28 maggio 2019

L’UMILTÀ



L’UMILTÀ

Quante volte abbiamo fatto a meno dell’umiltà
dietro a camici o nastrini,
costernati da scritte per una qualche appartenenza?
Oppure sotto il peso di stendardi, in ambìte cerimonie,
ove tutta la nostra magnificenza tende a spiccare
tra le voci dei presenti?
Quante volte abbiamo fatto a meno dell’umiltà
dietro a un cartellino con scritto il nostro nome,
sotto ai nostri gomiti, poggiati sui tavoli
nel mentre di una conferenza?
Quante volte dell’umiltà ci siamo dimenticati,
sfilando per le vie di paesi e città,
a testa alta, non per coraggio
bensì per sbandierare una carica
oppure un compito speciale?
Che n’è stato dell’umiltà in discorsi
volti a spiegare cosa fosse la stessa umiltà?
Nel prestigio di chi s’ostina
a predicare sempre questa stessa parola?
In una carezza o una stretta di mano
fatta ad un nostro fratello
solamente per riempire la memoria di un cellulare,
scattando così l’ennesimo selfie?
Quante volte abbiamo fatto a meno dell’umiltà
nei nuovi pulpiti elettronici,
pronti a pronunciare sentenze dalla tastiera di un computer
oppure dai tasti di un cellulare,
piuttosto che elargire coerenza?

L’umiltà, questa nostra sconosciuta sorella,
che non possiamo raggiungere con una pergamena di laurea,
né sfiorare tra i più complicati libri di filosofia,
che abbiamo sbadatamente perduto
nell’affamata motivazione della nascita di nuovi gruppi,
di nuove associazioni; oppure in chi, capace solo di giudicare,
non riesce a trovarla nel conforto nella coerenza.
Per cui, volendo citare il famoso Esopo:
forse l’umiltà non risiede in chi,
non essendo in grado di superare
le proprie difficoltà,
s’ostina a dare la colpa alle circostanze.

Giovanna  Modesto




19 maggio 2019

Preghiera a Dio: Un Racconto di Paolo Cortesi





per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html

La notte del 5 agosto 1934, alle tre di notte del 5 agosto 1934, Ernestina Duranti scelse il coltello.Lui, il marito, Luigi, era tornato ancora una volta ubriaco. Lei stava sveglia ad aspettarlo, con gli occhi che le bruciavano per il sonno negato e un ronzio acuto e discontinuo nelle orecchie che sembrava il sibilo del silenzio di quella notte calda. Aspettava alzata perché doveva vedere com'era la sbornia del marito: certe volte rincasava piangendo, lamentoso e con brevi gesti incerti, come se tutto in lui si fosse rimpicciolito, o ammalato. Ma altre volte, ed era più spesso, tornava furibondo, strillava e dava gran calci ai muri delle case lungo la strada, e lei lo sentiva arrivare di lontano e iniziava ad avere paura.Allora, si affacciava senza mostrarsi e guardava Luigi: le faceva schifo. Le faceva ribrezzo la sua figura scura e gonfia, da cui spiccavano solo la pancia e i capelli arruffati, come se fossero stati tirati. Lo vedeva barcollare, restare a lungo immobile, tentando di trovare equilibrio sulle gambe deboli; restava fermo, come assorto, mentre invece era stordito dal vino e non camminava perché non poteva vedere niente.Lo vedeva accostarsi ad un angolo, portare le mani al ventre, sbottonarsi a fatica i calzoni e pisciare. Con un braccio si appoggiava al muro. Il rivolo correva, luccicante, nero, verso il centro della strada; e anche pisciando lui ondeggiava e parlava, urlando qualcosa e non pareva nemmeno voce di uomo.Lei stava nascosta dietro le persiane, e lo guardava e lo detestava sempre di più mentre contava i minuti che la separavano dal suo entrare in casa. Sentiva che lui tentava di infilare la chiave nella serratura, ma non ci riusciva. Prima, lui cercava anche mezz'ora di aprire da solo; ora invece, dopo avere preso la chiave dalla tasca, iniziava a gridare e a dare pugni terribili alla porta.Lei, mesi prima, accorreva in fretta, perché non voleva farlo arrabbiare, ma ormai sapeva che l'avrebbe picchiata anche se gli avesse aperto subito, così lo lasciava fuori di casa più a lungo. Luigi gridava, ruttava; i vicini, nel caseggiato, non uscivano più sulle scale e nessuno diceva più niente, perché tutti avevano paura di lui che era un ubriaco cattivo e che, sobrio, era una spia dell'Ovra e poteva rovinare chi avesse voluto.Anche quella notte del 5 agosto avvenne tutto come sempre. Lo sentì arrivare prima ancora di vederlo svoltare l'angolo della strada. Cantava la stessa strofa d'una canzone, la ripeteva all'infinito e si capiva che gli piaceva tanto, mentre a lei sembrava come il verso delle bestie che non cambia mai.Una finestra d'una casa si accese: il rettangolo giallo s'aprì nel buio confuso del palazzo; un uomo in canottiera, calvo, guardò giù; aveva gesti irosi, muoveva le mani ed avrebbe di certo imprecato, o scaraventato un catino d'acqua, ma vide che era Luigi Tanacci, il sarto che faceva il confidente dell'Ovra (lo sapevano tutti e a lui non dispiaceva), così disse qualcosa a voce bassissima e tornò dentro. La luce si spense. La strada tornò muta, come un varco scavato in una montagna nera.Luigi Tanacci fece due passi sbilenchi in avanti, poi altri due passi indietro. Poi restò fermo, ma con la schiena un po' curva, le braccia penzoloni, cercando l'equilibrio, come fanno quelli che si trovano sulle barche. Alzò la testa, con la nuca toccò le spalle. Urlò qualcosa, mentre arruffava la camicia, mentre frugava nelle tasche dei calzoni bagnati di piscio.Entrò dal portone che era aperto e cominciò a salire le scale. Solo una lampadina, appesa a un filo elettrico contorto, faceva luce, ma era una luce stinta, come trattenuta, che faceva un po' di giallo sul pavimento dei pianerottoli e accendeva le chiazze di muffa viola nelle pareti.Ernestina stava dietro la porta chiusa, vi era appoggiata con la schiena, teneva le mani giunte davanti alla bocca e pregava: "Signore, fallo morire. Schiantalo d'un colpo secco prima che tocchi questa porta. Per amore di Gesù, ammazzalo, questo porco maledetto. Aiutami".Lui arrivò. Il primo calcio che dette alla porta fece balzare Ernestina che trattenne il respiro. E poi lui dette altri calci e altri pugni, mentre gridava:- Apri, apri, brutta scimmia! Apri schifosa! Apri cagna! Apri ché ti spacco la testa! -Ernestina pensava: "E se lo lasciassi fuori tutta la notte? magari gli passa la sbornia...", ma concluse che sarebbe stato peggio, che avrebbe di certo sfondato la porta e la sua furia sarebbe stata maggiore. Allora, già sapendo precisamente come e quanto l'avrebbe colpita (perché, dopo un po', lui si faceva male alle mani e si stancava, e si buttava bocconi sul letto e dormiva con la bocca aperta da cui usciva la saliva acre di vino), già sapendo che il primo schiaffo sarebbe stato alla faccia, tra zigomo e naso, aprì la porta. Alle tre di notte, Luigi crollò a letto; l'aveva pestata così tanto che si era spaccata la pelle sulle nocche della mano destra. Ernestina, allora, andò in cucina. Mise uno strofinaccio sotto il rubinetto e lo bagnò, poi se lo premette sulla faccia, sulle labbra; era tutta gonfia e sentiva il sangue battere sotto gli ematomi ancora caldi. Aprì il cassetto della credenza, dove c'erano le poche posate buone del servizio che erano rimaste (le altre se l'era vendute tutte lui, per pagarsi il vino). E guardò un coltello: la lama era lunga e sottile, ma non tanto da sembrare fragile, era anzi una lama larga due dita, lucente, con la punta come una sciabola; sembrava la scimitarra del sultano che aveva visto, una volta, al cinematografo.Scelse quel coltello, lo nascose nel cassetto del suo comodino, di fianco al letto, e giurò a dio che, alla prossima volta che lui fosse tornato ubriaco e l'avesse battuta, lei lo avrebbe ucciso: gli avrebbe infilato tutto il coltello nel cuore mentre stava dormendo. E se anche la mandavano alla fucilazione, non le importava niente, perché tanto quella non era vita da vivere.Nelle giornate seguenti, come sempre, Luigi non ricordò neppure l'ubriacatura e le botte. Era come se non fosse successo niente. Usciva al mattino per aprire la bottega, tornava ad ora di pranzo e scambiava anche qualche parola con la moglie: -Oggi è venuto a farsi la barba il cavalier Rosati. Quello che ha la macchina.- ; -Ma com'è calda questa estate!- ; - Buone queste polpette...-Lei rispondeva appena "sì" e "no". Lui vedeva i lividi, il grumo bruno di sangue cristallizzato che si apriva, come un piccolo minerale, sul labbro; lui vedeva la palpebra tumefatta, ocra, che restava semiaperta tanto era enfiata. Ma non diceva niente.Qualche tempo prima, Luigi aveva promesso a se stesso che non avrebbe più bevuto e che avrebbe smesso di sfinire a botte quella poveretta che non aveva nessuna colpa. Poi, però, il gusto di continuare a fare quello che voleva fu troppo forte. Rinunciare al bere gli sembrò un sacrificio eccessivo e inutile. E, in fondo, due sberle ogni tanto non avevano mai ammazzato nessuno; così - con pensieri che non erano un vero ragionamento ma piuttosto una sensazione cui non si presta troppa attenzione perché naturale, come la fame o la sete - il proposito di non bere più svanì; divenne tanto remoto che lui, quando ci ripensava, quasi si trovava ridicolo.Gli piaceva bere, come a tutti gli uomini, e non era colpa sua se il vino e la grappa gli davano alla testa peggio che ad altri. Non si sentiva colpevole di quelle ubriacature più di quanto si sarebbe sentito responsabile di capogiri o di una cattiva digestione: era natura, era fatto così. E le mogli devono avere pazienza, pensava confusamente, e lei gli doveva tutto: un appartamento che non avevano nemmeno i professori del liceo mentre lui era arrivato solo alla terza elementare; poi lei aveva vestiti per l'estate e per l'inverno, scarpe senza buchi, mangiavano bene. Non si sentiva in difetto per niente.Dunque, Luigi concluse che la sua passione per il bere, e le cose che faceva dopo, erano sì qualcosa di rumoroso e non proprio bello da vedere, ma c'era molto di peggio e già nel loro caseggiato lui poteva citare come esempio più riprovevole un tale di nome Rebonati Adelmo che era scappato con una ballerina del circo, lasciando moglie e tre figli piccoli.La sera del 13 agosto 1934, Luigi andò all'osteria. Ernestina capì che sarebbe tornato ubriaco perché, ormai, sapeva interpretare un certo sguardo incupito e distante, come se stesse pensando ad affari strani e difficili. Appena lui uscì, Ernestina andò al comodino, lo aprì e guardò il coltello che aveva avvolto in un tovagliolo candido. Lo prese in mano e avvertì il peso, la forma piena e liscia che riempiva la mano stretta attorno al manico tornito.-Questa notte glielo pianto nel cuore.- disse. Non lo pensò soltanto, ma lo disse proprio, a voce bassa ma chiaramente, come lo annunciasse in segreto a qualcuno lì vicino a lei.Lui tornò verso le quattro. Ma, quella volta, non strillava: piagnucolava, si faceva il segno della croce, cadeva in ginocchio e farfugliava. Lei lo osservò stupita, ma sempre disgustata e sempre col timore che, da un momento all'altro, lui iniziasse a batterla. Poteva accadere, perché un ubriaco è imprevedibile e fa spesso quello che si teme di più. Quella notte, però, Luigi aveva una sbronza triste e fiacca. Bussò alla porta di casa con pochi colpi nemmeno troppo forti, tentò di abbracciare la moglie ma lei lo scostò con le dita tese e girò la faccia verso il muro per evitare il suo fiato acido.Sentì, tra i gemiti, delle parole: - Perdonami, perdonami... perdonatemi tutti....- E ancora, mentre si strisciava il fazzoletto sugli occhi: -Sono una canaglia... sono una spia... quanti ne ho fatti finire in galera!... quanta gente ho fatto piangere... sono un farabutto... -Allora, Ernestina, senza dire nulla, gli cinse la vita con un braccio e con l'altra mano si mise il suo braccio sulle spalle; lo portò a letto e lo distese; lui lasciava fare e ripeteva con la voce stridula:- Quanto sei cara... quanto sei buona con me... non merito... non merito niente....-Ernestina iniziò a spogliarlo. Quando sbottonò la giacca, esalò un soffio caldo e umido, un sentore marcio di sudore e di sporcizia che le dette disgusto. Lui tentò di accarezzarle la testa; lei gli fermò la mano e il braccio cadde molle e pesante sul materasso; lui aveva iniziato a russare.Ernestina gli sfilò la camicia, gli tolse la canottiera giallastra. Appoggiò l'orecchio destro al petto per sentire dov'era il cuore. Prese il coltello, lo puntò, dritto perpendicolare, nel punto del torace che aveva individuato; mise le due mani sul manico del coltello e vi si appoggiò con tutto il peso del corpo, a braccia rigide. La carne si aprì con un colpo duro di lacerazione, il sangue uscì prima come un piccolo sputo poi non se ne vide più perché colava lento.Luigi inarcò la schiena e dette un grido atroce; lei gli mise una mano sulla bocca e con l'altra spingeva e ruotava il coltello dentro il petto. Poi lasciò la lama quasi completamente dentro il corpo e portò le due mani alla gola dell'uomo; lo strozzava.Lui fece qualche gorgoglio brutto, ebbe alcuni scossoni e lei pensò, per un istante, ai conigli che ammazzava con una bastonata dietro al collo - mentre li teneva per le orecchie - e che si dimenavano in guizzi velocissimi ma brevi.Tutto il lenzuolo era inzuppato di sangue, che cadeva a filamenti larghi sul pavimento. Le sembrò che anche il sangue puzzasse di vino. Andò alla finestra aperta; respirò forte e restò in piedi, ferma, appoggiata, a guardare la strada deserta piena di angoli colmi d'ombra. C'era solo un lampione, all'altro capo della via, e vide tante falene e tante farfalle che giravano frenetiche in cerchi obliqui.


06 maggio 2019

Via 4 Novembre e dintorni: La famiglia Rabita - 3^ Parte




Tra tutti i nostri vicini di casa ai quali si è accennato, la persona con cui la mamma si trovò più in sintonia fu la signora Giuseppina Aiesi, moglie di don Filippo Rabita. Tra lei e la signora Giuseppina fu subito simpatia reciproca; nel tempo si stabilì tra di loro una perfetta intesa che si consolidò in rapporto di stretta e duratura amicizia che coinvolse entrambe le famiglie. Nella signora Aiesi Rabita, di lei più anziana, la mamma, giovane sposa e già mamma poco più che ventenne, trovò una consigliera e un’interlocutrice ideale. La signora sua omonima trovò nella mamma un’allieva intelligente e intuitiva. Non erano necessarie fra le due molte parole per intendersi, si comprendevano con lo sguardo. Persone entrambe schiette, genuine e disponibili alla collaborazione, davano ai rapporti e alle cose peso e valore appropriati; dotate di una certa giovialità e senso dell’umorismo, sapevano cogliere l’aspetto comico delle situazioni. «La signora Rabita fu la prima ad apprendere della mia nascita», racconta Maria, «la mattina della domenica di quel 29 giugno, quando alla signora Aiesi, affacciatasi alla sua finestra di via Rosolino Pilo per chiamare mamma - si erano intese il giorno prima per andare insieme a messa - la nonna Maria Cava comunicò che, nella notte, ero nata io». Don Filippo Rabita aveva il suo laboratorio dietro la chiesa del Rosario, in via Fenice (ora Don Minzoni); vi esercitava l’arte assieme al fratello Liborio e ai propri due figli. Appena svoltato l’angolo, da piazza Matteotti, già si sentiva il rumore degli attrezzi in funzione e si avvertiva l’odore della polvere del legno, sempre più penetrante man mano che ci si avvicinava. All’interno del locale, si notavano, appoggiate alla parete di fronte all’entrata, assi di legno di vario tipo e di diverso spessore che toccavano quasi il soffitto; rastrelliere piene di attrezzi, righe e squadre pendevano dalla parete di destra, per lo più occupata da pezzi di mobili in costruzione. Addossate alla parete di sinistra e sostenute, su tre piani, da robusti spuntoni sporgenti, si intravedevano, benché fossero coperte da un telone grigio, casse dalla forma inquietante. Tra le casse e l’angolo sinistro di fondo stava il tornio. Due solidi banconi, con ampi incavi sui piani da lavoro e terminanti con grosse morse, erano sistemati perpendicolarmente alla parete di fondo. I Rabita costruivano ogni genere di mobile; seri e puntuali, godevano di un vasto numero di clienti. «Io però mi ci recavo», dice Salvatore, «soprattutto per farmi costruire
li rrummula: appena venivo in possesso del tronchetto di ulivo, correvo da don Filippo, sicuro e fiducioso, e lo osservavo mentre, tra una pausa e l’altra di lavori più seri, sistemato al tornio il pezzo di legno, lo sgrossava da una parte e dall’altra e lo rifiniva per dare all’oggetto la grandezza e la forma desiderata. Grazie a lui si potevano infatti ottenere, passione di tutti noi ragazzi, trottole personalizzate, della fattura che si voleva, tornite ed eleganti, dei veri prodotti artistici, ben diverse dalla rozze e grossolane trottole, tutte uguali, che si compravano alle bancarelle del mercato o al negozio di Magliocca. Peccato non averne conservata neppure una. Alla sua bravura nel lavorare il legno», prosegue Salvatore, «don Filippo univa molta bontà e pazienza; parlava sempre in modo calmo e pacato; mi spiegava, rispondendo a certe domande che, incoraggiato dalla conoscenza, osavo rivolgergli, che il bancone da lavoro del suo laboratorio era costruito con un legno americano, «forti cumu lu firru, lu piscipagnu» (pitch-pine), che il rumore lacerante che si sentiva mentre veniva segato era il lamento del legno, perché «anchi lu lignu soffri, cumu li cristiani».

«Impossibile per me», dice Maria, «dimenticare la figura di don Filippo Rabita. Me la ricorda costantemente un piccolo mobile che, posto in bella vista, adorna tra gli altri l’entrata della mia casa a Torino. Si tratta di un comò in miniatura stile ‘800, che don Filippo mi regalò quando ero ancora bambina. È un modellino alto 45 cm per cm 38 di larghezza, con i piedini a cipolla, le colonnine laterali tornite a bottiglietta, cinque cassettini estraibili, due piccoli superiori e tre grandi inferiori. Lu cantaraniddu, posto in un angolo del laboratorio e coperto di polvere, aveva attirato la mia attenzione una volta che, per caso, avevo accompagnato papà alla falegnameria Rabita, e me ne ero innamorata. A lungo lo avevo ammirato e desiderato! Quando mi capitava di transitare dalle parti di Piazza Matteotti, mi avvicinavo al laboratorio, entravo, mi accostavo al mobiletto, lo spolveravo, lo fissavo, uscivo col piccolo comò che mi ballava davanti agli occhi. Don Filippo intuiva il mio desiderio, ma restava apparentemente indifferente: mi fece patire un po’, forse il mobiletto gli ricordava suo padre, l’artefice, e non voleva separarsene. Ma “il miracolo” avvenne. Il giorno in cui si compì, don Filippo mi disse: “Maria, eccolo, è tuo, ma, mi raccomando, tienilo bene”! In quel momento il cuore mi batteva forte dalla gioia! A casa lo tenni sempre vicino a me. Un giorno a scuola ne decantai i pregi e le bellezze in un componimento che la maestra ci aveva assegnato:”Parla di un oggetto a te caro”. Quando mi sposai e dovetti trasferirmi a Torino lo lasciai in paese sicura che sarebbe stato ben custodito, ma col pensiero di fargli attraversare lo stretto il prima possibile. A qualche aspirante la mamma ripeteva “è di Maria, non si tocca!”. Dovevano passare diversi anni prima di avere il mobiletto di nuovo con me. Accadde quando mia sorella Michela, venduta la bella casa di via Principessa Deliella, portò su i mobili che costituivano per noi oggetti di maggior pregio, soprattutto dal punto di vista affettivo, alcuni dei quali portavano i segni di nostri interventi impropri. Tra essi, accuratamente impacchettato, il mio “giocattolo” finalmente partì da Pietraperzia per la sua nuova dimora. Giunto a Torino fu portato da un restauratore che, con una modesta spesa, ridiede al mobiletto il suo originale splendore. Ora il piccolo comò, posto in bella vista, adorna tra gli altri mobili l’entrata della mia casa; lo sposto secondo l’inclinazione del momento, ma sempre negli angoli più in vista. Passa il tempo e inesorabile lascia su tutti noi le sue tracce, ma lui, lu cantaraniddu, non registra il fenomeno: sempre più bello, lui sì è sempre come fosse appena nato».

L’amicizia tra le due famiglie si consolidò col tempo e continuò, senza mai uno screzio o una semplice incomprensione, anche quando i Rabita lasciarono la casa di via 4 Novembre e si trasferirono in Via San Giuseppe. Scomparsi don Filippo e donna Giuseppina, l’amicizia è proseguita soprattutto con Giuseppe Rabita, che ci aveva visto nascere e fatto giocare nei nostri primi anni di vita. «Nel mio album delle fotografie», dice Maria, «una ne conservo, scattata nell’occasione del passaggio di un fotografo ambulante dalla via 4 Novembre: sono seduta su un tavolo ricoperto da un tappeto di ciniglia; accanto al tavolo, sul cavallino a dondolo, mio fratello con il boccolo ben ordinato. Tutte le volte che ci incontriamo, Peppino non manca di ricordarmi quell’episodio: egli, nascosto dietro il tappeto, mi sostenne con una mano per paura che cadessi all’indietro. Non avevo ancora un anno, mio fratello ne aveva circa tre». Peppino ha continuato ad esercitare l’arte del padre, con le stesse competenza e abilità, sino alla pensione. Era una sua specialità la costruzione delle persiane con le gelosie movibili, cosa che richiede precisione e pazienza. Il nostro rapporto è stato, ed è, caratterizzato dagli stessi sentimenti di sincerità, schiettezza e di stima reciproca oltre che da vicendevole aiuto in momenti di difficoltà, come capita a tutti nella vita. Per noi è rimasto “cumpari Pippinu”, come erano soliti chiamarsi con papà e mamma, così come “Cummari Maria” mamma chiamò sempre la sua signora (Maria Marotta) quando Peppino si sposò. Fu lui che ci accolse per primo in Piazza Vittorio Emanuele, il 18 agosto del 2005, quando tornammo in Sicilia dopo venticinque anni di assenza, con la stessa premura con cui accoglieva mamma e Michela, quando, quasi ogni anno, d’estate, tornavano al paese. Assieme a lui facemmo il giro del cimitero, fermandoci, dopo la visita ai nostri cari, a ricordare, davanti alle loro tombe, parenti, conoscenti e amici scomparsi. Per tutta la mattinata visitammo i luoghi del paese, ricordandoci vicendevolmente gli eventi e i momenti che avevano visto vicine le nostre famiglie.

Alla sua abilità di artigiano del legno, Peppino Rabita associava una grande passione per il ballo, una passione incontenibile: dotato di grande sensibilità musicale e di una naturale attitudine, non c’era musica che non sapesse immediatamente, e senza alcuna difficoltà, ispirargli i passi da compiere e le figurazioni da assumere. Ballare lo appagava, niente gli dava maggiore soddisfazione. Di sentimenti romantici ed animo di poeta, esprimeva nel ballo l’autenticità della sua natura. Amava ballare il valzer, il tango, la polka e tutti i balli classici della tradizione, ma ballava anche, con la massima disinvoltura, i nuovi balli, latino-americani, afro-cubani, man mano che venivano importati nel nostro paese; il ritmo del bughi-bughi (Boogie-Woogie), del samba, del charleston gli mettevano addosso una forte carica di entusiasmo. Il periodo dell’anno che preferiva era quello del carnevale, durante il quale poteva dare sfogo alla sua passione dominante. Assieme alla sorella Piera, anch’essa abile ballerina, giravano per le vie del paese, vestiti in maschera, chiedendo un ballo nelle case dove si tenevano serate danzanti. Vederli ballare faceva pensare a Fred Astaire e Ginger Rogers, la celebre coppia di ballerini americani. Erano subito riconosciuti perché era nota in paese questa loro predilezione; sempre applauditi e invitati a restare, accettavano di fare un altro ballo, ma raramente si fermavano. Era come se avessero una missione da compiere: essere i testimonial della danza. Anche il fratello Vincenzo era portato per la musica, suonava ottimamente la fisarmonica ed era un bravo ballerino: quando si sposò con Anita Cutaia, figlia di don Arfonziju Cutaija, impiegato comunale, le coppie diventarono due. Fu questa attitudine che portò i due fratelli ad unirsi ad un gruppo di altri valenti suonatori e a fondare un complesso, il “Gempen”, in cui Peppino fu apprezzato batterista. L’orchestrina riscosse grande successo tra i pietrini e per molti anni allietò trattenimenti matrimoniali, feste di battesimo, serate danzanti. Quanto alla intitolazione del complesso, ”Gempen”, il significato resta un mistero, noto forse solo a qualcuno dei componenti del gruppo.

Lunga vita, compare Peppino, e grazie di questa amicizia!  

Maria e Salvatore Giordano