19 gennaio 2019

Riunione di Lavoro: Un Racconto di Paolo Cortesi




per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html

Domani, in Italia...


Il direttore aveva deposto sulla grande scrivania alcuni fogli; su ciascuno erano scritte solo poche parole, e i fogli sembravano bianchi; sul lustro del legno erano come fazzoletti ben stirati e la luce che veniva dall'ampia finestra, a lato, li faceva brillare. 
Il direttore si chiamava Apollonio Malozzi Canicchi Tincalli Gravasio; negli anni, la funzione aveva trasformato il suo corpo in una forma umana veramente dirigenziale: era corpaccioso e liscio, polposo, curatissimo, lento, basilicale, lo sguardo che si posava appena sulle cose, e ancor meno sulle persone, sguardo bizantino, geroglifico, aulico, cesareo; le basette geometriche intatte. Attraversati dal fiotto di luce che veniva dalla grande vetrata, i peli delle orecchie apparivano fili sottilissimi trasparenti, fili d'oro, come scintillii che apparivano e sparivano seguendo i moti, misuratissimi, del capo.
Il direttore teneva moltissimo ai quattro cognomi (due dei quali attribuiti da se stesso) e non rispondeva a lettere, mail o telefonate che non gli fossero rivolte appellandolo con tutti i quattro cognomi, i due veri e i due che gli erano piaciuti in un vecchio annuario della nobiltà italiana.
Ora, Apollonio guardava i fogli posati sull'enorme scrivania a cui sedeva; guardava un po' meno i cinque segretari che aveva fatto convocare e che stavano in piedi davanti a lui.
I cinque erano i suoi collaboratori. Così li chiamava, disprezzandoli tutti in cuor suo. 
I cinque aspettavano che il direttore (da loro cautamente chiamato lo stronzo, quando c'erano tante garanzie di segretezza ambientale) aspettavano da diversi minuti che il direttore dicesse per quale motivo li aveva fatti chiamare. Ma erano abituati a questa miserabile farsa, e fare aspettare i collaboratori era uno dei modi tramite i quali Apollonio godeva più pienamente del suo stato dirigenziale assoluto.
Apollonio guardava ciascun foglio con cura, quasi che non smettesse di trovarvi nuovi segni e nuove rivelazioni. Ogni tanto, toccava un foglio con la mano. Le dita, tozze e curve, quasi gonfie, terminavano con unghie strette, puntute. Guardò ancora a lungo, in silenzio. Picchiettava un foglio con l'indice a lungo, per tutto il tempo che lo guardava; poi si rivolgeva ad un altro, e iniziava a picchiettare quello, con un ritmo costante, pareva che contasse le battute, pareva che quel picchiare coll'indice ricurvo fosse la parte più importante, in quel momento, del suo lavoro dirigenziale.
I cinque collaboratori non avevano fretta; erano anni che conoscevano questa abitudine dello stronzo e dunque stavano lì come se aspettassero il tram.
E infine, Apollonio con i quattro cognomi aprì la bocca e, sempre picchierellando l'indice malfatto sul foglio candido, parlò:
-Questo...-
disse e poi tacque, come se un affanno, un'oppressione estrema lo soffocasse. 
Nessuno dei collaboratori disse nulla e intanto il direttore batteva il suo dito con il ritmo consueto, invariato.
-Questo potrebbe essere buono.- mormorò come parlando nel sonno, a voce bassissima.
-Sì, infatti.- disse uno dei collaboratori.
Il direttore interruppe il suo picchiare e portò la destra alla fronte; appariva più che assorto: appariva in una meditazione profondissima, quasi dolorosa.
-Però non so, non mi convince...- sussurrava il direttore che si teneva la fronte fra pollice e indice della mano destra -Non so...non...-
All'improvviso si scosse, guizzò come spinto da un coltello alle reni; afferrò i fogli che aveva vigilato e li porse ad un collaboratore, esclamando:
-Legga lei. A voce alta. Sentiamo come suonano.-
Poi, per insegnare qualcosa:
-Anche l'orecchio vuole la sua parte.- disse.
Il collaboratore che si prese i fogli era Emilio. Iniziò a leggere le due parole scritte su un foglio:
-Valorizzazione etica.-
Altro foglio:
-Correzione sociologica.-
Altro foglio:
-Ristabilimento morale.-
Altro foglio:
-Equità radicale.-
Ultimo foglio:
-Assestamento giuridico definitivo.-
Emilio aveva finito. Non sapeva se tenere ancora i fogli o ridarli al direttore, ma lo stronzo non dava alcuna indicazione in merito: se ne stava a labbra chiuse e occhi stretti. Fuori la luce del sole era piena e chiara e tutto quello che si vedeva dalla finestra era grandissimo e fitto di vita e di calore. Molte cose si muovevano: persone, automobili, cani, biciclette, una bandiera. 
-Non so.- prese a dire il direttore -Valorizzazione etica mi sembra... mi sembrava buono... ha segno positivo, perché il termine valorizzazione dà l'idea di una azione...un'azione benefica, che valorizza, che dà il giusto valore... così la gente apprezza, capisce che è una cosa utile, buona...-
-Da quando si chiamano termovalorizzatori gli inceneritori fanno meno paura.- commentò sorridendo il collaboratore Oreste, che il direttore ignorò.
-Però- continuò lo stronzo -questo termine non piace alla chiesa. Sua eccellenza il signor ministro me lo ha fatto capire chiaramente. È troppo forte, per la chiesa. Non si può.-
-Ma la chiesa ha dato il via libera, quindi...- fece il collaboratore Corrado.
-Sì sì. Però certe sfumature, certi dettagli, come dire?, certi particolari, capito?, certi dettagli certe sfumature sono importanti... su questo non si scappa. Bisogna stare attenti a questi dettagli che sono essenziali. Dico essenziali.- disse gravemente il direttore, come trasumanato dalla sua stessa potenza.
Il collaboratore Emilio restituì i fogli al direttore, dicendo:
-Ristabilimento morale mi sembra possa andare bene.-
Apollonio dai quattro cognomi guardò con una nuova tenerezza i fogli planati sulla scrivania.
-Sì, forse... non so...- sussurrava -magari è un po' duro... troppo laico... non so...-
Tutti tacquero: Apollonio sfinito per la gravezza del lavoro che doveva svolgere (cioè scegliere il termine chiave per la stesura della legge Morani); i collaboratori esausti per questa impudica perdita di tempo.
-Io eliminerei senz'altro "correzione sociologica"; mi sembra cupo e anche improprio.- disse il collaboratore Michele.
-Eh, cupo...- sbottò il direttore - In fondo, sempre di pena di morte si tratta.-
-Sì; però quella parola correzione fa subito venire in mente i compiti, i brutti voti, le interrogazioni, la scuola.... alla gente non andrà giù...-
Il direttore Apollonio annuì:
-Vero. Questo non va bene.- e appallottolò con forza eccessiva il foglio che recava la scritta sciagurata. Lo lasciò cadere in terra.
-Anche equità radicale può creare confusione...non fa venire in mente le tasse?- domandò il collaboratore Corrado.
Apollonio chinò un po' la testa e strinse le labbra (pareva volesse buttare un bacio alla scrivania); picchiò ancora ritmicamente il dito curvo ad uncino su un foglio.
-Assestamento giuridico definitivo.- disse infine col tono della dichiarazione -E' il termine più adatto, il più corretto. Questo va bene.-
I collaboratori non dissero nulla, tanto al direttore non interessava niente che venisse da loro. 
Apollonio il direttore Apollonio era fiero di sé. Anche questa volta era stato il migliore.
-Assestamento giuridico definitivo.- disse ancora il direttore, questa volta un po' più lentamente, per fare scorrere le parole davanti agli occhi e a lasciarle misteriosamente fluttuare in aria, davanti a sé, brillanti e leggere nella grande luce che prorompeva dalla finestra tersa.




11 gennaio 2019

Invito alla lettura: "Verso la Foce" di Gianni Celati



Il libro di Celati è fatto di quattro diari di viaggio. La raccolta è in tre
tranche: maggio 1983 (divisa in due diari), maggio 1984, maggio 1986. Sono pubblicati dall'ultimo al primo. Il viaggio è un lento andare che documenta ciò che si lascia dietro. Si tratta di un camminamento nella Pianura Padana che si trasforma, nel diario dell’83, in un viaggio “sapienziale” alle foci del Po. Il percorso è disorganizzato. È intessuto di quotidiano e non vi sono immagini degne di nota. È un viaggio di recupero di una visione normale, sulle cose e sul mondo. Si diffida, nel diario, delle cose straordinarie, fuori dall’ordinarietà che è lecito che ancora appartenga ad un luogo.

Il libro di Celati è anche il resoconto di un frammento di territorio e di umanità della pianura Padana. Su di essa grava il presentimento di stare per essere spazzata via, così com'è, forse da un evento di portata storica e inesorabile. Quale sia l’evento, se climatico, ambientale, economico, sociale, antropologico, se ci sia stato, si sa e non si sa. Questo non viene detto, ma aleggia una malinconia che vi allude possibilmente. La prima sezione del libro (Un paesaggio con centrale nucleare) è del 1989: lo scoppio della centrale di Černobyl. Lo scrittore fa un’inchiesta, seria nelle intenzioni ma a tratti estemporanea, chiede alle persone che incontra quanto ne pensano riguardo all’esposizione del Nord Italia alle radiazioni, registra le paure di un paese alla frase d’una barista: “Guarda che se non fa il bravo le dò latte contaminato, eh?”.

Questo sentimento di un mutamento che stravolge il volto della Pianura Padana non si esime da un resoconto particolareggiato di ciò che sembra destinato a svanire. Con occhio zelante, quando anche disattento, penetrante ma da lontano, Celati spiega la natura di quelle zone e chi le abita. Grossi stabilimenti industriali, un benzinaio grasso in ciabatte che si volta dall’altra parte mentre riempie serbatoi di benzina.
I luoghi descritti si trovano spesso nel punto di tensione fra un’offerta sentimentale del loro paesaggio naturale e lo squallore di elementi inquinanti che li hanno turbati. È l’inquinamento dei rifiuti delle industrie. Ma è anche una mutazione antropologica: i negozi dalle luccicanti vetrine delle grandi città sono riprodotti uguali nei cuori mutati dei piccoli borghi. Lo scrittore prende nota, cammina oltre, per “raggiungere una foce dove tutte le apparizioni si eclissano ridiventando detriti”.
Celati ricompone un’immagine cara al Novecento letterario: i detriti. Ma ricerca i relitti della realtà da un luogo metaforico ad un paesaggio ambientale: le foci del Po.
Questo diario è anche, se mi si passa l’espressione, un pamphlet di sapore profetico sulla fine del mondo. Si veda la quarta sezione (Verso la foce): quando il protagonista si trova a Scardovari, un paese nei pressi del Po di Gnocca, sta giocando ad un flipper in un bar semivuoto. Il gioco del flipper si basa sulla missione di due astronauti, Voltan e Vanda. Nel flipper, i due astronauti si devono allontanare dall’Empire State Building e dalla Statua della Libertà di New York per arrivare all’astronave che li salverà. Da che cosa? Dalla fine del mondo.
Celati non sale sull’astronave, né vuole farlo. Forse non può, e la navicella potrà prelevare le persone di una generazione successiva alla sua. Celati, col suo libro, si è fermato a fissare i resti del mondo, prima di una fine che non conosce.

Lo stile è quello di un libro fatto sorgere sulle frasi spezzate dagli appunti presi su un taccuino durante il viaggio. Talvolta, scritti mentre camminava, per cogliere l’essenza normale, diretta delle cose che vedeva. Oppure, lo scrittore è abile a fare risalire lungo questo filo, quello di una composizione immediata. Celati fa una prosa descrittiva, dura e senza sbavature, ma nutrita di lontananze e riflessioni su sé stessa. È asciutta, anche quando è tenuemente paesaggistica; quando è apocalittica, assegna alle parole un peso specifico.

Il personaggio Celati è solo un occhio che osserva. Questa è la visione copernicana in cui anche un altro scrittore, che sembra opposto a lui, ha impegnato la sua opera: Italo Calvino. Ma ogni occhio rimanda linee che attraversano spazi diversi, assegna vettori portatori di significati distinti.
Lo scrittore si abbandona agli spazi, ma si dà l’imperativo di evocarli a parole. Non sta pensando di descriverli: perché “anche le parole sono richiami, non definiscono niente, chiamano qualcosa perché resti con noi. E quello che possiamo fare è chiamare le cose, invocarle perché vengano a noi con i loro racconti”. È una singolare sconfessione della forza cognitiva della scrittura, pronunciata da un professore universitario di Lettere.

Celati, con la parola, richiama un mondo. Il mondo resta fisso, ma, ugualmente, sfugge dalle mani e svanisce. Celati diviene un personaggio inconsistente del suo libro. Teme di perdere la sua identità, ha dubbi, è attaccato morbosamente a qualcosa che fugge, gli importa di carpire qualcosa che accade fuori di lui, in un luogo che, perché non cambia, è a rischio. Celati è un fantasma che cammina su una terra che scompare se la nomina.
Nell’ultima sezione del libro, si annota la presenza di un ponte di ferro. Celati è a destinazione del viaggio: zona di Porto Tolle, all’imboccatura del Po di Gnocca. I piloni del ponte sono immersi nell’acqua alta del fiume. Attorno ad essi, la corrente fa gorghi d’acqua. Fuori da essi, una lattina è rigettata a dai cerchi dei mulinelli, li insegue mentre si spostano, e si rigetta nel loro occhio. Poi ricomincia.
Il libro di Celati – l’occhio di Celati - è fra l’osservazione emozionale dei mulinelli d’acqua e la focalizzazione della lattina inquinante, inquietante che rigettano.

Alessia Borriello





05 gennaio 2019

Via 4 Novembre e dintorni: C’era una volta – 1^ Parte

C’era una volta la casa di via 4 Novembre


Trascorso il periodo della guerra e cessati i pericoli, con la liberazione dell’isola da parte delle forze alleate, tornammo in paese nella nostra casa di Via 4 Novembre. Noi abitavamo al civico n° 72 della via prima parallela a nord del Corso Umberto I, la strataranni.
Dedicata com'è alla data della vittoria della I Guerra Mondiale, la Grande Guerra (1915/1918) che completò l’unificazione dell’Italia, la via 4 Novembre ben si inserisce, e ne costituisce coronamento, nel gruppo di strade della zona intitolate ad eventi e personaggi della storia patria, siciliana e pietrina. Essa si estende, infatti, da via Giuseppe La Masa alla Discesa Leone, per tutta la lunghezza del più noto corso di lu ringu di sutta. La via Tortorici Cremona la separa dalle vie Garibaldi e Capitano Bivona; è attraversata dalla discesa Giovanni Corrao e, a poco meno della metà del suo percorso, incrocia la discesa Rosolino Pilo, perpendicolari al corso Umberto. Esattamente a quell’incrocio sorgeva (e sorge ancora, abitata da altri) la nostra casa. L’abitazione, che era composta dalla parte anteriore ristrutturata del piano terra e dal piano superiore dello stabile che era stato lu tarpitu della famiglia di papà, ne formava l’angolo, la cantunera nord/ovest; mamma e papà vi andarono ad abitare subito dopo il loro matrimonio. In quella casa di via 4 Novembre ebbe inizio la vita di noi, quattro figli; è lì che abbiamo trascorso la nostra infanzia e parte della giovinezza, fino agli inizi degli anni ’60 del ‘900.
La casa aveva un balcone sopra l’entrata dell’ex frantoio e una finestra che dava sulla discesa Rosolino Pilo, ma non aveva sbocco sulla via Tortorici Cremona, lu ringu di ncapu. Da quel lato confinava con l’abitazione della famiglia di Antonino Pagliaro, sposato con la signora Maria Matanza. Lu massaru Ninu coltivava le sue terre assieme al figlio minore Giuseppe; Santo, il figlio maggiore, si occupava di edilizia, campo in cui era diventato un esperto capomastro; Maria Anna, Mariannina, la figlia femmina, faceva la maestra. Attraverso la parete nord, che divideva la nostra casa da quella dei Pagliaro, sentivamo ogni parlottare e ogni minimo movimento provenienti dalla loro casa. Spesso, bambini curiosi, appoggiavamo l’orecchio al muro per indovinare dal rumorino che avevamo udito a chi della famiglia poteva attribuirsi. Mariannina sposò Salvatore Marotta, lu Cacucciularu, allora, e per molti anni, custode del cimitero. Da tutti, in paese, era chiamato Sarvaturi e nominarlo evocava la sua funzione. Alto e di bell’aspetto, baffi e pizzo pronunciato ben curati, una certa ricercatezza nell’abbigliamento (cappello nero a larghe tese ed eleganti abiti scuri di sartoria), il portamento serio e distinto erano tutti elementi che abbinavamo al suo ufficio e che ce lo facevano percepire come personaggio dotato di particolari poteri e guardare con una certa apprensione.
Di fronte alla nostra, la casa abitata dalla vedova signora Ada Callari costituiva l’angolo sud/ovest dell’incrocio. L’angolo opposto, la cantunera a sud-est, era formato dalla casa dell’antica famiglia Nicoletti, abitata da donna Caterina, ultima discendente del casato, signorina avanti negli anni che vi viveva da sola. Alla porta della casa di donna Catarina si arrivava dopo aver salito i gradini di un alto ed ampio ballatoio protetto da una ringhiera di ferro e, superata quella, situata sullo stesso ballatoio, della casa della famiglia di Vincenzo Di Romana sposato con Vincenzina Lo Presti, noti in paese come li Vinci.
L’angolo nord-est, di fronte a donna Caterina Nicoletti, era costituito dalla casa di don Filippo Rabita, don Filippu Pruni, noto maestro falegname, che vi abitava con la moglie, signora Giuseppina Aiesi, e con i tre figli, tra i dodici e i quindici anni di età all’epoca della nostra nascita: Vincenzo, Giuseppe e Piera, Pitrina.
Gli abitanti delle case di quell’incrocio furono i nostri vicini più prossimi, quelli che, per la vicinanza, vedevamo quotidianamente e con i quali più frequenti erano le occasioni di incontro. Nel numero rientrano pure i componenti della famiglia del dottor Vincenzo Vitale, la cui abitazione confinava con la nostra dal lato ovest: sulla via 4 Novembre si affacciavano i due balconi della casa, ma l’ingresso si apriva sulla via Tortorici Cremona.
Tanti ricordi della nostra vita di allora sono legati a quella via, alle strade vicine, alle persone che vi incontrammo e conoscemmo. Di quell’incrocio sentiamo i rumori, gli odori, le voci. Lo scalpitio dei muli dei contadini che di buonora transitavano per la discesa Rosolino Pilo per recarsi in campagna; il crocevia disseminato di una infinità di neri “confettini” e il lezzo penetrante che, poco più tardi, impregnava l’aria dopo il passaggio del capraio che tutte le mattine portava il latte alle clienti. Esse lo aspettavano sulla porta ccu la cicara mmanu ed egli la restituiva piena del bianco e nutriente liquido ancora fumante, munto direttamente dalle capre che si portava appresso; il vociare dei ragazzi che passavano da un gioco all’altro tra innocenti litigi; il gridare delle madri che si affacciavano e continuavano, non udite, a chiamarli quasi a squarciagola; lo starnazzare delle galline disturbate, nel loro pacifico razzolare, da qualche improvviso rumore; il richiamo degli ambulanti venditori di merce varia; il grido del banditore, Micheli l’urbu, che, fermo al centro dell’incrocio, lanciava il suo avviso o annunciava la novità:
O figliuli,
ad-ha arrivatu lu pisci friscu,
trigli mirluzzu picaredda, sardi…
va iti a la piscarija…;

o figliuli …
cu- ha ttruvatu na mula
ca jè di
va purtaticcilla ca c’è lu viviraggiu; …
e mamma a ripeterci quel curioso annuncio che le era rimasto in mente da quando glielo avevano raccontato:
O populu di Summatinu,
cu ha ttruvatu un papì masculu
ca jiera di li Chinnici
ca havi tri ghiorna ca la criat’è sutta.
“O popolo di Sommatino, chi ha trovato un tacchino (sappia) che era di proprietà della famiglia Chinnici; ora son tre giorni che la serva (accusata del furto) è in prigione”
La via 4 Novembre era una strada allietata da un gran numero di bambini e bambine. Quel tratto di strada, allora in terra battuta, tra l’incrocio con via Rosolino Pilo e Discesa S. Orsola, molti ne raccoglieva di tutto il vicinato, perché ben si prestava ai giochi di femmine e di maschi: a li cchiè, a li rrummula, a li castedda, a la stacca, a li petri, a la fussetta. Era un cinguettio continuo, che poteva anche dar fastidio a persone anziane meno tolleranti nei confronti dei bambini, specie in certe ore della giornata. E mentre tra le bambine l’idillio era quasi perfetto, tra i maschietti piccole baruffe avvenivano per questioni legate al gioco, fino a sfociare, qualche volta, in vere e proprie liti. E tuttavia mai tra le mamme ci furono discussioni, dal momento che nessuna di esse fu mai indulgente nei confronti del proprio figlio, né intervenne a prenderne le difese. Capitava che si affacciassero alle finestre all’udire il clamore della lite o al pianto, ma le loro parole erano: «Cosi di carusi su, vinu l’anni e mintinu li sinzii, cresceranno, capiranno». E ciascuna richiamava il proprio figlio. Del resto, passata la buriana, i ragazzi erano di nuovo insieme a giocare, dimentichi di tutto.
All’astricu della casa di Vincenzo e Vincenzina Di Romana, genitori di Masinu e Lina, di qualche anno più piccoli di noi, seguivano due piccoli ballatoi, du’ tucchineddi, a breve distanza l’uno dall’altro, alti poco più di un metro, con quattro-cinque gradini e privi di ringhiera: appartenevano alle abitazioni delle famiglie di Rocco Zappulla, Roccu Zzappudda, e di Giuseppe Emma, Pippinu Palazzu. Il primo era sposato con la signora Giovanna Di Gregorio, la zi’ Giuannina, della numerosa famiglia di li Mazzariddi (o li Cilij), sorella di nostra zia Damiana madre di Pasqualino; il secondo con la signora Concetta Barrile, Cuncittina la Padedda. Appresso veniva il portoncino della casa della famiglia di Nunzio Pace. Tra i quattro Zappulla, Totò, Nino, Paolo, Antonietta, altrettanti dei Pace, Vincenzo, Pino, Anna, Rocco, e due della famiglia Emma, Filippina e Sebastiano, erano altri dieci bambini che gravitavano attorno a quelle centinaia di metri quadrati di terra vicino al nostro incrocio. Ad ovest, accanto alla casa della signora Callari, abitava la famiglia di Paulu Vavaluciu e Mariuzza la Buttafoca, Paolo Corvo e signora Maria Buttafuoco, famiglia che nel corso degli anni raggiunse i dieci componenti: genitori e otto figli di cui i maggiori, all'incirca della nostra stessa età, furono i primi nostri compagni di gioco e di litigate. Tre maschi, Salvatore, Pino, Pasqualino; tre femmine, Costanza, Filippina e Agatina, a cui si aggiunsero i gemelli Michele e Vincenzo. «Fu soprattutto con Totò Zappulla, Vincenzo e Pino Pace e spesso anche Rino Mendola (nipote del dottor Vitale) ed altri ragazzi della zona», dice Salvatore, «che mi trovavo a giocare tra gli altri a li castedda, e a scinni scinni rininedda[1], giochi che ricordo come divertenti e impegnativi, in cui mettevamo tutta la nostra anima per eseguirli nel rispetto delle regole e dei ruoli che definivamo dopo una serie di discussioni. Come tra gli adulti, gli inevitabili diverbi sorgevano quando c’era da attribuire la responsabilità della sconfitta della squadra, ma venivano presto risolti per riprendere subito il gioco».
«Con Anna Pace», dice Maria, «non ricordo di aver diviso tanti momenti di gioco, ma tra noi c’era una sincera amicizia; frequentavamo l’Azione cattolica e spesso facevamo assieme la strada per raggiungere la Parrocchia così come anche la domenica per recarci a Messa. Eravamo due donnine e spesso aiutavamo in casa. Le nostre mamme si stimavano a vicenda, si chiamavano cugine e lo erano realmente: la madre di Anna, zia Maria Balestrieri, era nipote di nonno Pasquale; suo padre era figlio di Giuseppina Costa che, vedova Balestrieri, aveva sposato in seconde nozze Calogero Messina, nostro bisnonno materno».
Fu in quella strada polverosa che insieme ai compagni di gioco apprendemmo concretamente le prime regole del vivere sociale e si stabilirono rapporti di amicizia che ci consentirono, dopo che ciascuno col tempo aveva preso la propria direzione, di riconoscerci e definirci, nella “grande rimpatriata” dell’aprile del 2012, “amici di sempre”, “amici per sempre”.
Molta tristezza suscita vedere ora quelle strade deserte e silenziose a tutte le ore del giorno; e molti pensieri attraversano la mente di chi le ha vissute in momenti in cui gioia, allegria, vivacità di bambini e via vai di adulti predominavano. Pavimentazioni rifatte con pietra di Catania, pulite ma ciuffi di erba vi crescono ai bordi e tra gli interstizi dell’acciottolato; moderni lampioncini ad applique ai muri delle case di Via Garibaldi, della discesa Rosolino Pilo; case ristrutturate fornite di nuovi portoncini, anche eleganti, accanto ad altre coi muri scrostati, le serrande e i segni della loro vetustà. Ma tutte porte chiuse, non una finestra aperta, non una donna al balcone a stendere panni, non un bambino per la strada. La casa della nostra infanzia aveva già subito un primo intervento di cui presentava le tracce nelle porte esterne sostituite, nei muri ritinteggiati e soprattutto nel balcone con ringhiera di ferro che la circondava per tutta la sua estensione sino a dopo l’angolo con la discesa Sant'Elia. Una tenda da sole vi era stata montata sopra la porta finestra. Ma nessun segno di vita come in tutte le altre. Vi avessi scorto una presenza umana avrei chiesto di entrare: mi sarebbe piaciuto verificare quali modifiche vi erano state apportate all'interno. (continua)

Maria e Salvatore Giordano
[1] Vd. la voce rininedda sul Vocabolario Siciliano cit.