29 marzo 2019




Mentre riguardo sul blog di don Pino Carà “ Amici d’infanzia alla Cava”, penso agli altri momenti che hanno segnato intimamente questa mia immersione totale nel “grembo della madre”. Immancabile fu la visita, là dove riposano per sempre, alle persone care che ci avevano dato la vita, l’esempio e spianata la strada per il nostro cammino. Lo facemmo assieme con Filippo Viola, Saro e il nipote Franco nella mattinata fredda e piovosa di quel venerdì 13 aprile. La sera prima avevo salutato zia Maria Giordano e il cugino Franco, in partenza per Roma, che mi avevano aspettato per darmi le chiavi della loro casa a cui però avevo rinunciato. Con Saro Siciliano, vicini per problemi organizzativo-logistici e disponibilità di tempo, decisi a non mancare all’appuntamento, eravamo riusciti a ritagliarci sei giorni tutti per noi. Casa Siciliano ci avrebbe ospitati per quella settimana. In certi periodi della nostra giovinezza c’erano stati, tra Saro e me, momenti che “nni spartiva sulu lu sunnu di la notti,”ci divideva solo il sonno della notte; questa volta neanche quello. Ma la circostanza era segnata da un elemento di tristezza: più volte don Pino mi aveva invitato a casa sua e adesso che avevo accettato l’invito, don Pino non c’era più. Tutto però parlava di lui in quella casa, dai libri sulla scrivania e sugli scaffali, ai quadri alle pareti, al ritratto di Giovanni Paolo II in una cornice dorata, ad ogni cosa che toccavamo e usavamo: la sua caffettiera , le sue tazze, le sue posate, le sedie su cui ci sedevamo e il tavolo a cui ci accostavamo per fare colazione. Di lui ci parlavano anche i due ex ragazzi della parrocchia, Pino Carà e Giovanni Serio (che dovevo scoprire essere stato mio alunno, inizi anni ’60, durante una supplenza) che vennero a trovarci con le loro famiglie e che ci invitarono a pranzo. Spesso Saro, suo “fratello gemello” (così li chiamavano), prendeva in mano gli album (ce n’erano una decina) delle fotografie, dei fratelli , dei nipoti, delle gite parrocchiali… , che don Pino aveva con pazienza ordinato, e me le mostrava: ”questa è quando è venuto a Santena l’anno del cinquantesimo di sacerdozio…”; “ qui è quando è venuto in Italia nostro cugino dall’America…”..” Questa casa - aggiungeva - sarebbe stato desiderio di mio fratello restaurarla e metterla a disposizione dei nipoti tutti per quando avessero voluto venire a trascorrere qualche giorno al paese dei loro avi…, mi piacerebbe realizzare quel sogno”. Don Pino ricorreva continuamente nei nostri discorsi; era come se fosse con noi.
All’aeroporto di Catania, ci accolse Franco Siciliano, Ciccino, col sorriso che ha conservato sin da quando bambino raggiungeva il suo papà, da casa sua di fronte, al Circolo di cultura “V. Guarnaccia”, e ci salutava. Amico per disposizione d’animo (da tutti conosciuto, non ci sono persone in paese che egli non conosca a sua volta), Franco, benché fosse ancora lontano da li tri bbintini e ddeci, che quasi tutti della comitiva abbiamo superato, fece parte del gruppo degli “amici di sempre” - “amici per sempre” e per tutto il periodo del soggiorno fu il nostro angelo custode: ci lasciavamo la sera per ritrovarci il mattino quando lui arrivava in Via Nazario Sauro, dalla sua casa di Piazza V.E., e noi l’aspettavamo per il caffè. In tre ci muovevamo come un corpo solo e lui ne era il motore, non solo metaforicamente: sicuro e prudente nella guida, sempre pronto e premuroso, con la sua Opel stagionata risolvette ogni esigenza di spostamento dentro e fuori Pietraperzia.
Fin dalla sera del nostro arrivo al paese fummo ospiti a cena  della famiglia di Lillo e Giannina Maddalena. L’invito si estese ai giorni successivi e tutto avvenne all’insegna della più autentica sicilianità. Benché non avessimo avuto tante occasioni di frequentazione fui accolto nella loro casa e alla loro tavola come uno della famiglia e la loro ospitalità fu così immediata e serena che io mi sentii leggero, e senza disagio od imbarazzo, accettai le loro premure, come fossi a casa di fratelli. Alla gentilezza e finezza di modi la signora unisce grande perizia culinaria e furono primizie genuine e piatti tipici, preparati con gusto, quelli che ci offriva ogni giorno diversi: oltre ai tradizionali primi piatti, Pasta ccu li finucchjiddi rizzi e la muddica, anellini ccu la ricotta frisca, frittate di mazzareddi …, tutto quello che la cucina nostrana ha di meglio e di particolare, fino alla mousse di ficodindia, una specialità. Ascoltare Lillo che ci parlava con pacatezza e chiarezza era come ascoltare i discorsi di lu zi’ Peppi Maddalena, tanto il suo tono di voce e il ritmo richiamano la parlata di suo padre. Lillo, mentre ci riempiva i calici di Nero d’Avola, vantava la qualità del pane siciliano, pane di semola fatto di farina di grano duro e , ad una nostra richiesta circa il pane integrale oggi molto diffuso ci spiegava, da esperto, che dai filtri di diversa gradazione usati nella molitura del grano si ottiene la farina per il pane integrale e non dalla mescolanza di farine con crusca come è, spesso, quello in commercio. Di fronte alla coppia così affiatata, spontanea mi veniva in mente quella pillola di saggezza degli antichi “Nuddu si piglia si nun s’assumiglia.
I momenti in cui mi allontanai dal gruppo fu per rispondere ad altre esigenze affettive che mi chiamavano. Parenti stretti, altri amici, i miei figliocci. La dolcezza e l’amabilità di quegli incontri conservo nel mio petto. Una capatina in solitaria, non potei esimermi dal fare in via 4 novembre, (ma la curiosità mi spinse anche nelle adiacenti “vie dell’infanzia”) che attraversai per tutta la sua lunghezza dalla via La Masa all’incrocio con la discesa Rosolino Pilo; unico e solo passante con i miei pensieri le attraversai quel pomeriggio. Fu grazie a Biagio Messina (da quando ci siamo ritrovati, nel 2005, considero Biagio e la sua sposa Filippina miei figli adottivi e mia nipotina la piccola Sara), che riuscii, dopo il pranzo di San Vincenzo, ad andare a trovare, ad Enna, don Filippo Marotta, nella sua Parrocchia di San Tommaso Apostolo, che ancora non conoscevo. Lo ringrazio pubblicamente per l’interessante “Antologia delle tradizioni popolari, degli usi e dei costumi, delle espressioni dialettali e degli autori di opere in vernacolo di Pietraperzia” che ci ha regalato.
La mattina di martedì 17 aprile, pronti per ripartire, mentre Franco al furgoncino di un ortolano che sostava all’incrocio di via Stefano Di Blasi con via Sabotino, stava comprando mazzareddi e cicoria di campagna da portare alla sua mamma a Catania, avemmo la fortunata occasione di salutare ancora una volta i coniugi Maddalena che tornavano già dalla campagna e Peppino Rabita che invece vi si stava recando. All'aeroporto di Catania, l’aereo della Wind-jet che da Torino ci aveva fatto partire dopo due ore e più dall’ora prevista, questa volta fu puntualissimo. Un ritardo analogo sarebbe stato oltremodo gradito.




Ritorno nel grembo materno

(dedicata ai coniugi Giannina e Lillo Maddalena

Maestoso
si erge Mongibello
e spande sulla piana riflessi azzurrini.
Balsamo al mio cuore
attorno si diffonde
l’aroma di zagara e di eucalipto
di questa terra di miti.
Mi accoglie
con l’abbraccio di vecchia nutrice
la puntara di li Minniti;
vigile mi sorride la rocca di Petra.

Le strade che percorro
ancora conservano impronte.
che non ignoro,
facile si aprono un varco
e prendono corpo
echi di ricordi lontani.
Rivivono atmosfere passate
nelle oneste premure degli ospiti
e in queste nostrane primizie
con cui fanno tutt’uno:
frutto di avita cultura.





22 marzo 2019

Malato: Un Racconto di Paolo Cortesi





per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html


Mario non scorderà mai per tutta la vita la faccia che aveva il medico quando gli disse che suo figlio aveva la tubercolosi.
Il medico aveva la finestra alla spalle; il sole era basso sull’orizzonte; i rami di un grande albero erano neri contro la luminosità larga e forte della palla di fuoco fermo. La luce attraversava le orecchie del medico, che apparivano perciò rosse, traslucide, come spellate e venate di lampi di sangue.
Tutta la testa del medico era scura, come i rami dell’albero là fuori.
C’era quella testa nera, con un ciuffo di capelli storti; le orecchie rosse e opalescenti: il malato sembrava il medico, non Attilio.
E invece il ragazzino era a letto, sotto le coperte che la madre gli tirava fin sopra il mento. Coprirlo bene, e tenerlo ben coperto, era la sola cosa che lei poteva fare per credere di essere utile al figlio; così gli stava seduta accanto al letto; teneva le mani posate sul grembo e le muoveva – subito – appena Attilio scostava un po’ il lembo della stoffa che lo avvolgeva.
Il medico scrisse la ricetta, che posò sul tavolo. Disse che ci voleva aria sana e tanto sole, aria asciutta. La montagna, ci voleva. Montagne alte e al sole.
Attilio (che fissava medico e genitori come figure sconosciute che non avrebbe mai più incontrato) Attilio pensò che sarebbe andato in montagna e fu contento, ma segretamente.
Mario accompagnò il medico alla porta. Tornò indietro presto, perché la stanza era una sola e la porta era quasi davanti al letto.
Mario guardò la moglie Elvira, non era nemmeno triste perché le notizie brutte, anche le più brutte, non ti schiantano quando le aspetti da tanto, ma ti seppelliscono vivo solo un po’ di più, e che differenza fa stare sotto tre metri di terra invece che due?
Che differenza fa?
Mario guardava la moglie: lui e lei apparivano stanchissimi. Attilio temeva che si arrabbiassero con lui, perché era malato e sapeva – lo sapeva da anni – che le medicine costano, e se il medico Frisoli era buono e non si faceva pagare, invece la cura in montagna sarebbe stata troppo costosa.
Restarono tutti e tre zitti per diversi minuti, finché Attilio non decise di dare un colpo di tosse.
Allora il padre si alzò dalla sedia; sembrò scavarsi una nicchia nell’aria diventata all’improvviso, misteriosamente, grossa e pesante. Disse alla moglie:
-Allora io vado.-
Era come un segnale, come l’inizio di una cosa preparata da tempo. Attilio ebbe un po’ paura; temeva che andasse a prendere dalla zia la siringa, per fargli fare le iniezioni.
Ma il tempo passava e il padre non tornò. Attilio si addormentò, perché nel letto faceva caldo; stava disteso e immobile.
Quando si svegliò, vide il babbo seduto dove stava prima di uscire; ora leggeva a sua moglie un pezzo di carta; era una lettera, su un foglio bianchissimo, con le pieghe ben dritte. Mario lo teneva in mano con delicatezza e quasi con timore, come si fa con oggetti fragilissimi.
Leggeva a voce bassa, per non svegliarlo, ma ora Attilio ascoltava:
…che come un buon padre tanto ha a cuore la salute della fresca giovinezza d’Italia. Duce, a voi ricorrono con illimitata speranza due poveri ma onesti genitori, che non possono permettersi le costose cure per ridare la salute al loro amato figlioletto. Un vostro cenno, Duce, e la benefica volontà vostra dispiegherà gli effetti della…
Attilio ascoltava con attenzione perché era un po’ preoccupato. Non aveva mai sentito suo babbo parlare così, né lo aveva nemmeno sentito leggere, e non capiva il significato di quelle parole, che erano belle, suonavano bene, molto diverse e importanti; erano parole – si sentiva – scelte bene e messe assieme molto bene. Sembrava di sentire il prete quando faceva la predica, ma erano parole più strane, anche un po’ più importanti, almeno così pareva.
Mario vide che il figlio si era svegliato. Lo guardò un istante e lesse a voce appena un poco più alta:
…i sottoscritti genitori osano sperare che la bontà vostra…
La mamma volse la testa verso Attilio; gli sorrise. Sembrava sempre sfinita, come immobilizzata da un peso troppo grande.
Mario concluse la lettura. Posò la lettera sul tavolo con ogni riguardo; la moglie prima si sfregò le mani sul grembiule, controllò che fossero pulite poi prese il foglio con una delicatezza di cui Attilio fu quasi geloso.
Stava leggendo; lo si vedeva dal movimento delle pupille che andavano e venivano.
Poi disse:
-Scrive bene. Scrive proprio bene il figlio della Velia.-
Mario annuì.
-Mi voleva dare anche la busta e il francobollo, ma io ho detto di no. Sembrava che ci approfittassimo.-
-Hai fatto bene.-
-Adesso vado a prendere la busta col francobollo.-
Si alzò e mise la mano in tasca. Contò il denaro. Erano monete nere, consunte, lustre.
Mario guardò il figlio e gli fece un gesto con la mano, lo salutava.
Attilio tirò fuori la mano dalle coperte e salutò il padre.




13 marzo 2019

Una grande rimpatriata



Mentre dal trenino della linea Lanzo- Ciriè-Torino, che mi riporta a casa dall'aeroporto di Caselle dopo il soggiorno a Pietraperzia, vedo in lontananza la famosa Basilica che si erge sulla collina di Superga, ho la sensazione di non avere mai fatto questo viaggio. Eppure, anche se per lo spazio di un più lungo week-end, ero stato al mio paese, rivisto gli amici e i luoghi dei primi affetti. Pochi giorni volati come un lampo, ma ne ritornavo gratificato e arricchito. Com'è strano, pensavo: quando eravamo bambini e non vedevamo l’ora che arrivasse il giorno della realizzazione di una promessa fattaci, ci sembrava che il tempo non passasse mai; ora abbiamo l’impressione che una cosa, un progetto, un evento l’hai appena immaginati che sono già realizzati e passati… e la cosa ti lascia l’amaro in bocca. “Presto giunge e passa il dì festivo”. Man mano che gli anni avanzano ci si rende conto che nel troppo breve spazio di tempo che ci è concesso dobbiamo cercare di concentrare un ampio spazio di aspettativa e di speranza: vivere intensamente in una settimana la vita di un anno. Così è stato per questa grande rimpatriata. Programmata e organizzata da Giovanni Culmone l’idea era stata accolta con entusiasmo da tutti, quanti parecchi anni addietro eravamo stati compagni di giochi, di scuola, di collegio o di istituto scolastico, colleghi, …legati comunque da amicizia. Tutti avvertivamo il bisogno di rivederci, più volte ce l’eravamo detto nelle ricorrenti telefonate, aspettavamo che qualcuno di noi prendesse un’iniziativa stringente. Così quando ci arrivò la email o la telefonata di Giovanni l’invito suonò come una “proposta che non si poteva rifiutare”. L’adesione fu immediata in qualunque posto d’Italia ci trovassimo, nelle più vicine città della Sicilia, in Lombardia, in Piemonte o a Cividale del Friuli. Arrivammo alla spicciolata. Alcuni, considerando che la data programmata per l’incontro capitava pochi giorni dopo le feste pasquali, giunsero al paese prima del venerdì santo per partecipare alla processione di “Lu Signuri di li fasci” e alle altre, non meno suggestive, che completano le solenni celebrazioni della Pasqua pietrina; altri il giorno prima della data prevista, altri ancora lo stesso giorno per trascorrere anche solo poche ore con gli amici e ritornare la sera stessa al luogo di residenza; con alcuni, dei quali le circostanze non furono favorevoli alla partenza, condividemmo la delusione di rimandare ad altra occasione il piacere di rivederci.
“L’adunata generale” era prevista sul sagrato del Santuario della Madonna della Cava ma a causa del pomeriggio freddo e ventoso gli incontri avvennero per lo più all'interno del santuario e in sacrestia. Gaetano Milino, mano a mano che entravamo in chiesa, andava registrando i nostri nomi sul suo taccuino di reporter. Fu affettuoso ed emozionante l’abbraccio tra chi non si vedeva da più di cinquant'anni. In qualche caso il riconoscimento non fu immediato ma, superato il dubbio grazie all'accenno di un minimo indizio, fu motivo di un ulteriore più sentito abbraccio. La lontananza e il tempo se avevano in parte modificato qualche tratto del viso non avevano affievolito, anzi rinforzato, il reciproco affetto. La Santa Messa, celebrata da monsignore G. Bongiovanni, anche lui uno di noi, fu seguita con raccoglimento e partecipazione. Letta per tutti da Giovanni Culmone, con grande commozione facemmo nostra la preghiera alla Madonna della Cava, del compianto Angelo Giadone, in cui non mancava il ricordo degli amici che ci hanno preceduto nella casa del Signore. Attraverso la strada tra gli uliveti raggiungemmo, dopo la Messa, la villa di Lillo Speciale dove, a gruppetti intercambiabili, proseguivano tra gli “amici di sempre” i racconti vicendevoli di eventi della vita e la presentazione delle signore di alcune delle quali se ne erano, molti anni prima, conosciuti i nomi dai biglietti di partecipazione al matrimonio. Mentre i padroni di casa si prodigavano a servire stuzzichini, tartine, brut dolci e strasecchi, aperitivi vari e grappe invecchiate, Filippo Viola ci divertiva raccontandoci episodi curiosi del tipico ambiente popolare palermitano che trasformava in vere e proprie barzellette. Filippo ci ricordava anche che cu veni a lu pajisi e nun-parla pirzisi, cci perdi la facci e cci appizza li spisi”. Lasciata Villa Speciale la compagnia si trasferì al Belvedere, nella parte alta del paese dove un ampio spazio, una volta sede di sterpaglie e dirupi, era stato trasformato in passeggiata panoramica che amplia e valorizza l’area turistica del Castello. Il Belvedere si affaccia, infatti, sulla Riserva Naturale della Valle dell’Imera (territori di Caltanissetta Enna e Pietraperzia) tra le più importanti della Sicilia, e ne consente una splendida vista. Il freddo qui era più intenso che nella Pietraperzia Bassa. Solo un’occhiata rapida potemmo rivolgere verso le luci accese di Caltanissetta per rifugiarci all'interno del locale ristorante dove eravamo attesi per la cena conviviale. Per il gruppo della storica rimpatriata il menu appositamente preparato prevedeva pietanze delle tradizioni culinarie pietrine; sensazioni di tempi passati evocavano soprattutto i primi piatti: cavati ccu li finucchjiddi rizzi e la ricotta frisca, pasta ccu li favi nuveddi…   Il vento nordico che spirava all'esterno non era avvertito all'interno dove il calore della gioia di stare insieme era palpabile. Nel corso della cena Gino Palascino volle informarci su come, durante uno dei suoi mandati di sindaco, era sorto il Belvedere. Interpretando, con una certa forzatura, come larvata disponibilità al finanziamento alcune parole del ministro dei LLPP dell’epoca, Prandini, in visita a Pietraperzia, egli era riuscito ad ottenerne una esplicita promessa, poi mantenuta, che aveva consentito la realizzazione dell’opera. Gianni Culmone, entusiasta per la riuscita della sua iniziativa, ringraziava tutti e per rimarcare il carattere di piena “pirzisità” dell’evento invitava gli autori, Filippo Viola e Salvatore Giordano, a recitare le due poesie in dialetto “Lu torcicuddu” e “Littra a lu me pajisi”. Ci si salutò all'interno del locale, alcuni dovevano fare ritorno in serata al luogo di residenza, Catania, Enna, Caltanissetta, tra tutti la promessa di non far trascorrere più tanto tempo al prossimo incontro. 


Salvatore Giordano





I nomi dei partecipanti alla rimpatriata :
Giuseppe Bonaffini, Antonino Calì, Rosaria Candolfo, Francesca Cilano, Giovanni Culmone, Diego Di Marco, Filippina Emma, Giuseppe Fallica, Filippo Falzone (alias Alberto Adamo), Totò Falzone, Maurizio Fiandaca, Lilia Filetto, Concetta Giglio,
Salvatore Giordano, Gisella Lamia, Antonietta Lipani, Costanza Messina, Filippo Messina, Enzo Paci, Vincenzo Paci, Luigino Palascino, Isabella Panevino, Ciccino Siciliano, Rosario Siciliano, Lillo Speciale, Filippo Viola, Pino Viola, Vincenzo Viola, Francesco Zappulla, Maria Zappulla, Salvatore Zappulla.
Il ringraziamento di Culmone agli amici è stato esteso “come se fossero presenti”, ai cappuccini:
Padre Gaudenzio, Padre Celestino e Padre Cosimo.




07 marzo 2019

La sarta di Maria Antonietta Memorie di Rose Bertin




Diventare “ministra della moda” di una regina non è cosa da tutti ma è quello che accadde a Rose Bertin. Nata il 2 luglio 1747 ad Abbeville, da una famiglia appartenente alla plebe, debuttò come una delle tante modiste di Parigi prima di essere notata dalla Regina di Francia e diventare la prima stilista della storia.
Spettatrice degli intrighi di corte e molto vicina alla regina di Francia, passata alla storia per diversi scandali primo fra tutti “l’affare della collana” che vide protagonisti Jeanne de Valois, insieme al conte di Cagliostro e al cardinale di Rohan ordire un piano ai suoi danni per ottenere denaro e potere. Questo episodio fu uno degli artefatti che portò alla Rivoluzione Francese che vide la disgraziata regina morire decapitata.
Rose Bertin lascia ai postumi queste memorie per difendere la persona di Maria Antonietta accusata di condurre una vita molto costosa anche per una regina. Siamo sempre stati abituati all’immagine di una Maria Antonietta trasfigurata nei film come ragazza viziata, dedita alla bella vita e incurante delle necessità del suo popolo.
Rose Bertin vuole portare alla luce un’altra immagine della regina, quella di madre dolce, familiare e ben consapevole delle sue responsabilità di regina, anche se il critico Giuseppe Scaraffia fa luce sul fatto che la sarta abbia volutamente omesso dei particolari nel suo racconto.
Siamo di fronte ad un romanzo che si legge anche in un solo giorno per il suo scorrere fluido e che in qualche modo ci regala un’immagine che forse in molti non conoscono della regina Maria Antonietta, quella di donna che si ritrova al centro di un mondo più grande di lei fatto di intrighi e sospirazioni.

Ilaria Matà






01 marzo 2019

PIETRAPERZIA NEL PALLONE


Non esisteva altro che il calcio: "LU PALLUNI". Il termine calcio non aveva ancora passato lo stretto, non c'era la TV e la radio si ascoltava poco. Parlo di fine anni 50. A quei tempi, la domenica, come tanti, andavo con mio padre a vedere la partita. Molti andavano al cinema. Il campo sportivo non era chiuso, non c'era la tribuna e non c'erano nemmeno gli spogliatoi.


Tutti i calciatori, si spogliavano sotto la tettoia d'ingresso “di lu consorziu", attuale Giaconia. L'arbitro con un fischio serrato, guidava le due formazioni al centro del campo. Non essendo recintato, uomini, donne e bambini, formavano un cordone a bordo campo si può dire che delimitavano il campo stesso. L'immancabile presenza dei carabinieri assicurava giocatori e spettatori da eventuali risse. Spesso, dentro e fuori dal campo, l'agonismo e il protagonismo sfociavano in risse furibonde, che a me, bambino incutevano paura. C'erano  anche momenti che si rideva molto, specialmente quando qualcuno non colpiva bene la palla o quando in molti ruzzolavano a terra in una mischia.
Pronti ... via. Ha inizio l'incontro... Ricordo bene, in mezzo agli altri, un giocatore dalla stazza fisica particolare. Non alto, non snello, anzi! Giocava titolare, nel ruolo di terzino destro, allora ogni giocatore aveva un RUOLO, oggi si gioca a ZONA... bbuhh!
Una volta iniziato l'incontro, il suo diretto avversario, che allora si definiva "ala sinistra", si può dire "ca nu si vidiva cchiú lustru ". Veniva braccato per tutto il tempo, tipo sorvegliato speciale, giocava d'anticipo e la cosa più impressionante, che stupiva tutti, era l'elevazione da terra quando colpiva di testa. Tirava più forte di testa che con i piedi. Parlo di Vincenzo Romano, "lu Villiri", che purtroppo non c'è più. Dopo anni ho avuto modo di conoscerlo meglio. Vincenzo Romano era un signore dentro e fuori dal campo.


Le cose della vita sono strane, anni fa, sono venuto in possesso di queste foto in cui è possibile vederlo in azione proprio mentre salta di testa, in posa con la squadra e col portiere Gaspare Celesti. Agile e preciso si stacca da terra e...


Enrico Tummino