la Vicaria di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca. Il termine mafia viene ufficialmente usato negli atti di indagine relativi al delitto Corrao.
[3] Di Giovanni Corrao parla l’articolo Morte di un garibaldino scomodo di Rosa Faragi, Assessore alla cultura del comune di Prizzi, pubblicato su Dialogus dell’ARCI- Libera di Corleone, del 9/7/2010.
[4] Analogie, per certi aspetti, è possibile riscontrare tra la vicenda di G. Corrao e quella di Salvatore Giuliano. Vedi, tra l’altro, la ricostruzione che del colonnello dell’Evis fa Gaetano Savatteri in I Siciliani, Editori Laterza, 2005, pp.44-53.