23 febbraio 2019

"Il Progresso". Un Racconto di Paolo Cortesi




per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html

Il conte Ottavio, in fondo, non era cattivo.
Antonio lo aveva detto tante volte agli altri domestici che se n’era convinto. Il conte Ottavio, pensava, è un signore, è abituato a comandare, a farsi servire. Antonio pensava ancora, e lo disse qualche volta, che se lui fosse stato conte, avrebbe fatto proprio come il signor Ottavio. Magari avrebbe avuto più pazienza, ecco questo sì, questo sì. Magari, avendo provato quanto è faticoso dire sempre sì signor conte, lui, Antonio, avrebbe avuto un po’ più attenzione verso i servi.
Li avrebbe ascoltati di più. E se dicevano cose giuste, li avrebbe accontentati. Ma Antonio era nato stalliere da un uomo che aveva fatto lo stalliere tutta la vita e suo nonno era stato contadino prima di arrivare in città spinto dalla miseria come un forcone spinge un porco al macello.
Il conte Ottavio non era cattivo, a saperlo prendere, pensava Antonio, che aveva imparato come doveva prendere il signor conte.
Mai contrariarlo, essere sempre contento, soddisfatto, sazio. E quando il signore non parlava, bisognava stare zitti; se il signore parlava, bisognava raccontare fatti e fatterelli, con barzellette e storielle e bisognava parlare in dialetto che metteva il signore di buonumore.
Da quasi un mese il signor Ottavio si preparava per la notte di Capodanno del 1900. Antonio lo aveva sentito dire a Morlini, il segretario:
-Ma ci pensa, cavaliere? Abbiamo passato una vita a scrivere la data col 18 iniziale, adesso dobbiamo scrivere 19… ma non le fa impressione?-
Morlini sorrideva e dondolava il capo annuendo ritmicamente (lui sapeva come prendere il signor conte) e non diceva nulla per prudenza. Ottavio continuava:
-Millenovecento. Millenovecento.- ripeteva, assaporando le parole come fossero caramelle in bocca -Millenovecento. Dio, che cifra! Piena di zeri. A me lo zero fa paura, soprattutto nella colonna delle entrate!- e il conte rideva forte, e Morlini capì che adesso doveva ridere rumorosamente anche lui.
-Il nuovo secolo!- esclamò il segretario, a voce alta, come se una piazza lo dividesse dal conte -Entriamo nel secolo nuovo! Nel futuro!-
Quest’idea del futuro, l’immagine del secolo che entrava nel futuro come una freccia coglie il bersaglio, piacque tanto al conte che la fece sua. Un mattino, alla fine di novembre (Antonio ricordava i campi che scintillavano di ghiaccio e parevano cosparsi di migliaia di pezzetti di vetro chiaro) un mattino, il conte stava a guardare lo stalliere che strigliava un cavallo dal manto così nero che dava riflessi blu. Antonio lavorava sodo, perché si sentiva gli occhi del conte sulla schiena; il signor Ottavio parlava tanto, senza fermarsi, quasi con foga, come gli capitava di rado e solo quando un argomento lo interessava davvero (i cavalli, le donne, le corna degli altri, le rendite di case e poderi…). Il conte diceva:
-Con l’anno nuovo si rinnova tutto. Vedrai che cambiamenti, che progresso. Ormai la natura non ha più segreti. Con i telescopi riusciamo a vedere i pianeti lontanissimi. E abbiamo il telegrafo, le corazzate, i treni che vanno come fulmini. Sei mai stato in treno, tu?-
Antonio fece no con la testa, poi -poiché gli sembrò poco rispettoso- disse:
-No, signor conte.-
Ottavio fissava l’occhio sferico e lucente del cavallo; disse:
-Eh caro mio, il treno! Ti porta ovunque. A Parigi, a Vienna…-
-Bello.- mormorò Antonio, ma il conte non lo sentì neppure, e continuava:
-Con gli aerostati possiamo salire oltre le nuvole. E l’elettricità, la chimica, la meccanica. Il progresso, caro mio, questo è il progresso ed il millenovecento sarà pieno di progresso. Non ci saranno più guerre, perché la scienza ci fa tutti fratelli e andremo a esplorare l’Africa tenebrosa, andremo ai poli.-
-Non c’è più la guerra?- domandò Antonio, contento e timoroso come stesse scegliendo un regalo.
-Il millenovecento porterà bene anche a voi poveretti.- dichiarò il conte, con voce sicura.
Antonio restò sospeso nel gesto: col braccio destro alzato sul dorso del cavallo, pareva una delle statue nel giardino del conte. Sussurrò:
-Anche per noi?-
-Certo.- esclamò il conte Ottavio -Il progresso vi farà vivere meglio.- e non disse altro. Antonio avrebbe voluto chiedere come, quando il progresso gli avrebbe dato una vita più bella, ma non osò e riprese a strigliare Pallino, che era il cavallo preferito del padrone.
Il conte Ottavio rimase assorto e fermo; fissava qualcosa lontano, fuori dalla stalla; pareva che cercasse nell’orizzonte fumoso un segno del progresso imminente. Il cielo era bianco, opaco, e i rami neri degli alberi sembravano crepe in un muro.
Il signor Ottavio aveva organizzato nel suo palazzo una gran festa per la notte di Capodanno del 1900. Aveva invitato parenti, amici e nemici, nobili, ufficiali, professori dell’università e primari dell’ospedale. Aveva speso molto, e questo era davvero eccezionale perché il conte Ottavio era attento alle lire, ma voleva festeggiare un evento -diceva a gran voce al circolo- che capita una sola volta nella vita d’un uomo.
Così, aveva fatto ripulire il salone, lustrare il pavimento, le scale e gli specchi.
Però, per non buttare i soldi che poteva risparmiare, aveva comandato tutta la servitù a fare da maggiordomi. Il fattore, il giardiniere, l’ortolano e lo stalliere li aveva rivestiti con delle belle livree rosse e argento, affittate al trovarobe del teatro. Li aveva istruiti come fossero soldati, e aveva fatto anche delle esercitazioni. I quattro erano goffi e incerti; si sforzavano di essere gentili e leggiadri (così aveva detto il conte), ma le dita grosse, le facce scure d’un velo di barba tenace, le labbra socchiuse rivelavano che loro non erano mai stati dei domestici.
Arrivò la sera fatale. E tutto iniziò bene: le carrozze si fermavano davanti al portone illuminato della casa del conte, ne scendevano signori vestiti di nero e signore avvolte da profumi e da stole di pellicce lucenti. Poi ci furono le danze e il fattore, il giardiniere, l’ortolano e lo stalliere facevano un po’ fatica a non distrarsi con quelle spalle nude di donna che si capiva che erano calde anche senza toccarle. L’orchestra suonava musiche bellissime, che loro quattro non avevano mai ascoltato prima.
Antonio portava in giro un vassoio colmo di bicchieri; cercava caparbiamente di essere leggiadro (il conte gli aveva spiegato cosa vuol dire quella parola) e si guardava in giro per portare da bere.
Ad un certo punto, mentre ruotava su di sé come gli aveva raccomandato il conte, Antonio urtò il colonnello Redis, che aveva settant’anni e crollò a terra, i bicchieri di cristallo caddero ed esplosero in un lampo brillante di schegge, il vassoio dette un rumore altissimo e spaventoso di gong che zittì i suonatori.
Il vecchio colonnello annaspava confuso a terra, con la sciabola tra le gambe che non riusciva a districare; Antonio si chinò per aiutarlo e così picchiò la testa contro quella dell’avvocato Crocci che pure lui s’era piegato per rialzare il vecchio. Arrivò il conte Ottavio di corsa; già da lontano gridava:
-Cosa c’è? Cosa c’è?!-
Antonio vide per un istante i suoi occhi feroci, i denti.
-Cretino! Idiota! Imbecille!- urlava il conte -Bestia! Bestia deficiente!- e agitava le braccia, pareva che volesse prendere a pugni Antonio, il quale se ne stava a testa bassa, con le mani lungo i fianchi, a farfugliare:
-Chiedo scusa… sono dispiaciuto…-
-Ma lo vedi cos’hai fatto, deficiente?!- gridava il conte, indicando i cocci di vetro con l’indice teso -Lo vedi, cretino?!-
Il colonnello si rimise in piedi barcollando, diceva con una vocina da ammalato:
-Ma no, ma lasci stare… non è nulla…-
Il conte continuava a insultare e maledire Antonio, poi finalmente alcune signore dissero che poverino era già tanto mortificato e non era il caso di infierire così.
Ottavio si fermò, respirava forte e strinse le labbra. Poi voltò la faccia dall’altra parte e disse allo stalliere:
-Va’ via, va’ via ché non ti veda mai più.-
Antonio fece un inchino alla schiena del conte. Bisbigliò “buonasera” ed uscì dalla sala, mentre si sentiva qualcuno esclamare:
-Su su! Allegria!-
Antonio andò nella camerina dove i quattro servi si erano cambiati d’abito. Si toglieva lentamente la livrea rossa e argento; alla luce della lampada ad olio i bottoni scintillarono come monete d’oro.
Antonio pensò che il millenovecento non avrebbe cambiato la sua vita.



16 febbraio 2019

Via 4 Novembre e dintorni: La casa – 2^ Parte


La casa di Via 4 Novembre                                                                           
La posizione della nostra casa ci offriva anche la possibilità di un altro tipo di spettacolo: dalla finestra che dava sulla discesa Rosolino Pilo, dopo fortissimi temporali vedevamo scendere, sbalorditi, grossissime piene di acqua sporca accompagnate da un rumore assordante. La piena che, partita da via Ville, si ingrossava man mano che scendeva verso il basso, ricevendo altra acqua e altra sporcizia dalle strade laterali come un fiume dai suoi affluenti, all’altezza del nostro incrocio copriva, alta una spanna, tutta la larghezza della discesa e proseguiva, ingrossandosi ancora, sino a lu Vaddùni dove, in questi casi, alcune abitazioni venivano allagate. La grossa fiumara nella sua furia trascinava a valle non solo lo sporco delle strade ma anche cufinati di ogni genere di immondizia che la gente, lungo il percorso, affidava alla piena: era abitudine diffusa, infatti, in quelle occasioni, ripulire stalle e paglialori. Di temporali se ne scatenavano di molto violenti, con lampi e tuoni da scuotere le ossa e da essere motivo di serie preoccupazioni, specie se nei periodi di raccolto. Allora vedevamo la mamma prendere la corona del rosario e recitare, con molta partecipazione, tra le altre, la preghiera che chiamava “Lu Verbu”:

Lu Verbu sacciu e lu Verbu haju a ddiri
Lu Verbu ca nni lassà nostru Signuri
Quannu acchjanà la cruci ppi muriri
ppi sarvari a nuantri piccatura.
O piccatura, o piccatrici
viditi quant’è ranni chista cruci
ca teni un vrazzu ‘n cilu e nantru ‘n terra
sinu a la vadda di Giosafat
picciddi e ranni amma essiri ddà
Scinni la Matri SSanta ccu lu libbru a li manu e chi dirà?
«Figliu li pirdunasti li Jiudija
Accussi ha ppirdunari li figliuli mija»
«Matri ji nu li puzzu pirdunari
Ca sunu tutti piccatura assai,
sanu lu Verbu e nu lu vunu diri
ntre li vampi e la pici han ‘a –ccadiri»
Cu nu lu sapi si lu fa’ nsignari.
Cu lu dici tri- bboti ‘n capizzu
Je scanzatu di trimulizzu;
Cu lu dici tri-bboti la notti
Je scanzatu di mala morti;
cu lu dici tri-bboti  a la via
l’accuppagna la Vergini Maria;
cu lu dici tri-bboti ‘n campu
je scanzatu di trona e di lampu.

Ma era spettacolo altrettanto bello, dopo la calata di la chjina, vedere l’acciottolato lucido della discesa brillare sotto il sole improvvisamente comparso. Per alcuni giorni la strada appariva pulita, ma restavano evidenti i segni del suo passaggio: sterpi, paglie, stracci appiccicati  alle grate dei dammusa e ai muri delle case.
Il crocevia Rosolino Pilo/via 4 Novembre era però compreso nell’itinerario della via di li Santi, e questo fatto, secondo la nostra percezione, gli conferiva una certa importanza. Da qui passavano tutte le processioni delle feste religiose, qui sostava, per alcuni minuti, lu Signuri di li fasci, la processione del Venerdì Santo, la più suggestiva, sentita ed emozionante del nostro paese, dopo che, svoltata da via Garibaldi, aveva percorso quel centinaio di metri di discesa sdrucciolevole prima di raggiungere il Corso Umberto[1]


A la Strataranni il percorso diventava pianeggiante e lineare, allora l’imponente corteo si snodava in tutta la sua lunghezza e si potevano contemplare in un’unica visione i tre simulacri: il colle imbiancato del calvario, lu Cravaniu, sormontato dal Crocefisso sul globo policromo, Cristo morto nell’urna e la Madonna Addolorata piangente, avvolta nel suo manto nero, portata a spalle dalle donne cattoliche, ciascuno preceduto dai devoti incappucciati delle confraternite, seguiti da bande musicali e da una moltitudine di persone in preghiera, comprese quelle delle famiglie di recente lutto.
Per il passaggio di Lu Signuri di li fasci si rendeva necessario rimuovere li curdìni, quei fili tesi da un balcone all’altro delle case di fronte, utilizzati per stendere il bucato. Era incombenza di papà slegare, qualche giorno prima del venerdì, il filo che univa trasversalmente il nostro balcone a quello di casa Nicoletti, situati ai due angoli opposti dell’incrocio; arrotolato a mo’ di grosso bracciale restava attaccato al balcone di donna Caterina per circa quindici giorni. La curdìna veniva ripristinata dopo il passaggio della processione della festa di San Vincenzo Ferreri, che veniva celebrata una settimana dopo Pasqua.
La giornata del Venerdì santo, fulcro della settimana santa, veniva vissuta a Pietraperzia secondo le tradizioni tramandateci dai nostri avi, che prevedevano il divieto di usare forbici e attrezzi taglienti, martelli e di piantare chiodi, e caratterizzata da pratiche di penitenza e mortificazione. Era consuetudine della nostra famiglia, e ad essa fummo abituati fin da bambini, osservare quel giorno il digiuno come quella di compiere, la sera del giovedì santo, il giro delle cinque chiese per la visita a li Sapurca, assieme ai nostri genitori. Ma i comportamenti di tutta la settimana erano ispirati da parte dei credenti pietrini ad una profonda mestizia, come sottolineavano le stesse preghiere di la Simana santa, che invitavano a meditare sul mistero della Passione di Cristo; preghiere che la mamma ci intonava invitandoci ad ascoltare e a ripetere con lei:

Accuminzammu di lu Santu luni,
na jurnatedda benigna e murtali.
L’armuzzi santi stanu a nghinucchiuni
prigannu nostru Ddì celestiali.
………           ………..
Si vu’ lu Paradisu o piccaturi,
ti cci’ ha addurari li so cincu chiaghi.
….   ….    ….
Di venniri murì nostru Signuri
Ntre un trunculu di crucci assai pinnenti
Tri chiova furu li primi dulura
E la cruna di spini trapungenti.[2]

Con il ritorno in paese ebbero fine le vacanze in campagna e con esse i giochi all’aria aperta: rincorrere le farfalle, stanare le lucertole, fare la marmellata schiacciando i fichi sulla mattonella, preparare i biscotti pasticciando con la farina, partecipare all’impastata del pane per farci fare da zia Mariù la fuata a ffacci di vecchia.  Cessarono le esplorazioni attorno a la puntara  in cerca di cchiappari e origano, le  arrampicate sugli alberi, la ricerca dei nidi, il perdersi nell’ammirare meravigliati, nelle ore più calde della giornata, lo spettacolo dei falchi che, libratisi nell’aria volteggiavano leggeri sullo sfondo della volta azzurrissima del cielo o si lasciavano cullare dal vento, simili ad aquiloni tenuti da un filo invisibile. Finirono anche le entusiasmanti escursioni al Salso, tutte le volte che lo zio Biagio ci portava con sé a raccogliere li pumadoru, li milinciani, li pipi e li muluna di χiauru che coltivavamo nell’orto della piana. L’invito era accolto con grida di gioia perché potevamo avvicinarci al fiume vedere l’acqua scorrere lenta pulita e trasparente, sperare di vedere sgusciare veloce qualche anguilla. Al fiume ci piaceva giocare coi grossi ciottoli neri e levigati; lucentissimi mentre erano ancora bagnati, tolti dall’acqua presto si asciugavano perdendo la loro brillantezza, e apparivano opachi e coperti da una polverina bianca. Noi ne prendevamo alcuni di varia grandezza e ce li portavamo a casa, ci attraeva la loro forma rotonda e liscia; li usavamo per schiacciare le mandorle.
Era però altrettanto appagante, in paese, andare a trovare i nonni. Tutti i pomeriggi, salvo imprevisti, eseguiti i compiti scolastici, ci trovavamo tutti a casa loro in Via Ville Superiori. Lì trovavamo le cugine Antonietta e Rocca, Totò, Maria e Vincenzina, figlie della zia Lucietta, le cui abitazioni sorgevano a poca distanza da quella dei nonni. Nonna Nina, che attendeva il nostro arrivo, aveva predisposto le tasche della sua lunga gonna nera riempiendole di leccornie, come biscottini a forma di animaletti, i famosi nnicchinnà: con gesto improvviso, che chiamava l’ammuccata, ce li cacciava in bocca al momento di salutarla; li muscardini sicchi, dolcissimi, che sgranocchiavamo con avidità. Canestrate intere di moscardini freschi e morbidi non mancavano comunque mai a casa della nonna, che ne era abilissima confezionatrice. Nelle capienti tasche del suo grembiule trovavano posto anche i ceci tostati, li ciciri callijati, che lei stessa preparava, di cui eravamo pure molto ghiotti. In una grossa padella posta sul fuoco, contenente già della sabbia di fiume, metteva i ceci sbollentati che, a contatto con la sabbia sempre più calda, man mano che la nonna li rigirava con un lungo cucchiaio di legno, prendevano quel colore tipico tra il bianco e l’avana. Quando, a suo parere, i ceci avevano preso la giusta tonalità, versava il contenuto della padella in un setaccio e, fatta cadere la sabbia, restavano i ceci tostati, coloriti e friabili, che travasava in un panierino di paglia intrecciata, con il fondo ormai sfilacciato e bruciacchiato. I ceci ci piacevano anche verdi; grosse bracciate di piante con i semi attaccati ne portava tante volte lo zio Francesco dalla campagna. Ceci tostati venivano venduti sulle bancarelle della frutta secca, soprattutto nel periodo natalizio, ma non avevano niente a che vedere con la friabilità, la freschezza e la bontà di quelli preparati dalla nonna. Ancora oggi i ceci tostati si trovano anche nei mercati rionali di Torino, in sacchetti o sfusi venduti a peso: «Quando vado al mercato» dice Maria «mi lascio attirare e ne prendo qualche bustina, li offro alle mie sorelle e agli amici che vengono a trovarmi e che volentieri li accettano come occasione di ritorno a vecchie sensazioni e ad allegri e nostalgici commenti».
Andando dalla nonna conoscemmo molte persone che non sapevamo fossero nostri parenti. Di parenti i nonni ne avevano tanti, sparsi nei diversi quartieri del paese; in molti venivano a trovarli di proposito o passavano a salutarli trovandosi nei dintorni di via Ville Superiori per i loro affari. Se ci fosse stato un dubbio su qualche persona di cui si stava parlando, la nonna lo risolveva subito: la persona in causa era ma cuscina Giuannina o ma niputi Cuncittina o ma cummari Filippa. E se uscivamo con lei era la stessa cosa, tutte le persone che incontravamo la salutavano: bongiornu cuscina Nì o  ssa bbanadica zi’ Nì, se era una persona giovane; e magari si fermavano a raccontarsi le ultime reciproche vicende familiari. Ed io spesso, continua Maria:
- «Ma mamma Nì, cu jera ssa fimmina ca t’ha ssalutato ora ora?»
- «Bbi’ Mariuzzè,… ma figliozza Catarina, figlia di ma cummari Maracava la Campanedda». (continua)

Maria e Salvatore Giordano




[1] Cf.  Filippo Marotta, La Settimana Santa e la Pasqua a Pietraperzia, p. 94: nella fotografia, “lu Signori di li fasci” in processione nella discesa Rosolino Pilo, di epoca successiva ai nostri ricordi, il corteo ha raggiunto proprio il nostro incrocio. I balconi che si vedono sulla sinistra appartengono alla casa, ristrutturata, che era stata della signora Ada Callari; sulla destra i muri prospicienti il corso Umberto della casa che fu di donna Caterina Nicoletti.
La foto di Antonio Caffo in questo articolo non è la foto citata dagli autori.

[2] Quelle preghiere troviamo ora in La Settimana Santa cit., p. 131




09 febbraio 2019

La Chiesa Madre e la Cateva di Pietraperzia

Questo articolo è tratto da "Escursione Archeologica a Pietraperzia" stampato nel 1914.
L'autore, Michele Alesso, è stato uno storiografo nisseno esperto di costumi e tradizioni popolari locali. Il volume è conservato nella biblioteca Scarabelli di Caltanissetta.

ESCURSIONE ARCHEOLOGICA
A
PIETRAPERZIA


MICHELE ALESSO



La Madrice
Nella parte più elevata di Pietraperzia, in prossimità del Castello Barresio, e rivolta a mezzogiorno, sorge la chiesa madre, la cui erezione sembra rimontare alla prima metà del secolo XVI. Da una epigrafe, graffita nelle imposte, si sa che questo tempio, dedicato a Maria della Stella, fu costruito a spese del marchese Matteo Barresi, benefico signore di quella città.È abbastanza ampio e completo.




L'interno, a tre navate, nulla offre di notevole. Degno di nota v'ha il grande quadro posto sull'altare maggiore, di squisita fattura, dovuto al pennello del pittore fiorentino Filippo Paladino.
Nella tela è raffigurata l’Assunzione della Vergine, ed è probabile che sia stata dipinta fra il 1614 e il 1616(1).
Nella parte superiore della tela, in delicato atteggiamento, stanno la Vergine col Bambino, fra due vezzosi puttini, che graziosamente sorreggono una corona. Più in alto, fra un artistico intreccio di nuvole, scorgesi la figura dell'Eterno Padre.
Ai due lati della Madonna, in vaghe e gentili mosse, fan corona gruppi di angeli che suonano delicati ed armoniosi strumenti musicali, violino, arpa, mandola, mentre altri par che intonino inni di gloria e armoniosi concerti in onore della Gran Madre.
In basso, dal lato destro, si notano le figure di due Vergini Martiri: S. Agata e Santa Lucia; a sinistra stanno S. Pietro e S. Paolo. Fra le prime e le seconde figure spicca un paesaggio di sfondo.
________________
(1)  Altri quadri consimili, dello stesso pittore, si ammiravano un tempo in Caltanissetta, uno nella chiesa di S. Maria degli Angeli, rappresentante anch'esso l'Assunzione di Maria, e l' altro nella chiesa di S. Domenico, che raffigura la Vergine del Rosario. In questi ultimo leggiamo la firma dell'autore e l' anno 1615.

Di notevole Importanza, vanno ricordati alcuni frammenti architettonici con sculture, gaginiani, che si osservano, ora, appoggiati, qua o là, alle basi delle colonne di sostegno degli archi che dividono le tre navate.(1)
Questi frammenti architettonici, nel 1912, vennero osservati dall'Ufficio di Conservazione dei Monumenti, che, constatatone il valore artistico, li dichiarò d'importante interesse: per cui ora sono sottoposti alle disposizioni contenute nella legge 20 giugno 1909, n.364.
Si vuole che tali frammenti di marmo bianco costituissero, un tempo, gli architravi con le cornici e i pilastri, destinati ad adornare le tre porte d'ingresso che si aprono nel prospetto principale della Madrice, dalla parte di mezzogiorno.
Il disegno dei tre architravi risulta di un grazioso intreccio a fogliame, misto con frutti. Ciascuno di essi ha, nel centro, lo stemma barresio, spiccante fra il complesso degli adorni. Nei pilastri, sul fondo uniforme, spiccano, a bassorilievo, trofei di armi degli antichi romani: elmi, corazze, coturni, flauti, trombe, archi, mazze ferrate, guanti, lance, alabarde e fasci di verghe, che, armonizzando tra loro, nell'insieme si alternano con mazzolini di foglie e frutti, sostenuti ed intrecciati capricciosamente con un nastro serpeggiante per tutta l'estensione del pilastro.
Gli architravi misurano, ciascuno, m. 2,59 in lunghezza per m. 0,50 in larghezza. Le cornici, che sono due, hanno le dimensioni: una di m. 2,67 e l'altra di m. 1,66 in lunghezza; entrambe di m. 0,15 in larghezza.
Di pilastri completi, aventi, cioè, il capitello e la base, ve ne sono due solamente, ciascuno delle dimensioni di m. 2,80 per m. 0,30. Altri frammenti di pilastri mancano o del capitello o della base.
Monumento di relativa importanza è il sarcofago marmoreo che s'erge appoggiato alla parete, a sinistra della porta di centro. Questo sarcofago, eretto nel 1582, che chiude le spoglie di don Matteo, di donna Eleonora, madre dello stesso, e delle figlie(2), dimostra chiaramente la nobiltà e la grandezza della famiglia dominante allora in Pietraperzia.
_______________
(1) Dobbiamo alla squisita gentilezza del Can.co Salvatore Di Blasi e del Parroco can. Antonino Assennato la conoscenza di alcune notizie. A loro rendiamo sentitissime grazie.
(2) Amico V. Dizionario topografico della Sicilia, alla voce Pietraperzia.




Il sarcofago s'innalza su uno zoccolo di semplicissima architettura, senza adorni di sorta.
Su lo zoccolo poggiano le basi di quattro colonnine, alle quali stanno addossate quattro statuette, a bassorilievo, le cui figure par che rappresentino la medicina, la giustizia, la scienza e la beneficenza. La prima delle quattro statuette sorregge, nella destra, una coppa e, con la sinistra, stringe per il collo un serpente: la seconda impugna, con la destra, una spada e, nella sinistra, tiene il globo: la terza stringe, fra le braccia, una pergamena arrotolata; e la quarta, infine, versa, da un'anfora in un'altra, il liquido benefico della carità. Queste quattro figure simboleggiano, come ben si comprende, le doti di cui andavano orgogliosi i signori Barrese. Sui capitelli delle quattro colonnine, di stile dorico, poggia un'arma, adorna di ricchi bassorilievi a fiorami e disegni vari, di stile rinascimento, su cui spiccano mirabilmente due artistici serafini, che sostengono, dall'un lato e dall'altro, lo stemma inquartato delle famiglie Barrese e Valguarnera. Sulla copertura dell'urna, che fa da coperchio, si distende in posizione supina, come dormente, una figura di donna, forse donna Laura Sottile Cappello, moglie di Giovanni Antonio II, barone di Pietraperzia.
L'epigrafe, graffita nella fascia superiore dell' urna, ci fa sapere che detto sarcofago accoglie anche il corpo di donna Antonia Buxemar o Ademar, altrimenti intesa Santapau, moglie del marchese don Girolamo Barrese, e dei loro figliuoli; vi si conservano anche le spoglie dei figli di Beatrice Barrese, figlia di donna Laura, sorella di don Matteo, e sposa dl Giovanni Valguarnera, conte di Assoro. Questo ricordo marmoreo conserva altresì gli avanzi di donna Eleonora e dl donna Gerolama Barrese. In essa si legge:(1)

IVSSV ET FORTVSIS ILLVSTRIS HEROIS DON MACTHEI
BARRESII PRIMI HVIVS COGNOMINIS MARCHIONIS
EXTRVCTVM EST OPVS IN QVO CONDITVR HEROA
HEC LAVREA EIVS NATA ET EX BEATRICE
ASSORENSIVM DOMINA NATARVM ALTERA
NEPTES HIERONIMA ET LEONORA PVELLVLÆ
INSVPER ET ANTONINA BVXEMAR DNA
IPSIVS NVRVS.

________________
(1) Questa epigrafe è riportata dal PIRRO nelle Eccl. Sicil. Sacr. Cat. I lib. 3 e dal GUALTIERO nell' opera: De Antiquis Tabulis Sicilianis.

Parallelamente alla fascia superiore dell' urna, vi ha un'altra fascia inferiore, nella quale è graffita un'altra iscrizione, che ricorda il nome di donna Antonella Valguarnera, moglie di don Matteo Barrese, col quale procreò una figlia, di singolare bellezza, cui a battesimo fu dato il nome di Laura. In essa si legge:

LAVRE HIC BVSTA JACET BARRESE STIRPIS
ALVMNE. QVAM FATI INPIETAS SVBSTVLIT
ANTE DIEM. NON DAPHNIS LAVRO VATIS
NO LAVREA TVSCI. SIC CELEBRIS MAJVS
TERCIA NVMEN HABET. HEV DOLOR IN
LACRIMAS NE SOLVITE CORDA PARE(N)TES.
SI BREVIS ETERNAM CONTVLIT ARCA
DIEM BARRESIA HEC ILLVSTRIS
VIRAGO TENERIS SVB AN(N)IS ET
ADHVC VIRGO MIGRAS CONDITVR
HIC AN(N)O XPI ) MDXXXII
FORMA ET MORIBVS EGREGIIS

Chiude II sarcofago un grand'arco a sesto romano, poggiante su due mensole sostenute dai capitelli di due colonne di marmo bianco, che s' innalzano dalla base, per un'altezza di circa tre metri.
Il fronte dell'arco è adorno di fregi stile cinquecento. Sotto la volta dell'arco, che poggia alla parete, in ciascuno degli otto scomparti, (quattro da un lato e quattro dall'altro) fan risalto in bassorilievo le teste di otto cherubini, paffutelli, ed artisticamente modellati; nello scamparto di centro, anch'essa in bassorilievo, si vede una colomba raggiante, che simboleggia, probabilmente, lo Spirito Santo.
Sottostante all’arco, murato nella parete di fondo, spicca un bellissimo bassorilievo in marmo bianco, che ritrae l'effigie d'una Madonna col Bambino, cui fan bella corona un coro di nove cherubini, spiccanti fra un artistico intreccio di nuvole che li circondano.
Questo bassorilievo, che viene attribuito al Gagini, è tenuto in grande estimazione. Vi è chi asserisce che l' insieme del sarcofago sia pure opera del Gagini. Noi, invero, accettiamo tale asserzione col beneficio dell'inventario.



All'angolo della navata a sinistra, in prossimità della porta di ingresso, si scorge un elegantissimo e maestoso sarcofago in marmo verde, cosi detto cimiliano, simile a quelli che si ammirano nel duomo di Palermo.
L'urna massiccia, dal fondo ovale, poggia su le spalle di artistici leoni, dello stesso marmo, e richiama alla memoria i fasti e la grandezza della nobile benefica famiglia Barrese, salita in tanta rinomanza da meritarsi, giustamente, la benevolenza del popolo di Pietraperzia.
Il sarcofago fu eretto in memoria di donna Dorotea Barrese e Santapau, sorella dl don Pietro Barrese, che andò sposa a don Giovanni Branciforte, col quale generò un solo figlio, di nome Fabrizio; rimasta vedova, sposò il marchese don Vincenzo Barrese, ma questo matrimonio fu di breve durata, per la morte del marito. Una terza volta andò a nozze, perché fu chiesta od ottenuta in sposa dal viceré di Napoli Giovanni Zunica. Morta nel 1591 in Pietraperzia, ebbe, in quella chiesa madre, onorata sepoltura.
Una epigrafe, graffita in uno dei lati dell'urna, ricorda le virtù di questa principessa o viceregina di Napoli, che era nata dall'unione di Don Girolamo Barrese di Pietraperzia con donna Antonia Santapau, unica erede del principe di Butera.
Nell'iscrizione si dice:

D. O. M.
D. DOROTHEÆ BARRESIÆ, SANCTAPAV PRINCIPI
PETRAPERTIÆ H. PRINCIPI BUTERÆ HI VT QVÆ.
VIVENS ROMÆ ET NEAPOLI REGIAM PERSONAM
PRO DIGNITATE GESSIT, APVD REGEM REGII FILII
MOX PHILIPPI III DOMINI QVOD SVPREMVM
DECVS EST ALTERA VELVTI MATER MORIBVS ATQVE
EDVCATIONI PRÆFECTA EXCElSÆ MVNVS VIDEI
SVMMA EXPLEVIT FIDELITATE ET OBSEQVIO
MAGNOSQVE INTER HYSPANIARVM PROCERES.
NVMERATA. SVIS IDEM POSTERIS GLORIÆ,
CLARITATISQVE VESTIGIVM RELIQVIT.
MORTVA NVNC POST HONORVM TOT DECVRSUS
NEMINI SICVLORVM ANTEA COGNITOS SI NON
ILLVSTRI VT PAR HONESTO TAMEN SITA SIT
LOCO. FABRITIVS BRANCIFORTIVS, BARRESIVS,
SANCTAPAV TANTÆ MATRIS FILIVS VNICVS
PIETATIS, ET REVERENTIÆ P. ANNO MDXCI.
VIXIT. ANNIS LVIII.



Altro mausoleo di marmo a colori, in buonissimo stato di conservazione, si ammira appoggiato alla parete che vi ha tra la porta centrale e quella della navata destra. È di stile barocco, con diversi adorni di marmo a intarsiature.
Nella parete, in un quadretto anch'esso di marmo bianco, si osserva una Madonna in piedi col Bambino. La parte superiore del monumento è sormontata da un'artistica cimasa. Dall’un lato o dall'altro stanno due putti ignudi, sdraiati sulla cornice e in mesto atteggiamento, simboleggianti l'anima addolorata del popolo, che piange la morte di colui che in vita tanto bene gli aveva fatto. Nel centro si eleva uno scudo, in cui si intrecciano lo insegne delle case Valguarnera, Barrese e Moncada. La grande cornice è sostenuta da due sirene che poggiano per metà su mensole, aventi ciascuna un mascherone. Fra i due pilastrini, entro un'artistica incorniciatura, a disegni stile cinquecento, si legge la seguente iscrizione graffita sul marmo:

D. O. M.
PETRO BARRESIO PETRÆ
PERSIÆ PRINCIPI SUÆ TEMPES
TATIS EQVITVM VIRTVTIBVS
CVMVLATISSIMO EXACTIS
QVINQ, ET TRIGINTA SUÆ ÆTA
TIS ANNIS, FVLMINE DEMVM CÆ
LITVS FLAMMTO IVLLÆ. Q. MONCATÆ:
VXORI SVAVISSIMÆ TRIBVS CVMANNO
LVSTRIS POST XXXIJ SVI NATA
LIS ANNVM LVCTVOSIS
SIMÆ SUPERSTITI.

Don Pietro Barrese, ricordato dal Mongitore, dal Villabianca e dall'Amico, più che della nobiltà del suo casato, andava orgoglioso della sua cultura nelle scienze astronomiche e matematiche: e, qual benefico mecenate, proteggeva i letterati del suo tempo. Il re Filippo II, in ricompensa dei servigi da lui resi come capitano generale della milizia siciliana, gli conferì il titolo di primo principe di Pietraperzia. Mori nel 1571, e il suo corpo, dal castello ove fu sventuratamente colpito dal fulmine, fu trasportato nella chiesa madre, ove ebbe onorata sepoltura, insieme con le spoglie della moglie, donna Giulia Moncada, come ben si rileva dalla iscrizione graffita da Girolamo Mozzicato nel sarcofago di cui è parola. Cittadini e vassalli, per la morte di lui, portarono il lutto per parecchio tempo, memori dei benefici ricevuti e delle virtuose azioni di si nobile signore, che fu l'ultimo principe della sua famiglia.



La Cateva.
È una piccola chiesetta, anzi più che una chiesetta, può benissimo addimandarsi un oratorio o cappella, tenuta in pregio, perché d'antica costruzione. È attaccata, dal lato orientale, alla chiesa madre, ed ha l'ingresso dalla parte meridionale.
Probabilmente la sua costruzione si fa risalire ai primi del cinquecento. Alcuni ritengono ch'essa si sia eretta in epoca anteriore alla Madrice.
È pochissimo illuminata ed ha la volta a botte, bassissima; raggiunge un'altezza da tre a quattro metri.
Un tempo formava l'oratorio. Essa si apre al culto dei fedeli una volta all'anno, nel mese di maggio.
Tanto nella volta che nella parete di fondo, ove sta eretto un altarino, vi sono gli stucchi dorati a zecchino, grossolanamente modellati a linee incerte, di stile del cinquecento. Nel centro del secondo arco che divide l'abside dallo spazio destinato ai fedeli, in uno scomparto ottagonale, è la figura del Salvatore, dipinta su tela ed attaccata al muro.
Nella parete di fondo, di fronte all'altare, vi è un quadro raffigurante la Madonna della Stella, di rozza fattura del cinquecento.
Sull'altare si conserva alla venerazione dei fedeli un Cristo sulla croce, dipinto rozzamente su tela, e questa è attaccata alla tavola per tutta l'estensione della croce.
In mediocre stato di conservazione è un paliotto d'altare, in legno, con sculture a bassorilievo, dorate a zecchino, con figure di santi che spiccano negli spazi compresi tra le arcate che formano un insieme di colonnato alludente ai laterali del prospetto d'un gran tempio.



02 febbraio 2019

"Il Dubbio del Conte". Un Racconto di Paolo Cortesi




per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html


Aspettavano il signor conte Pellegrinetti da una decina di giorni, da quando il fattore Morini aveva annunciato la visita in modo confuso e un po' misterioso, e non si capiva se lui ne sapeva poco o se non voleva ancora dividere il suo segreto con i contadini.
Poi anche il prete, dopo la messa, cominciò a ripetere:
-Il signor conte ci farà presto l'onore di una visita.-, e il tono era festoso ma anche persuasivo, compunto e si capiva che il prete chiedeva di fargli fare bella figura.
Il conte Leopoldo nei suoi cinquanta anni di vita non era mai stato una sola volta nelle tante vaste terre che possedeva. Suo padre Urbano, morto proprio il primo giorno del 1900, aveva chiamato quel suo unico figlio al capezzale e gli aveva fatto giurare che si sarebbe interessato, finalmente, di possedimenti e palazzi, perché fino a quel momento non l'aveva fatto. Fino a quel gennaio 1900, Leopoldo Pellegrinetti non aveva mai voluto sapere niente di contabilità e investimenti, non conosceva le proprietà di famiglia e quando il padre cercava di fargliene un resoconto completo, lui si annoiava e si distraeva tanto che il vecchio aveva smesso di tentare.
-Bisogna tornare alla terra. Bisogna tenere alla terra. Perché la terra è la sola sorgente e garanzia di ogni ricchezza, morale e materiale.- diceva spesso Urbano al figlio, che una volta ribatté:
-Come faccio a tornare dove non sono mai stato?- e lo disse sorridendo, fiero della sua arguzia. Invece il padre attaccò un discorso accorato, lunghissimo, ed aveva gli occhi afflitti.
-Quel coglione si mangerà tutto in due anni con le puttane e le carte.- diceva sempre più spesso il conte padre. In effetti, Leopoldo non aveva fatto altro che questo: consumare i soldi della famiglia, vivere sul lustro e il nome della famiglia. Pareva impegnato a recitare una parte: il rampollo dissipatore, che non ha alcuna incertezza e vergogna nell'essere mantenuto e nell'evitare anche la sola parola lavoro.
Il vecchio conte aveva fatto uscire i medici ed aveva voluto a sé quello che i domestici chiamavano ancora il contino, sebbene avesse i capelli grigi e, alto e tumido, pesasse più di un quintale.
Leopoldo andò, seccato e frastornato e temendo di dover vedere il vecchio morirgli davanti.
Pensava, mentre entrava nella camera quasi buia, dove ristagnava l'aria greve e rancida delle stanze dei malati, pensava che avrebbe dovuto fare un gesto affettuoso, prendere le mani del moribondo, forse addirittura ci si aspettava che lo baciasse in fronte. C'erano lì accanto alcuni parenti, c'erano i domestici, i medici e due infermiere, c'era il prete don Fumagalli.
Lui doveva recitare la parte del figlio affranto. Il vecchio fece appena in tempo a fargli giurare che avrebbe visitato tutti i poderi che, di lì a poco, sarebbero diventati suoi.
Quando il vecchio conte iniziò a rantolare, Leopoldo scappò dalla camera, urlando per chiamare i medici che spinse dentro. Poi corse nel salotto e si buttò sfinito sul divano, e restò a guardare il quadro sopra il caminetto e lo fissò così a lungo che le Muse e Apollo cominciarono ad ondeggiare come se le vedesse dietro una fiamma.
Leopoldo aveva rimandato quanto più a lungo possibile la visita alle sue terre. Ma non poteva continuare a farlo. Aveva giurato al padre morente, e il giuramento fatto sul letto di morte è due volte sacro: don Fumagalli glielo aveva spiegato molto chiaramente. Poi glielo aveva ricordato anche sottovoce, durante la confessione.
Il conte Leopoldo Pellegrinetti arrivò dunque al suo podere Spadone nella tarda mattinata del 22 maggio 1900.
Scese dal calesse e subito il fattore Morini gli andò incontro. Il conte si asciugava il sudore sfregando irosamente il fazzoletto sulla nuca, sul mento, sulla bocca, sulla fronte. Diceva:
-Ma che caldo! Che caldo maledetto! Se sapevo che era così caldo, rimandavo questa gita all'autunno!-
Morini fece un inchino e, indicando con un grand'arco del braccio i contadini allineati, attaccò il discorso di benvenuto:
-Signor conte eccellenza, i contadini che hanno l'onore di lavorare per voi la vostra terra vi porgono il saluto della gratitudine e della riconoscenza.-
Queste poche solenni parole le aveva ideate don Fumagalli, che se le assaporava nella bocca chiusa mentre Morini le declamava affannato.
Il conte si passò ancora due tre volte il fazzoletto sulla faccia, guardò stupefatto Morini come se gli fosse apparso in quell'istante emerso dal suolo e fece:
-Eh?-
Morini riprese:
-Signor conte eccellenza, i contadini che hanno l'onore...-
Pellegrinetti lo interruppe:
-Sì sì. Grazie. Ho capito. Cosa dobbiamo fare adesso? Avete un po' d'acqua fresca?-
Il fattore fu terrorizzato: non aveva pensato alla sete del conte. Restò senza parole, con la bocca semiaperta a guardare la faccia lustra di sudore del conte, il quale domandò ancora:
-Si può bere?-
Morini si rivolse ad una donna della fila:
-Vai a prendere dell'acqua fresca per il signor conte!-
La donna, si chiamava Ada Canestri, chiese timorosa:
-L'acqua del pozzo?-
-No!- urlò il conte -Che pozzo? No! Non voglio mica prendermi il tifo! No! Niente pozzo!-
-Noi abbiamo solo l'acqua del pozzo.- rispose la donna, confusa, abbattuta, come ammettesse una colpa.
Il conte disse duramente:
-Berrò dopo, a casa mia. Vediamo di far presto.-
-Volete parlare con i contadini, signor conte?- gli domandò il fattore.
-Ma...non so... sì sì...parlo con i contadini...-
Morini e il prete avevano selezionato le persone da presentare al conte. Avevano lasciato in casa, e che non si facessero vedere, i vecchi, i malati, gli sciancati e i bambini più piccoli.
C'era una dozzina di contadini, donne e uomini, che stavano allineati sull'aia. Avevano i vestiti della domenica, ma era comunque roba che parlava di miseria e di fatica.
Il conte Pellegrinetti, abbigliato alla cacciatora, li guardava e teneva sulle labbra un sorriso che pareva ormai una contrazione incontrollabile dei muscoli della faccia.
Guardava quella gente e sorrideva, ma non c'era niente di lieto in quell'incontro a cui lo aveva obbligato il padre morente. Li guardava e, in verità, gli sembravano grosse scimmie su due zampe: erano tutti un po' curvi, con la pelle scura e opaca come cuoio, gli occhi piccoli, affossati sotto la fronte bassa e schiacciati dagli zigomi alti. Avevano occhi sperduti.
Gli sembravano veramente una specie diversa di umanità. Le mani, soprattutto, erano strane e diverse: erano grosse, anche quelle delle donne, con le dita ripiegate verso il palmo, come non potessero distenderle del tutto, con le unghie larghe.
-Come state?- domandò ad Ada Canestri.
Lei rispose:
-Bene, signor conte.-
-E cosa fate?-
-Faccio le cose in casa. Pulisco. Tengo i bambini e preparo da mangiare.-

Poi il conte si rivolse all'uomo accanto a lei:
-Cosa fate?-
L'uomo trattenne il respiro come se si preparasse ad un salto, poi rispose:
-Io lavoro la terra del signor conte.-
-E come fate?-
-Faccio...lavoro la terra... la semina, il raccolto, l'aratura, tutto...il campo e l'orto...-

A Leopoldo parve di essersi interessato abbastanza. Si rivolse al fattore e disse:
-Tutto a posto i conti? Rende bene questo podere?-
Morini si affrettò a rispondere:
-Sì signor conte eccellenza. Se volete entrare un attimo a guardare i libri.-
Il conte annuì. Soprattutto voleva andare un po' al fresco.
Quando furono dentro casa, Morini gli aprì diversi registri grandissimi, aperti coprivano tutto il tavolo. Il conte guardò un po' le righe delle cifre, che gli parvero file di formiche. Si stancò presto e, mentre Morini si atteggiava ad amministratore fedele e devoto, iniziò a guardare fuori dalla finestra.
I contadini erano ancora là allineati, perché nessuno gli aveva detto di andarsene. Pellegrinetti vide che stavano fermi, in attesa, sospesi e incerti. Sembravano tristi.
-Quanto lavorano al giorno?- domandò Pellegrinetti.
Morini fece:
-Come scusi?-
-Quante ore lavorano tutti i giorni?-
-Dipende dalle stagioni. Anche tredici quattordici ore, delle volte.-
-E come fanno?-

Morini non sapeva che dire. Poi:
-E' il lavoro. Il loro lavoro è fatto così.-
Il conte guardò la terra che si perdeva fino alla linea dell'orizzonte: era come un mare calmo denso verde e brillante. La terra era gigantesca, teneva su la volta del cielo, e certamente quei piccoli uomini dovevano sudare sangue per avere dalla terra la ricchezza morale e materiale che diceva il vecchio conte Urbano.
La terra era infinita; anche il vento più veloce non poteva percorrerla tutta. E quelle povere figurine nere si spaccavano la schiena sotto il sole per chiedere alla terra che nutrisse la gente.
Confusamente, il conte Leopoldo pensò di cominciare a capire cosa intendeva dire suo padre. Non sapeva bene come esprimerlo, ma sentiva che la terra era davvero la madre, che poteva fare ogni cosa, buona o cattiva, e che i contadini lavoravano tanto per farsela amica, per chiederle -in cambio di tanta fatica- il pane e il vino.
E quella gente, pensava disordinatamente, non erano povere bestie, come sembravano, ma erano nati come tutti, rosa e teneri, e poi erano cambiati diventando parte della terra a cui davano la loro vita. Solo adesso, vedendo i loro occhi fermi, comprendeva che quegli uomini e quelle donne, che pure lo ringraziavano, avevano una dura dignità solenne e dolorosa.
Forse, lui avrebbe dovuto ringraziare loro: non solo perché lavoravano tredici ore al giorno e facevano ricco lui, ma anche perché loro custodivano e curavano e celebravano il dono immenso eterno della grande terra portatrice di frutti. Questo pensava, assorto, quasi stranito, osservando la terra che rifletteva la luminosità del sole così intensa e piena che pareva essa fare luce.
(Quello stesso giorno, dieci ore più tardi, il conte Leopoldo Pellegrinetti era a letto con la cantante Aurora Frou Frou, che era la prima attrazione del Gran Café de Paris di Bologna, e le promise che con il ricavato della vendita del podere Spadone le avrebbe regalato l'appartamentino in Via Saragozza).




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