30 aprile 2019

"CAMPANA" di Paolo Cortesi




per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html

Dino Campana l'altro giovane favoloso
Dicevano che era matto. Io, che lo vidi e ci parlai due volte, non so dire se lo fosse davvero: so soltanto che mi sembrava sempre o più saggio di ogni saggio, o più folle di ogni pazzo; ecco: un uomo eccezionale, che rivelava poco di sé e forse nascondeva il meglio. Certo, questo - forse- vuol dire essere matti, ma la sua pazzia (se pazzia fu davvero) era luminosa e forte, non tetra e muta e crudele come la pazzia che disperde le parole, spegne lo sguardo in una lucentezza dura di bilia.
Lo incontrai la prima volta che la terra fumava d'una nebbia opaca e lenta. Sembrava, la terra, un gigantesco animale nero dal cui dorso saliva un vapore biancastro, come si vede sulle schiene dei cavalli dopo un lungo galoppo. Era una bruma opaca, lattiginosa, che stratificava in bande più spesse attorno a cespugli e tronchi neri, e diradava fino a sparire, creando un varco che lacerava quella misteriosa tela aerea.
Pareva, anche, che la terra respirasse, che da lei salisse a un ritmo sconosciuto quel respiro che prendeva forma visibile d'una brina fluttuante nell'aria.
Eravamo a Casetta di Tiara, l'autunno incupiva, veniva vento freddo dalle cime delle montagne e le nuvole erano grosse e scure, piene di pioggia.
Io, a quel tempo, volevo fare il pittore; ero giovane, ero ingenuo, e credevo che la nostra vita sia veramente nostra. Non è così. Ho imparato, con dolore, che la nostra vita è quello che ci lasciano vivere gli altri, quelli che decidono, che comandano, che hanno i soldi e vivono come vogliono; quelli che dicono sempre "eh, la vita è fatta così, bisogna accontentarsi"; ma loro, invece, non si accontentano di nulla che non sia ciò che a loro piace.
Insegnano la rassegnazione e la pazienza, ma loro -i signori, i ricchi, i padroni- non farebbero mai nulla di quanto dicono agli altri: non vogliono nient'altro di ciò che decidono per sé.
A quel tempo, io ero giovane e sognavo di fare il pittore. Mi dicevo: "sono bravo, ho studiato, l'arte è una cosa nobile e bella, perché non potrei fare il pittore?". Ero giovane e sprovveduto, credevo che uno avesse tutto il diritto di scegliersi la vita che vuole; mentre invece non è così; per noi, non è così.
Ero andato ad abitare per l'estate in una casa di pietra che mi aveva affittato una vecchia zitella.
Avevo una camera con appena un letto, due sedie e un tavolo, ma ero molto felice e sentivo che lì un pittore poteva lavorare molto bene. D'estate uscivo al mattino presto, subito dopo essermi lavato la faccia nel catino di smalto. Il monte brillava dentro la luce del sole che saliva; era come attraversato dal chiarore che si dilatava in un polverio infinito di schegge di luce bianchissima.
Portavo il cavalletto e la tela e la scatola dei colori e pennelli. Era faticoso e spesso dovevo aggrapparmi agli alberi per issarmi, per non scivolare. Ricordo ancora la superficie ruvida, come arsa, dei carpini.
Un'altra cosa bellissima di quei giorni lontani è il profumo dell'olio di lino che si mescolava con l'odore della terra calda brulicante, delle foglie che splendevano al sole come cocci verdi delle bottiglie. Era tutto caldo e quieto, e io sentivo ronzare gli insetti che non si vedevano.
Dipingevo tutti i giorni, per diverse ore, ed ero molto felice. Non sapevo che era tutto inutile e che non sarei mai stato pittore, ma in quel tempo ero così felice, tanto ingenuo e ancora sicuro che ciascuno potesse essere ciò che si sentiva dentro.
Adesso che ci penso, forse il matto mi aveva visto molto tempo prima, perché lui nel bosco ci girava come se fosse tutto suo: si muoveva non solo con sicurezza (anche i montanari del luogo sapevano tutti i sentieri), ma anche con una certa franca scioltezza, direi con eleganza.
Io non lo vedevo, ma lui certo vedeva me, ma non volle mostrarsi. Non credo che si nascondesse, credo anzi che non temesse nulla da un pittore, ma evidentemente non voleva ancora farsi vedere.
Passò l'estate; era l'estate del 1916 e la gente che mi vedeva di certo si domandava perché mai quel giovane non fosse andato alla guerra, e io ormai non mi curavo più di far sapere che ero tisico, come se dovessi giustificarmi del fatto che non ero ancora morto, perché così dovevo finire: morto d'uno sputo di sangue o morto con una palla in testa, così dovevo finire, per la gente.
Arrivò l'autunno; io vivevo ancora nella piccola casa di pietra; passava meno gente per il sentiero davanti alla mia porta. Gli alberi si fecero più sottili e persero ogni colore, diventando segni neri scomposti che solcavano il cielo fumoso. Tutto divenne più silenzioso.
Un mattino - ricordo che era un sabato - ero andato a fare schizzi al torrente Rovigo: volevo cercare di ricreare l'effetto di trasparenza senza riverberi dell'acqua sotto il cielo bianco. Ero troppo ambizioso, a quel tempo; come tutti i giovani inesperti sapevo trovare belle idee ma non avevo la forza per realizzarle. Me ne stavo intirizzito, sentivo che non riuscivo a disegnare ciò che avevo pensato, ma volevo ostinarmi, insistevo, convinto che con uno sforzo più intenso avrei ottenuto ciò che desideravo.
Non l'avevo visto arrivare, così, quando parlò alle mie spalle, ebbi uno scossone, terrorizzato, e mi si spezzò il respiro.
Lui disse con voce molto bassa:
-Fate male ad intestardirvi.-
Io fui sorpreso non solo del fatto che quello era arrivato come una foglia caduta da un ramo, ma ancor più perché pareva avermi osservato a lungo, abbastanza a lungo da vedere la mia ostinazione senza successo.
Dissi qualcosa sulla difficoltà dell'effetto di luce che cercavo di rappresentare e lui rispose:
-Voi cercate l'inessenziale, per questo fallite.-
Capii che così non parlava un contadino.
-Anche voi siete pittore?- gli domandai.
Mi volsi verso di lui. Era un uomo giovane, non alto, massiccio, aveva la faccia larga, occhi chiari e capelli rossicci, baffi e barba un poco più scuri. Stava a braccia conserte sul petto e teneva le gambe una davanti all'altra, quasi cercasse un migliore equilibrio, come un marinaio sulla tolda quando il mare è mosso.
-Sono poeta.- rispose -Sono l'ultimo poeta barbarico.-
Non mi stupivano i tipi bizzarri: ne avevo conosciuti tanti fra i miei amici pittori.
-Voi siete barbarico?- gli chiesi molto incuriosito.
-Sissignore. L'ultimo dei germani. Nella mia anima alberga la purezza originaria della parola.-
-Attento a parlare di germanici, amico mio. Con questa guerra non è bene dire certe cose.-
Il giovane sbarrò gli occhi e mi fissò sbalordito.
-Voi siete un poliziotto?- mi domandò.
-Ah no! No, proprio no!-
Fece due tre passi indietro; ora la sua straordinaria agilità e il suo perfetto equilibrio sulla terra scoscesa erano diventate una postura incerta, e lui s'era come ingobbito, curvato sotto un peso invisibile.
-Ah cane!- esclamò agitando le mani -cane d'un italiano! cane d'una guardia! cane d'uno sbirro!-
Scappò via; lo sentii parlare da solo.
Firenze, quando c'è il sole, diventa grandissima e leggera.
I palazzi, che pure sai essere enormi masse di mattoni e marmo e pietra, sembrano così lievi che il vento potrebbe farli ondeggiare, come grosse foglie. E le facciate delle case, delle chiese rimandano la luce, che si moltiplica, schiarendo, in un quieto vortice di luminosità e scintillii abbaglianti.
Quando c'è il sole, Firenze diventa calda come una mano che tocca il forno. E', infatti, un tepore pieno e sano di cosa viva, che fa star bene, che rassicura e conforta.
E la gente a Firenze, quando c'è il sole, è più serena e sembra assorbire nel corpo il calore vitale che scende dal cielo brillante, che sale dalle strade.
In quei giorni, ero tornato dai monti del Mugello. Non sapevo più niente di me: se ero o no pittore, se avrei potuto vivere della mia arte, se ero o no felice. Ero giovane, mi illudevo di poter giudicare e vivere la mia vita, e solo la fatica e l'amarezza mi hanno fatto piegare la testa e fissare la realtà, e capire che noi tutti siamo anelli di una catena di cui non vedremo mai le estremità.
Ero andato a Firenze, quell'estate del 1917, con gli ultimi risparmi rimasti. Pochi giorni ancora e non avrei avuto di che pagare vitto e alloggio e vestiti: la tassa sull'esistenza. In quegli istanti di accettata incoscienza, andai al caffè delle Giubbe Rosse; mi dicevo: se fra poco sarò un barbone sotto il Ponte alle Grazie, tanto vale che mi conceda adesso, finché ho tre lire in tasca, un po' di piacere, un po' di lusso. E questa mia decisione -che riconoscevo stupida e inutile- mi dette un po' di coraggio.
Entrai al caffè e subito mi avvolse una frescura di caverna. C'era tanta gente e io guardai tutti con curiosità, quasi con cura: guardavo e mi dicevo "ecco, vedi, questi sono tutti più fortunati di te e quando torneranno a casa troveranno una bella famiglia, i domestici premurosi, i guanciali soffici".
Sedetti al tavolo più vicino all'ingresso, così da poter guardare il passeggio nella piazza che si apriva davanti alle vetrine e all'ottone delle Giubbe Rosse. Chiamai il cameriere e quello arrivò subito, ma restò un attimo perplesso vedendo le mie scarpe sporche e il mio vestito liso. Presi di tasca i soldi, li passai nell'altra tasca solo per farglieli vedere (e questo mi pare lo tranquillizzò) e dissi con finta noncuranza:
-Per piacere, favoritemi una birra ghiacciata.-
Il cameriere fece un cenno con la testa, che non mi parve lo stesso inchino che faceva agli altri clienti -quelli vestiti bene-, ma piuttosto un assenso. Aspettavo la birra e guardavo fuori; non pensavo a niente, non volevo pensare perché il pensiero è il peggior nemico di chi è povero.
La gente che camminava nella piazza mi sembrava, tutta, tranquilla e sazia, pareva che tutti avessero un posto da raggiungere in fretta, un posto in cui ciascuno sarebbe stato bene. All'improvviso apparve davanti a me, oscurando la visione della piazza, un uomo.
-Mi riconoscete?- domandò a voce un po' troppo alta. Alzai la testa e lo guardai sorpreso.
Mi parve di averlo già visto, ma non riuscivo a capire, a fissare l'idea.
L'uomo mi fissava e sorrideva, aveva lo sguardo divertito dal mio stupore. Riconobbi gli occhi chiari e accesi, i capelli rossi e scomposti.
-Ah ma voi siete il poeta della montagna!- esclamai alzandomi in piedi.
Lui rise forte e la gente si girò a guardare. Diceva:
-Il poeta della montagna! Sì! Sono il poeta della montagna!-
Si sedette al mio tavolino senza aspettare che lo invitassi. Mi chiese cosa facevo a Firenze e io gli dissi un po' di me.
-Non è importante essere un grande artista.- fece lui -Ciò che conta davvero è essere un puro artista.-
-Dite bene, voi. Ma anche il puro artista mangia e veste panni.-
-Lo so.- rispose duramente, forse deluso dalla mia osservazione.
-E come pago l'affitto di casa? Con i quadri?- continuai, quasi incattivito.
-Arte e soldi non hanno niente in comune. Si escludono a vicenda come la luce e il buio. Dovete scegliere: o arte, o soldi.-
-Sì, capisco. Ma se muoio di fame, la mia arte finisce lì.-
-Sbagliate: l'arte è la sola risposta dell'uomo alle pretese della morte.-
-Questo lo credevo anch'io.- dissi -Ma adesso non la penso più così. L'arte deve comunicare, deve aprirsi al mondo, deve essere di tutti; se no non esiste. L'arte chiusa nel cassetto non è arte.-
-Ma non può essere neppure un mestiere.- ribatté il mio interlocutore- Il muratore deve obbedire al capomastro; il falegname deve accontentare chi gli chiede un armadio. L'artista non può avere un padrone e dunque non può avere un mestiere.-
-Eppure ci sono grandi artisti pieni di soldi.- dissi.
L'uomo non rispose; affondò la destra sotto la maglia e ne estrasse un libriccino sottile, con la copertina d'un giallo sbiadito.
Me lo porse e io lessi il nome di Dino Campana e il titolo "Canti Orfici".
-Avete una lira e mezza?- mi chiese il giovane uomo, porgendomi il librino.
-Ne ho tre in tutto e devo pagare la birra.-
-Datemi allora una lira.-
Nella voce di quell'uomo sentivo una trepidazione dolorosa.
-Forse è meglio se offrite il vostro libro ad un altro.- dissi.
Temevo che quel tipo strambo avrebbe insistito, magari avrebbe gridato; invece Campana non ebbe alcuna reazione.
Ora, penso che egli era abituato a certi rifiuti e non gli facevano più male.
Ripose il libro sotto la maglia, disse "buona fortuna" e se ne andò.
Uscì dall'ombra del caffè e, sulla piazza, fu avvolto dalla luce polverosa che fece più sottile la sua figura. Lo guardai andare verso via degli Strozzi. Camminava pestando i piedi, con le braccia pesanti lungo i fianchi, come fanno i montanari, come andando contro un vento sempre contrario.





26 aprile 2019

Invito alla lettura: Il veleno dell’oleandro di Simonetta Agnello Hornby





Dopo avere letto la trilogia La Mennulara, Boccamurata e La zia Marchesa, “Il Veleno dell'oleandro” non si scosta nello stile e nelle tematiche sempre riproposte dalla nostra autrice. Una scrittura sapientemente resa scorrevole con le colorite descrizione di personaggi e luoghi di una Sicilia immaginaria. Luoghi immaginari ma che emergono reali alla mente di ogni siciliano che se ne è allontanato e le rivive con nostalgia.
Una scrittura sempre elegante anche nei piccoli dettagli descrittivi che danno forma e piacevolezza ai suoi romanzi.
Il racconto “Il veleno dell’oleandro” è ancora la narrazione drammatica di una grande famiglia: i Carpinteri, che nel groviglio delle passioni morbose, delle rivalità, dei segreti gelosamente custoditi, degli amori clandestini l’autrice intreccia con la consueta maestria sentimenti e risentimenti, sapendo creare momenti di vera suspance.
Bede Lo Mondo, un giovane bellissimo, viene accolto nella sua adolescenza dalla famiglia benestante dei Carpinteri, che gli dà la possibilità di studiare e di crescere nella loro tenuta de Ceuta a Pedrara.
Bede rimarrà fedele tutta la vita ad Anna, la padrona della tenuta. Accudirà devotamente Anna, ormai vecchia e malata di una forma di demenza fino alla sua morte. Un rapporto ambiguo ha legato Anna e il molto più giovane Bede.
L’incontro con i figli Luigi, Giulia, Mara e i parenti, accorsi al capezzale di Anna accende vecchi rancori famigliari, vecchi amori, storie di tesori nascosti, passaggi segreti. Anche i rapporti con la famiglia di Bede: i Lo Mondo, e una setta segreta, vedono il ritorno dei padroni come un ostacolo allo svolgimento delle loro attività illegali. Tanti misteri si svolgono nella villa e troppi personaggi entrano nella trama del romanzo.
Simonetta Agnello Hornby, in questo romanzo, introduce “parentesi” su numerosi soggetti solo accennati, una fotografia ridondante e non sempre nitida di personaggi e situazioni inverosimili: l'anoressia, la violenza familiare sulle donne, la bisessualità, l’omosessualità, l’associazione mafiosa, lo sfruttamento degli immigrati di colore.
Veramente troppo per non dare, in certi momenti, poca credibilità alle storie complicate della famiglia Carpinteri. La scrittrice non ha voluto fare una narrazione che avrebbe appesantito il romanzo su temi troppo scontati. Forse consapevolmente si è limitata ad accennarli, mettendo così il lettore nella condizione di immaginare e riflettere su argomenti della nostra attualità


Lina Viola



Il libro Il veleno dell’oleandro di Simonetta Agnello Hornby  è disponibile in biblioteca.  Puoi prenotarlo cliccando qui



15 aprile 2019

VECCHIE E NUOVE DIPENDENZE di Giovanna Modesto


OGNI INTERPRETAZIONE È FIGLIA DEL SUO TEMPO


Solitamente l’ascolto di un brano musicale evoca in ciascuno di noi un coinvolgimento emotivo più o meno intenso: spesso ci fa sentire allegri oppure tristi oppure semplicemente può farci rilassare.
Oltre all’emotività a volte viene coinvolta anche la nostra parte cognitiva, quando cerchiamo di comprendere il significato del testo di una canzone ad esempio, o di una melodia, o attribuendogli un’interpretazione tutta nostra. A volte i significati sono abbastanza semplici da comprendere, altre volte no, infatti possiamo scambiare un significato per un altro, considerando sempre che, tale significato che noi stessi vi attribuiamo, è pur sempre “soggettivo”.
Nel non lontano 1981, tra le innumerevoli canzoni che andavano di moda, ve n’era una particolarmente  piacevole da un punto di vista musicale e, allo stesso tempo, ricca di significato: “Per Elisa” cantata da Alice, nonché vincitrice al Festival di Sanremo di quello stesso anno e successivamente utilizzata come colonna sonora del film: “Amore Tossico”, diretto da Claudio Cagliari e sceneggiato dal sociologo Guido Blumir. Ricordiamo inoltre che, tra gli autori del seguente brano, compare pure il maestro Franco Battiato (gli autori del brano Per Elisa infatti sono: Alice, Battiato e Pio).
Apparentemente il testo della seguente canzone sembra raccontare la storia di due fidanzati che litigano poiché lui la tradisce con una certa “Elisa”, nonostante questa Elisa non sia né carina né lo faccia sentire a suo agio, anzi lo tratta da prigioniero, da schiavo; tende a manipolarlo come e quando vuole lei, senza che lui stesso se ne accorga (come ad esempio nei versi: lei ti lascia e ti riprende come e quando vuole lei / riesce solo a farti male / E il guaio è che non te ne accorgi. Oppure ancora: lei ti ha plagiato, ti ha preso anche la dignità).




Ma citando la famosa frase: “Ogni uomo è figlio del suo tempo”, “Per Elisa” nasce in un periodo (a partire dai primi anni Settanta in poi), in cui l’uso della droga in Italia, si espande a macchia d’olio; spesso infatti, si sente parlare di giovani ragazzi che muoiono per overdose e si tratta purtroppo, di una problematica che colpisce tutti i ceti sociali.
Più tardi si è cercato di far fronte a questa problematica istituendo dei servizi pubblici per le tossicodipendenze come ad esempio i famosi Ser.T. (ovvero i servizi per le tossicodipendenze, volti alla riabilitazione di coloro che fanno uso di droghe, alcol, farmaci, tabacco o meglio, sostanze legali o illegali, che creano dipendenza). Un altro importante contributo è stato dato anche da altre comunità terapeutiche gestiste da religiosi.
Ma tra la fine degli anni 70’ e gli inizi degli anni 80’, i tentativi per cercare di ridurre l’uso di queste sostanze, sembravano non aver dato quasi alcuno effetto, infatti le cosiddette “vittime dell’eroina”, erano sempre in continuo aumento. Tra l’altro, fu proprio in questo periodo che in Europa giunse pure il virus dell’HIV, a seminare ancor più terrore di quanto lo avessero già fatto le sostanze citate poc'anzi. E, fu proprio grazie al tentativo di contrastare o difendersi al meglio da quest’altra problematica, che cominciarono a diffondersi delle campagne pubblicitarie di informazione, le quali non solo favorirono lo sviluppo di una vera e propria prevenzione alla salute, ma allo stesso tempo, ridussero la quantità di nuovi casi di uso di eroina i quali continuarono ugualmente ad essere presenti, seppur in forma minore e per lo più delegati ad atti di criminalità per coloro che avrebbero voluto procurarsela.
Dunque, l’intrecciarsi continuo dell’emotività nel brano di Alice, spiega come meglio può, quanto soffocante 
e terribilmente coinvolgente possa essere l’effetto che qualsiasi tipo di droga possa suscitare in ciascuno di noi; ricordando oggi per droghe non si intendono solamente le sostanze stupefacenti, ma anche altre tipologie di dipendenze, come ad esempio: il gioco d’azzardo, lo shopping compulsivo, la dipendenza da internet e, l’ancor meno conosciuta, dipendenza affettiva.
Dunque, se negli anni 80’ alla canzone “Per Elisa”, potevamo sicuramente dare un’interpretazione che rispecchiasse l’uso, nonché la forte dipendenza dell’eroina o da qualche altra sostanza, oggi, ascoltando le parole dello stesso testo, si può attribuirgli un nuovo significato: quello delle nuove dipendenze o New Addictions, poiché in linea di massima, possiedono entrambe lo stesso effetto.


Giovanna Modesto



12 aprile 2019

"Il Passatempo del Commendatore" di Paolo Cortesi





per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html


La notte prima dell’incontro con Kradar, Antonio non dormì.
Non dormì mai, neppure in quello stordimento pesante che spegne la coscienza e che sembra affondare la mente in un nero senza fine.
Restò sveglio, fervoroso, con dozzine di pensieri incalzanti, strani, irrefrenabili e imprevedibili, ma tutti – al loro inizio o al termine – convergevano sulla stessa domanda:
“Cosa vorrà da me?”
Questa angosciosa interrogazione subito ne portava un’altra:
“Come ha fatto a sapere di me?”
Come poteva l’uomo più ricco d’Italia sapere dell’esistenza in vita di Antonio Mosca, che faceva il fornaio a San Leo?
Filiberto Kradar era un padrone; aveva fabbriche e negozi, aveva ville, cavalli, barche, un teatro e vigneti.
Stava a Milano, in un palazzo che sembrava una reggia e che era stato fotografato per La settimana Incom.
A San Leo era arrivata una gran macchina americana lucida e nera, con le gomme bianche; nella piazzetta d’acciottolato ci stava appena. Si fermarono tutti a guardarla; la gente scendeva dalla bicicletta e restava a cavalcioni; le donne uscivano dalle botteghe e anche i negozianti interrompevano la spesa e scostavano la tende di perline, restavano sulla soglia e guardavano senza parlare.
L’autista, col berretto a visiera, rimase in auto. Due signori vestiti di scuro uscirono; richiusero le portiere con un botto che pochi conoscevano. Un bambino si mise a piangere. I due entrarono nel forno di Antonio Mosca. Le donne che compravano il pane erano attonite.
-Scusi, signore- disse un uomo con le spalle larghe e i denti radi. Si accostò ad Antonio che stava dietro al vetro del bancone di mattonelle bianche.
-Lei è il signor Antonio Mosca?- gli domandò.
Mosca non rispose, sbarrò gli occhi e restò con un filoncino in mano. Guardò implorante le donne che fissavano lui.
-Scusi, parlo col signor Mosca Antonio fu Guglielmo?-
-Sono io. Cosa volete?- rantolò il fornaio.
-Devo recapitarle un invito da parte del commendator Kradar.-
-Kradar?…Quello che… Kradar quello ricco?-
-Il commendator Kradar – ripeté l’uomo in nero – la prega di recarsi presso il suo ufficio centrale di Milano.-
Antonio non capiva. Non udiva le parole, ma un ronzio basso da cui si staccarono solo due suoni: Kradar e Milano.
L’uomo si rese conto del caos di Antonio, allora ripeté l’invito più lentamente, sillabandolo come se parlasse a un bambino; poi chiese:
-Lei può venire domani a Milano?-
-Ma come ci vado a Milano?- fece Antonio.
-Se preferisce la accompagneremo noi in automobile. Partiremo domattina alle otto. Va bene?-
Antonio taceva, sempre col filoncino in mano e gli occhi disperati.
-Naturalmente le sarà rimborsata la giornata di lavoro persa e anche il disturbo. Lei sarà ospite del commendatore per tutto.-
-Tutto…- ripeté inconsapevolmente il fornaio, con la voce strozzata.
-Allora, signor Mosca, va bene? Partenza domattina alle otto. La passeremo a prendere da casa.-
-Ma sapete dove abito?-
L’uomo in nero per la prima volta sorrise. Disse:
-Via San Gregorio dodici, vero?-
Antonio annuì. Se non avesse sentito in mano la forma e il peso del filoncino di pasta dura, avrebbe pensato di stare sognando.

Accompagnato dai due uomini vestiti di scuro, Antonio aveva attraversato sale di marmi e percorso corridoi lunghi e scintillanti. Da molte porte aperte, aveva visto segretarie austere e uomini tristi. Aveva visto tanti quadri, e scritte, e mappe di città, disegni colorati, ma nella sua mente frastornata tutto si era mescolato e trasfigurato in una indistinta chiarità riverberante.
Lo fecero attendere in un salottino con gonfie poltrone azzurre. Su una parete c’era la fotografia gigantesca del commendatore Kradar ritratto mentre baciava la mano di papa Giovanni XXIII.
Sul tavolino splendente come un largo cristallo c’erano riviste, bottiglie e bicchieri, scatole di cioccolatini e portasigarette. Antonio osservava senza comprendere.
L’uomo in nero che lo aveva condotto là sfogliava un giornale; pareva fingere di essere intento a qualcosa per non curarsi di lui.
Finalmente, si accese una lucetta verde accanto alla porta e l’uomo in scuro balzò in piedi, lasciò cadere il giornale sulla poltrona. Disse sottovoce:
-Prego, mi segua.-
Poi, fatti pochi passi verso una porta che stava all’estremità di un breve corridoio:
-Parli solo quando il commendatore le fa la domanda. Parli a voce bassa perché il commendatore non sopporta le voci acute. Permette?- e si arrestò, facendo fermare Antonio.
Dalla tasca della giacca, l’uomo prese una boccetta di profumo e ne spruzzò qualche goccia sul collo di Antonio.
-Scusi, ma il commendatore ha un olfatto delicatissimo.-
Antonio entrò in uno studio grande, dal soffitto alto decorato, con una grandiosa vetrata dietro la scrivania di mogano alla quale sedeva Kradar.
Questi era un uomo piccolo, calvo, grasso, con la faccia larga e lustra, gli occhiali d’oro. Si alzò dalla poltrona e porse la mano ad Antonio, che sentì nella sua delle dita piccole e grosse, un po’ fredde.
-Grazie, signor Mosca, d’avere accettato il mio invito.-
-Grazie.- mormorò Antonio.
Kradar lo esaminò; ad Antonio parve che lui stesse confrontando l’uomo che vedeva con quello che si era immaginato.
-Fatto buon viaggio?- domandò il commendatore sorridendo.
-Sì sì. Grazie.-
-Le piace Milano? Eh? Visto che città?-
-Ma… non saprei… ho visto poco…-
-Se vuole, dopo la faccio accompagnare in un bel giretto turistico per tutta la città. Vedrà che bella. Anche se San Leo deve essere un grazioso paese, vero?-
-Sì.-
-Dev’esserci l’aria buona lassù, eh? Qui l’aria, certe volte, è un po’ sporchina, ma è sporca di industria, di fabbrica, di opificio, cioè di lavoro. È il lavoro è pane per tutti. Dico bene, sciur Antonio?-
-Sì sì. È lavoro…-
-Dunque, caro Antonio, lei ora vuole sapere perché l’ho fatta venire qua. Vero?-
-Sì. Non so proprio cosa pensare, perché io…-
Kradar mosse appena un dito delle mani che teneva giunte sulla scrivania. Antonio zittì e il commendatore parlò più lentamente:
-Lei ce l’ha un passatempo, Antonio?-
-Eh? Come? Che cos’ho?-
-Lei, dopo che ha lavorato al forno, che fa?-
-Io? Io vado al caffè Turchini e vedo degli amici e magari giochiamo a carte.-
-Ecco. Visto, Antonio? Il suo passatempo è giocare a carte con gli amici. Io ne ho un altro, di passatempo. Io scavo dentro la gente.-
Antonio pensò: “Questo è matto. Come faccio a tornare a casa da Milano?”
-Io scavo nella vita delle persone.- riprese il commendatore, serio, quasi severo – Vado fino in fondo, ne conosco tutto fin nei minimi dettagli. Scopro tutto di loro, fin quello che loro stessi non sanno ancora o non ricordano più.-
-Vuol dire che… ma che gente? Parenti? Amici? I suoi dipendenti?-
Il commendatore sorrise.
-No. Sa cosa faccio? Prendo a caso un elenco telefonico d’una provincia d’Italia. Apro a caso. Butto un dito: trovo l’uomo ed è quello il mio oggetto di studio.-
-E lei ha fatto così anche con me?-
-Sì, Antonio. Ho trovato a caso Mosca Antonio panettiere di San Leo.-
-E poi?-
-Ho mandato i miei collaboratori a fare ricerche su di lei.-
-Ma io non ho visto nessuno. Non ho parlato con nessuno e nessuno mi ha detto niente.-
-Infatti. Io faccio svolgere ricerche segrete e minuziosissime. Io so tutto di lei. Tutto tutto.-
Aprì un cassetto della scrivania; ne estrasse un fascicolo grosso come una scatola da scarpe che posò sul tavolo.
-Guardi. Qui dentro c’è tutto lei, Antonio. Dalla nascita, anzi da prima, perché ci sono i suoi genitori. E c’è tutta la sua vita. Ma proprio tutta. Le cose belle e le cose brutte.-
Kradar sembrò avere un’espressione soddisfatta. Antonio guardò il fascicolo e domandò:
-Ma perché lo fa?-
-Gliel’ho detto: è il mio passatempo. Grazie a dio ho i mezzi per permettermelo. E non bado a spese, sa? Pensi che per avere le confidenze di certi suoi amici ho dovuto spendere fino a trecentomila lire.-
-E cosa le hanno raccontato di me?-
-Tutto, le dico. Tutto. Fin da quando marinava la scuola. Fin da quando era garzone del fornaio Bortoli. Poi il fidanzamento con la Rosa, che poverina morì di peritonite. Poi il servizio militare, a Caserta. Poi il matrimonio con la Antonietta. Pensi: conosco persino quella storia poco piacevole di debiti, ma non gliela voglio ricordare.-
-Debiti?- fece Antonio.
-Col farmacista Carli, che le prestò seimila lire. Poi litigaste.-
-Ah sì sì. Carli. Roba vecchia.-
-Già. Vede, Antonio, io sono il suo miglior biografo.-
-Cosa vuol dire?-
-Che potrei scrivere la sua vita tutta intera.-
-Ma cosa può interessare a un gran signore la vita di un disgraziato come me?-
-Gliel’ho detto: è il mio passatempo. C’è gente che legge i romanzi, ma sono solo storie inventate. Io sono uno che bada al sodo; a me piacciono le storie vere. Mi piace conoscere tutto di persone che stanno a centinaia di chilometri da me. Io pesco un nome, e di quel nome voglio scoprire tutta l’esistenza. Nessuno ha segreti per me, se voglio sapere tutto. Io pago quello che c’è da pagare ma vado fino dove non arrivano nemmeno i carabinieri: scopro le magagne segrete, i peccati grandi e piccoli, le cose belle e quelle vergognose. I miei romanzi sono persone in carne e ossa. Siete voi.-
Antonio vide gli occhi stretti e fermi di quell’uomo; non gli piacquero.
-E lei fa venire a Milano tutti quelli che studia?- domandò.
-No. Ho chiamato solo lei, da quando ho questo passatempo, e sono anni…-
-Perché io?-
Il commendatore premette un pulsante e si aprì in silenzio una porta a scomparsa. Apparve un cameriere che accennò ad un inchino.
-Vuole niente, Antonio? Un caffè? Un brandy?-
-No no. Grazie.-
Kradar mosse la mano e il cameriere sparì.
-Vede, Antonio, io in tutti questi anni ho sempre trovato quello che cercavo. Non ci sono mai stati segreti per me. Pensi che una volta mi sono fatto raccontare da un prete quello che un tale gli aveva detto in confessione. Mi è costato due milioncini tondi, ma ho saputo quello che volevo sapere. Capito?-
-Sì.-
-Le dico che non ho mai dovuto tenermi una curiosità, Padri, madri, figli, mogli e mariti, fratelli, tutti insomma mi hanno detto tutto di tutti. Io chiedevo il prezzo e loro dicevano. Così ho saputo segreti che nemmeno può immaginare. Per me non è questione di soldi, che grazie a dio non mi mancano. Per me è una missione, un puntiglio; lo chiami come vuole. Io non sopporto di avere zone vuote nei miei fascicoli. Se mi occupo di uno, io devo sapere tutto di lui, come se fossi la sua coscienza. E in particolare voglio sapere quello che nessun altro potrà sapere mai. Glielo ripeto: è il mio passatempo e ci spendo quello che voglio. In fondo, c’è gente che spende i soldi alle partite, o per il giardinaggio; non trova?-
-Sì.-
-Ecco. Io spendo per il mio passatempo, che se vogliamo è anche una cosa seria, perché mi interesso delle persone, mi avvicino alle loro piccole storie di umili, è una cosa bella, no?-
-Sì.-
-Questo glielo dico perché sia chiaro che non è questione di soldi. Quello che lei mi chiede, io lo pago.-
-Ma cosa vuole?- esclamò Antonio, che non badò a tenere bassa la voce.
-Antonio, io ho saputo che nel 1951, nel… - il commendatore prese un foglio dall’incartamento sulla scrivania; lesse – nel marzo del 1951 sua moglie ha abortito. Però non ho potuto sapere niente sulla causa di quest’aborto. Ecco, Antonio, io vorrei sapere perché sua moglie ha abortito. Cos’è successo? Una disgrazia o un aborto procurato? Un figlio della colpa? Mi manca solo questo tassello in tutta la sua storia. E io non ci posso restare con questa curiosità. Mi racconti di questo aborto, mi dica tutto. Mi dica quanto le devo per il disturbo, perché forse le farà dispiacere ricordare quella faccenda. Ma lei sa che i soldi non sono un problema.-
Antonio guardò la testa dell’uomo che stava seduto davanti a lui. Il cranio calvo e lucido aveva l’aspetto dell’uovo di un uccello tropicale, con pomfi rossastri e chiazze quasi ocra.
La luce attraversava la cartilagine delle orecchie ed il colore che così avevano ricordava ad Antonio carni di conigli spellati.
Antonio fece:
-Ma…- e sembrava un verso di animale, nemmeno una parola uscita dalla bocca d’un uomo.
Kradar sorrideva e aspettava.
Antonio fece ancora:
-Ma io… io…-
Il commendatore sorrideva sempre, ma qualcosa nella sua faccia rivelava una certa stizza: “così perdono la pazienza i ricchi”, pensò Antonio che fissava gli occhi fermi dell’altro, le tre grinze parallele che segnavano la fronte come tre crepe in un muro.
-Allora, Antonio?- esclamò Kradar quasi festoso, ma si sentiva che non era abituato ad aspettare così a lungo – Cosa c’è? Non ricorda? O pensa alla cifra?…- e rise a bocca aperta, spingendosi all’indietro, avvolto dall’enorme schienale di cuoio morbido della poltrona.
-Ma io…vede, non saprei… Cosa devo dire?-
Il commendatore balzò in avanti, forse spinto dal molleggio segreto della grossa poltrona; rise ma non c’era nulla di lieto o amichevole in lui:
-Ohilà, signor Antonio! Ma è così che lei vende il pane a San Leo? Eh? Così poco… così poco sveglio, diciamo? Via, sciur Antonio! Non ha capito? Devo ripetere la domanda?-
-No no. Quella l’ho capita. È che…-
Kradar aveva adesso un mezzo ghigno; non tentava neppure più di sembrare sorridente.
-Allora?- incalzava – Allora? Via, diciamola questa cifra. Si vergogna? Guardi che siamo solo io e lei. E non lo saprà mica nessuno!-
Antonio alzò un po’ lo sguardo e vide la faccia del commendatore; i suoi occhi erano come quelli dei serpenti tropicali che aveva visto in un film di Tarzan. Erano mostruosi, perché erano occhi che avevano guardato solo bestie spaventate, bestie che cercavano di fuggire e vivere.
Antonio trovò il coraggio di alzarsi.
Kradar lo osservò basito, come se il panettiere avesse preso fuoco all’istante, lì davanti a lui.
-Mi lasci stare.- disse Antonio, aveva la voce stanca, sembrava un vecchio – Non voglio niente. Mi lasci stare. Buongiorno.-
Kradar non disse nulla. Rimase a guardare l’uomo che usciva dalla stanza. Lo guardava con occhi terrorizzati.




04 aprile 2019

IL NOME DELLA ROSA VISTO DAI LETTORI



Il Nome della Rosa (romanzo, 1980) è un’opera scritta dal noto autore piemontese Umberto Eco, eclettico in tutte le sue passioni, filosofo, medievalista, giornalista. Il romanzo è un’opera che abbraccia diversi ambiti della cultura del medioevo e fonde contenuti di carattere filosofico, teologico, storico; utilizzando tuttavia termini comprensibili a tutti.
Gli Amici della Biblioteca di Pietraperzia, in occasione della messa in onda della fiction trasmessa su Rai 1, hanno approfondito la lettura del romanzo attraverso un Cenacolo Letterario, analizzando le divergenze e le convergenze tra l’opera scritta e la serie. Abbiamo considerato che è difficile riproporre simili capolavori, avendo anche assistito al primo film de “Il Nome della Rosa” (1986) di eccellente spessore.
La nostra opinione considera che l’opera scritta è più avvincente, apre una visione più ricca di intrecci. Il romanzo de Il Nome della Rosa è il risultato di una vita dedicata allo studio di questo libro. La figura del regista, al centro di simili tessiture d’intrecci, non può raggiungere tale ampia visione.
La visione moderna di alcuni personaggi ha reso l’ambientazione povera di dettagli ancora più reali, che sono poveri e spietati; un realismo crudo che Eco fedelmente riporta, ma che nello sceneggiato vengono addolciti.
Nel complesso, la fiction è affascinante, i paesaggi suggestivi. A nostro modesto parere, il regista Giacomo Battiato poteva osare di più, senza tralasciare quelle “imperfezioni” che rendono fedele e veritiera una realtà insicura, superstiziosa e chiusa in se stessa quale era il medioevo.

Amici della Biblioteca - Pietraperzia



02 aprile 2019

IL PIÙ PESANTE LAVORO




Se qualcuno ci domandasse: “Qual è il lavoro più pesante?”, come risponderemmo? Alcuni potrebbero dire: il muratore, poiché ogni giorno si trova a fare tanti sforzi fisici, a rispettare determinati orari, a stare sotto il sole e, se ce n’è di bisogno anche sotto la pioggia. Oppure il contadino, anch’egli costretto a lavorare all’aria aperta sia d’estate (a volte con temperature asfissianti) che di inverno con temperature anche sotto lo zero. O invece il barista, il cuoco, per i quali non esiste sabato sera, non esiste il riposo della domenica e nei giorni festivi lavorano ancor di più. C’è chi sostiene invece che tra i lavori più pesanti vi sono quelli che necessitano di una enorme quantità di concentrazione: ad esempio un medico, un pilota di aerei, un capo azienda, ecc… Ogni lavoro può essere considerato pesante poiché porta con sé tanta responsabilità e necessita di tanta pazienza …

Ma a mio avviso, credo che tra i lavori più pesanti ve ne sia uno più particolare e di diversa natura, un lavoro che ci troviamo a svolgere tutti i giorni, il quale anch’esso prevede una certa pazienza di cui parlavamo poc’anzi; ed è quello di accettare l’altro così com’è, senza pretendere di essere diverso da come si presenta e, cosa ancor più “pesante”, cercarvi di entrare in empatia, poiché possiamo sempre essere liberi di scegliere se svolgere un lavoro oppure (quando questo lavoro ci sta stretto) cambiare mestiere, (sempre ovviamente se possiamo permettercelo). Ma quando qualcuno ci fa arrabbiare, quando qualcuno ci sta antipatico (anche solamente a pelle), quando non riusciamo a fidarci di questo qualcuno, beh, questo è un macigno che ci porteremo sempre dietro. Poiché possiamo scegliere le persone con cui stare, ma tutto ciò può benissimo accadere con chiunque, anche con persone diverse oppure con le stesse persone che da sempre amiamo, stimiamo, ecc … e tutto ciò spesso accade per una mancanza di comunicazione (le famose incomprensioni ad esempio).

Ma a volte non è sempre così, molto spesso accade che siamo in grado di accettare l’altro, di accogliere l’altro, ma una volta accolto cosa succede? Spesso accade purtroppo, che il nostro volere è che costui debba agire secondo i nostri piani, debba comportarsi come piace a noi, senza pensare minimamente se è felice nel fare determinate cose o meno.
Accogliendo qualcuno infatti, non solo si corre il rischio di volerlo bene, ma si corre un altro rischio purtroppo: quello di fargli (involontariamente) del male, poiché a volte l’amore per il prossimo è fatto anche di scelte solo nostre, poiché crediamo siano le scelte giuste per entrambi e, a questo punto, viene da chiedersi: ma gli altri sono veramente felici delle scelte che facciamo anche per loro, oppure anch’essi hanno il diritto di poter scegliere?

Dunque, più della stanchezza fisica, più della stanchezza mentale, un duro lavoro esige anche di un’altra tipologia di stanchezza: quella del proprio Sé, del proprio agire, del sapersi controllare, poiché come afferma Marianne Williamson: “Nulla ci rende ciechi tranne i nostri pensieri; nulla ci limita tranne le nostre paure e nulla ci controlla tranne le nostre convinzioni.”

Dunque, qual è il più pesante lavoro?

Giovanna Modesto