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23 febbraio 2019

"Il Progresso". Un Racconto di Paolo Cortesi




per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html

Il conte Ottavio, in fondo, non era cattivo.
Antonio lo aveva detto tante volte agli altri domestici che se n’era convinto. Il conte Ottavio, pensava, è un signore, è abituato a comandare, a farsi servire. Antonio pensava ancora, e lo disse qualche volta, che se lui fosse stato conte, avrebbe fatto proprio come il signor Ottavio. Magari avrebbe avuto più pazienza, ecco questo sì, questo sì. Magari, avendo provato quanto è faticoso dire sempre sì signor conte, lui, Antonio, avrebbe avuto un po’ più attenzione verso i servi.
Li avrebbe ascoltati di più. E se dicevano cose giuste, li avrebbe accontentati. Ma Antonio era nato stalliere da un uomo che aveva fatto lo stalliere tutta la vita e suo nonno era stato contadino prima di arrivare in città spinto dalla miseria come un forcone spinge un porco al macello.
Il conte Ottavio non era cattivo, a saperlo prendere, pensava Antonio, che aveva imparato come doveva prendere il signor conte.
Mai contrariarlo, essere sempre contento, soddisfatto, sazio. E quando il signore non parlava, bisognava stare zitti; se il signore parlava, bisognava raccontare fatti e fatterelli, con barzellette e storielle e bisognava parlare in dialetto che metteva il signore di buonumore.
Da quasi un mese il signor Ottavio si preparava per la notte di Capodanno del 1900. Antonio lo aveva sentito dire a Morlini, il segretario:
-Ma ci pensa, cavaliere? Abbiamo passato una vita a scrivere la data col 18 iniziale, adesso dobbiamo scrivere 19… ma non le fa impressione?-
Morlini sorrideva e dondolava il capo annuendo ritmicamente (lui sapeva come prendere il signor conte) e non diceva nulla per prudenza. Ottavio continuava:
-Millenovecento. Millenovecento.- ripeteva, assaporando le parole come fossero caramelle in bocca -Millenovecento. Dio, che cifra! Piena di zeri. A me lo zero fa paura, soprattutto nella colonna delle entrate!- e il conte rideva forte, e Morlini capì che adesso doveva ridere rumorosamente anche lui.
-Il nuovo secolo!- esclamò il segretario, a voce alta, come se una piazza lo dividesse dal conte -Entriamo nel secolo nuovo! Nel futuro!-
Quest’idea del futuro, l’immagine del secolo che entrava nel futuro come una freccia coglie il bersaglio, piacque tanto al conte che la fece sua. Un mattino, alla fine di novembre (Antonio ricordava i campi che scintillavano di ghiaccio e parevano cosparsi di migliaia di pezzetti di vetro chiaro) un mattino, il conte stava a guardare lo stalliere che strigliava un cavallo dal manto così nero che dava riflessi blu. Antonio lavorava sodo, perché si sentiva gli occhi del conte sulla schiena; il signor Ottavio parlava tanto, senza fermarsi, quasi con foga, come gli capitava di rado e solo quando un argomento lo interessava davvero (i cavalli, le donne, le corna degli altri, le rendite di case e poderi…). Il conte diceva:
-Con l’anno nuovo si rinnova tutto. Vedrai che cambiamenti, che progresso. Ormai la natura non ha più segreti. Con i telescopi riusciamo a vedere i pianeti lontanissimi. E abbiamo il telegrafo, le corazzate, i treni che vanno come fulmini. Sei mai stato in treno, tu?-
Antonio fece no con la testa, poi -poiché gli sembrò poco rispettoso- disse:
-No, signor conte.-
Ottavio fissava l’occhio sferico e lucente del cavallo; disse:
-Eh caro mio, il treno! Ti porta ovunque. A Parigi, a Vienna…-
-Bello.- mormorò Antonio, ma il conte non lo sentì neppure, e continuava:
-Con gli aerostati possiamo salire oltre le nuvole. E l’elettricità, la chimica, la meccanica. Il progresso, caro mio, questo è il progresso ed il millenovecento sarà pieno di progresso. Non ci saranno più guerre, perché la scienza ci fa tutti fratelli e andremo a esplorare l’Africa tenebrosa, andremo ai poli.-
-Non c’è più la guerra?- domandò Antonio, contento e timoroso come stesse scegliendo un regalo.
-Il millenovecento porterà bene anche a voi poveretti.- dichiarò il conte, con voce sicura.
Antonio restò sospeso nel gesto: col braccio destro alzato sul dorso del cavallo, pareva una delle statue nel giardino del conte. Sussurrò:
-Anche per noi?-
-Certo.- esclamò il conte Ottavio -Il progresso vi farà vivere meglio.- e non disse altro. Antonio avrebbe voluto chiedere come, quando il progresso gli avrebbe dato una vita più bella, ma non osò e riprese a strigliare Pallino, che era il cavallo preferito del padrone.
Il conte Ottavio rimase assorto e fermo; fissava qualcosa lontano, fuori dalla stalla; pareva che cercasse nell’orizzonte fumoso un segno del progresso imminente. Il cielo era bianco, opaco, e i rami neri degli alberi sembravano crepe in un muro.
Il signor Ottavio aveva organizzato nel suo palazzo una gran festa per la notte di Capodanno del 1900. Aveva invitato parenti, amici e nemici, nobili, ufficiali, professori dell’università e primari dell’ospedale. Aveva speso molto, e questo era davvero eccezionale perché il conte Ottavio era attento alle lire, ma voleva festeggiare un evento -diceva a gran voce al circolo- che capita una sola volta nella vita d’un uomo.
Così, aveva fatto ripulire il salone, lustrare il pavimento, le scale e gli specchi.
Però, per non buttare i soldi che poteva risparmiare, aveva comandato tutta la servitù a fare da maggiordomi. Il fattore, il giardiniere, l’ortolano e lo stalliere li aveva rivestiti con delle belle livree rosse e argento, affittate al trovarobe del teatro. Li aveva istruiti come fossero soldati, e aveva fatto anche delle esercitazioni. I quattro erano goffi e incerti; si sforzavano di essere gentili e leggiadri (così aveva detto il conte), ma le dita grosse, le facce scure d’un velo di barba tenace, le labbra socchiuse rivelavano che loro non erano mai stati dei domestici.
Arrivò la sera fatale. E tutto iniziò bene: le carrozze si fermavano davanti al portone illuminato della casa del conte, ne scendevano signori vestiti di nero e signore avvolte da profumi e da stole di pellicce lucenti. Poi ci furono le danze e il fattore, il giardiniere, l’ortolano e lo stalliere facevano un po’ fatica a non distrarsi con quelle spalle nude di donna che si capiva che erano calde anche senza toccarle. L’orchestra suonava musiche bellissime, che loro quattro non avevano mai ascoltato prima.
Antonio portava in giro un vassoio colmo di bicchieri; cercava caparbiamente di essere leggiadro (il conte gli aveva spiegato cosa vuol dire quella parola) e si guardava in giro per portare da bere.
Ad un certo punto, mentre ruotava su di sé come gli aveva raccomandato il conte, Antonio urtò il colonnello Redis, che aveva settant’anni e crollò a terra, i bicchieri di cristallo caddero ed esplosero in un lampo brillante di schegge, il vassoio dette un rumore altissimo e spaventoso di gong che zittì i suonatori.
Il vecchio colonnello annaspava confuso a terra, con la sciabola tra le gambe che non riusciva a districare; Antonio si chinò per aiutarlo e così picchiò la testa contro quella dell’avvocato Crocci che pure lui s’era piegato per rialzare il vecchio. Arrivò il conte Ottavio di corsa; già da lontano gridava:
-Cosa c’è? Cosa c’è?!-
Antonio vide per un istante i suoi occhi feroci, i denti.
-Cretino! Idiota! Imbecille!- urlava il conte -Bestia! Bestia deficiente!- e agitava le braccia, pareva che volesse prendere a pugni Antonio, il quale se ne stava a testa bassa, con le mani lungo i fianchi, a farfugliare:
-Chiedo scusa… sono dispiaciuto…-
-Ma lo vedi cos’hai fatto, deficiente?!- gridava il conte, indicando i cocci di vetro con l’indice teso -Lo vedi, cretino?!-
Il colonnello si rimise in piedi barcollando, diceva con una vocina da ammalato:
-Ma no, ma lasci stare… non è nulla…-
Il conte continuava a insultare e maledire Antonio, poi finalmente alcune signore dissero che poverino era già tanto mortificato e non era il caso di infierire così.
Ottavio si fermò, respirava forte e strinse le labbra. Poi voltò la faccia dall’altra parte e disse allo stalliere:
-Va’ via, va’ via ché non ti veda mai più.-
Antonio fece un inchino alla schiena del conte. Bisbigliò “buonasera” ed uscì dalla sala, mentre si sentiva qualcuno esclamare:
-Su su! Allegria!-
Antonio andò nella camerina dove i quattro servi si erano cambiati d’abito. Si toglieva lentamente la livrea rossa e argento; alla luce della lampada ad olio i bottoni scintillarono come monete d’oro.
Antonio pensò che il millenovecento non avrebbe cambiato la sua vita.



02 febbraio 2019

"Il Dubbio del Conte". Un Racconto di Paolo Cortesi




per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html


Aspettavano il signor conte Pellegrinetti da una decina di giorni, da quando il fattore Morini aveva annunciato la visita in modo confuso e un po' misterioso, e non si capiva se lui ne sapeva poco o se non voleva ancora dividere il suo segreto con i contadini.
Poi anche il prete, dopo la messa, cominciò a ripetere:
-Il signor conte ci farà presto l'onore di una visita.-, e il tono era festoso ma anche persuasivo, compunto e si capiva che il prete chiedeva di fargli fare bella figura.
Il conte Leopoldo nei suoi cinquanta anni di vita non era mai stato una sola volta nelle tante vaste terre che possedeva. Suo padre Urbano, morto proprio il primo giorno del 1900, aveva chiamato quel suo unico figlio al capezzale e gli aveva fatto giurare che si sarebbe interessato, finalmente, di possedimenti e palazzi, perché fino a quel momento non l'aveva fatto. Fino a quel gennaio 1900, Leopoldo Pellegrinetti non aveva mai voluto sapere niente di contabilità e investimenti, non conosceva le proprietà di famiglia e quando il padre cercava di fargliene un resoconto completo, lui si annoiava e si distraeva tanto che il vecchio aveva smesso di tentare.
-Bisogna tornare alla terra. Bisogna tenere alla terra. Perché la terra è la sola sorgente e garanzia di ogni ricchezza, morale e materiale.- diceva spesso Urbano al figlio, che una volta ribatté:
-Come faccio a tornare dove non sono mai stato?- e lo disse sorridendo, fiero della sua arguzia. Invece il padre attaccò un discorso accorato, lunghissimo, ed aveva gli occhi afflitti.
-Quel coglione si mangerà tutto in due anni con le puttane e le carte.- diceva sempre più spesso il conte padre. In effetti, Leopoldo non aveva fatto altro che questo: consumare i soldi della famiglia, vivere sul lustro e il nome della famiglia. Pareva impegnato a recitare una parte: il rampollo dissipatore, che non ha alcuna incertezza e vergogna nell'essere mantenuto e nell'evitare anche la sola parola lavoro.
Il vecchio conte aveva fatto uscire i medici ed aveva voluto a sé quello che i domestici chiamavano ancora il contino, sebbene avesse i capelli grigi e, alto e tumido, pesasse più di un quintale.
Leopoldo andò, seccato e frastornato e temendo di dover vedere il vecchio morirgli davanti.
Pensava, mentre entrava nella camera quasi buia, dove ristagnava l'aria greve e rancida delle stanze dei malati, pensava che avrebbe dovuto fare un gesto affettuoso, prendere le mani del moribondo, forse addirittura ci si aspettava che lo baciasse in fronte. C'erano lì accanto alcuni parenti, c'erano i domestici, i medici e due infermiere, c'era il prete don Fumagalli.
Lui doveva recitare la parte del figlio affranto. Il vecchio fece appena in tempo a fargli giurare che avrebbe visitato tutti i poderi che, di lì a poco, sarebbero diventati suoi.
Quando il vecchio conte iniziò a rantolare, Leopoldo scappò dalla camera, urlando per chiamare i medici che spinse dentro. Poi corse nel salotto e si buttò sfinito sul divano, e restò a guardare il quadro sopra il caminetto e lo fissò così a lungo che le Muse e Apollo cominciarono ad ondeggiare come se le vedesse dietro una fiamma.
Leopoldo aveva rimandato quanto più a lungo possibile la visita alle sue terre. Ma non poteva continuare a farlo. Aveva giurato al padre morente, e il giuramento fatto sul letto di morte è due volte sacro: don Fumagalli glielo aveva spiegato molto chiaramente. Poi glielo aveva ricordato anche sottovoce, durante la confessione.
Il conte Leopoldo Pellegrinetti arrivò dunque al suo podere Spadone nella tarda mattinata del 22 maggio 1900.
Scese dal calesse e subito il fattore Morini gli andò incontro. Il conte si asciugava il sudore sfregando irosamente il fazzoletto sulla nuca, sul mento, sulla bocca, sulla fronte. Diceva:
-Ma che caldo! Che caldo maledetto! Se sapevo che era così caldo, rimandavo questa gita all'autunno!-
Morini fece un inchino e, indicando con un grand'arco del braccio i contadini allineati, attaccò il discorso di benvenuto:
-Signor conte eccellenza, i contadini che hanno l'onore di lavorare per voi la vostra terra vi porgono il saluto della gratitudine e della riconoscenza.-
Queste poche solenni parole le aveva ideate don Fumagalli, che se le assaporava nella bocca chiusa mentre Morini le declamava affannato.
Il conte si passò ancora due tre volte il fazzoletto sulla faccia, guardò stupefatto Morini come se gli fosse apparso in quell'istante emerso dal suolo e fece:
-Eh?-
Morini riprese:
-Signor conte eccellenza, i contadini che hanno l'onore...-
Pellegrinetti lo interruppe:
-Sì sì. Grazie. Ho capito. Cosa dobbiamo fare adesso? Avete un po' d'acqua fresca?-
Il fattore fu terrorizzato: non aveva pensato alla sete del conte. Restò senza parole, con la bocca semiaperta a guardare la faccia lustra di sudore del conte, il quale domandò ancora:
-Si può bere?-
Morini si rivolse ad una donna della fila:
-Vai a prendere dell'acqua fresca per il signor conte!-
La donna, si chiamava Ada Canestri, chiese timorosa:
-L'acqua del pozzo?-
-No!- urlò il conte -Che pozzo? No! Non voglio mica prendermi il tifo! No! Niente pozzo!-
-Noi abbiamo solo l'acqua del pozzo.- rispose la donna, confusa, abbattuta, come ammettesse una colpa.
Il conte disse duramente:
-Berrò dopo, a casa mia. Vediamo di far presto.-
-Volete parlare con i contadini, signor conte?- gli domandò il fattore.
-Ma...non so... sì sì...parlo con i contadini...-
Morini e il prete avevano selezionato le persone da presentare al conte. Avevano lasciato in casa, e che non si facessero vedere, i vecchi, i malati, gli sciancati e i bambini più piccoli.
C'era una dozzina di contadini, donne e uomini, che stavano allineati sull'aia. Avevano i vestiti della domenica, ma era comunque roba che parlava di miseria e di fatica.
Il conte Pellegrinetti, abbigliato alla cacciatora, li guardava e teneva sulle labbra un sorriso che pareva ormai una contrazione incontrollabile dei muscoli della faccia.
Guardava quella gente e sorrideva, ma non c'era niente di lieto in quell'incontro a cui lo aveva obbligato il padre morente. Li guardava e, in verità, gli sembravano grosse scimmie su due zampe: erano tutti un po' curvi, con la pelle scura e opaca come cuoio, gli occhi piccoli, affossati sotto la fronte bassa e schiacciati dagli zigomi alti. Avevano occhi sperduti.
Gli sembravano veramente una specie diversa di umanità. Le mani, soprattutto, erano strane e diverse: erano grosse, anche quelle delle donne, con le dita ripiegate verso il palmo, come non potessero distenderle del tutto, con le unghie larghe.
-Come state?- domandò ad Ada Canestri.
Lei rispose:
-Bene, signor conte.-
-E cosa fate?-
-Faccio le cose in casa. Pulisco. Tengo i bambini e preparo da mangiare.-

Poi il conte si rivolse all'uomo accanto a lei:
-Cosa fate?-
L'uomo trattenne il respiro come se si preparasse ad un salto, poi rispose:
-Io lavoro la terra del signor conte.-
-E come fate?-
-Faccio...lavoro la terra... la semina, il raccolto, l'aratura, tutto...il campo e l'orto...-

A Leopoldo parve di essersi interessato abbastanza. Si rivolse al fattore e disse:
-Tutto a posto i conti? Rende bene questo podere?-
Morini si affrettò a rispondere:
-Sì signor conte eccellenza. Se volete entrare un attimo a guardare i libri.-
Il conte annuì. Soprattutto voleva andare un po' al fresco.
Quando furono dentro casa, Morini gli aprì diversi registri grandissimi, aperti coprivano tutto il tavolo. Il conte guardò un po' le righe delle cifre, che gli parvero file di formiche. Si stancò presto e, mentre Morini si atteggiava ad amministratore fedele e devoto, iniziò a guardare fuori dalla finestra.
I contadini erano ancora là allineati, perché nessuno gli aveva detto di andarsene. Pellegrinetti vide che stavano fermi, in attesa, sospesi e incerti. Sembravano tristi.
-Quanto lavorano al giorno?- domandò Pellegrinetti.
Morini fece:
-Come scusi?-
-Quante ore lavorano tutti i giorni?-
-Dipende dalle stagioni. Anche tredici quattordici ore, delle volte.-
-E come fanno?-

Morini non sapeva che dire. Poi:
-E' il lavoro. Il loro lavoro è fatto così.-
Il conte guardò la terra che si perdeva fino alla linea dell'orizzonte: era come un mare calmo denso verde e brillante. La terra era gigantesca, teneva su la volta del cielo, e certamente quei piccoli uomini dovevano sudare sangue per avere dalla terra la ricchezza morale e materiale che diceva il vecchio conte Urbano.
La terra era infinita; anche il vento più veloce non poteva percorrerla tutta. E quelle povere figurine nere si spaccavano la schiena sotto il sole per chiedere alla terra che nutrisse la gente.
Confusamente, il conte Leopoldo pensò di cominciare a capire cosa intendeva dire suo padre. Non sapeva bene come esprimerlo, ma sentiva che la terra era davvero la madre, che poteva fare ogni cosa, buona o cattiva, e che i contadini lavoravano tanto per farsela amica, per chiederle -in cambio di tanta fatica- il pane e il vino.
E quella gente, pensava disordinatamente, non erano povere bestie, come sembravano, ma erano nati come tutti, rosa e teneri, e poi erano cambiati diventando parte della terra a cui davano la loro vita. Solo adesso, vedendo i loro occhi fermi, comprendeva che quegli uomini e quelle donne, che pure lo ringraziavano, avevano una dura dignità solenne e dolorosa.
Forse, lui avrebbe dovuto ringraziare loro: non solo perché lavoravano tredici ore al giorno e facevano ricco lui, ma anche perché loro custodivano e curavano e celebravano il dono immenso eterno della grande terra portatrice di frutti. Questo pensava, assorto, quasi stranito, osservando la terra che rifletteva la luminosità del sole così intensa e piena che pareva essa fare luce.
(Quello stesso giorno, dieci ore più tardi, il conte Leopoldo Pellegrinetti era a letto con la cantante Aurora Frou Frou, che era la prima attrazione del Gran Café de Paris di Bologna, e le promise che con il ricavato della vendita del podere Spadone le avrebbe regalato l'appartamentino in Via Saragozza).




I libri di Paolo Cortesi






19 gennaio 2019

Riunione di Lavoro: Un Racconto di Paolo Cortesi




per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html

Domani, in Italia...


Il direttore aveva deposto sulla grande scrivania alcuni fogli; su ciascuno erano scritte solo poche parole, e i fogli sembravano bianchi; sul lustro del legno erano come fazzoletti ben stirati e la luce che veniva dall'ampia finestra, a lato, li faceva brillare. 
Il direttore si chiamava Apollonio Malozzi Canicchi Tincalli Gravasio; negli anni, la funzione aveva trasformato il suo corpo in una forma umana veramente dirigenziale: era corpaccioso e liscio, polposo, curatissimo, lento, basilicale, lo sguardo che si posava appena sulle cose, e ancor meno sulle persone, sguardo bizantino, geroglifico, aulico, cesareo; le basette geometriche intatte. Attraversati dal fiotto di luce che veniva dalla grande vetrata, i peli delle orecchie apparivano fili sottilissimi trasparenti, fili d'oro, come scintillii che apparivano e sparivano seguendo i moti, misuratissimi, del capo.
Il direttore teneva moltissimo ai quattro cognomi (due dei quali attribuiti da se stesso) e non rispondeva a lettere, mail o telefonate che non gli fossero rivolte appellandolo con tutti i quattro cognomi, i due veri e i due che gli erano piaciuti in un vecchio annuario della nobiltà italiana.
Ora, Apollonio guardava i fogli posati sull'enorme scrivania a cui sedeva; guardava un po' meno i cinque segretari che aveva fatto convocare e che stavano in piedi davanti a lui.
I cinque erano i suoi collaboratori. Così li chiamava, disprezzandoli tutti in cuor suo. 
I cinque aspettavano che il direttore (da loro cautamente chiamato lo stronzo, quando c'erano tante garanzie di segretezza ambientale) aspettavano da diversi minuti che il direttore dicesse per quale motivo li aveva fatti chiamare. Ma erano abituati a questa miserabile farsa, e fare aspettare i collaboratori era uno dei modi tramite i quali Apollonio godeva più pienamente del suo stato dirigenziale assoluto.
Apollonio guardava ciascun foglio con cura, quasi che non smettesse di trovarvi nuovi segni e nuove rivelazioni. Ogni tanto, toccava un foglio con la mano. Le dita, tozze e curve, quasi gonfie, terminavano con unghie strette, puntute. Guardò ancora a lungo, in silenzio. Picchiettava un foglio con l'indice a lungo, per tutto il tempo che lo guardava; poi si rivolgeva ad un altro, e iniziava a picchiettare quello, con un ritmo costante, pareva che contasse le battute, pareva che quel picchiare coll'indice ricurvo fosse la parte più importante, in quel momento, del suo lavoro dirigenziale.
I cinque collaboratori non avevano fretta; erano anni che conoscevano questa abitudine dello stronzo e dunque stavano lì come se aspettassero il tram.
E infine, Apollonio con i quattro cognomi aprì la bocca e, sempre picchierellando l'indice malfatto sul foglio candido, parlò:
-Questo...-
disse e poi tacque, come se un affanno, un'oppressione estrema lo soffocasse. 
Nessuno dei collaboratori disse nulla e intanto il direttore batteva il suo dito con il ritmo consueto, invariato.
-Questo potrebbe essere buono.- mormorò come parlando nel sonno, a voce bassissima.
-Sì, infatti.- disse uno dei collaboratori.
Il direttore interruppe il suo picchiare e portò la destra alla fronte; appariva più che assorto: appariva in una meditazione profondissima, quasi dolorosa.
-Però non so, non mi convince...- sussurrava il direttore che si teneva la fronte fra pollice e indice della mano destra -Non so...non...-
All'improvviso si scosse, guizzò come spinto da un coltello alle reni; afferrò i fogli che aveva vigilato e li porse ad un collaboratore, esclamando:
-Legga lei. A voce alta. Sentiamo come suonano.-
Poi, per insegnare qualcosa:
-Anche l'orecchio vuole la sua parte.- disse.
Il collaboratore che si prese i fogli era Emilio. Iniziò a leggere le due parole scritte su un foglio:
-Valorizzazione etica.-
Altro foglio:
-Correzione sociologica.-
Altro foglio:
-Ristabilimento morale.-
Altro foglio:
-Equità radicale.-
Ultimo foglio:
-Assestamento giuridico definitivo.-
Emilio aveva finito. Non sapeva se tenere ancora i fogli o ridarli al direttore, ma lo stronzo non dava alcuna indicazione in merito: se ne stava a labbra chiuse e occhi stretti. Fuori la luce del sole era piena e chiara e tutto quello che si vedeva dalla finestra era grandissimo e fitto di vita e di calore. Molte cose si muovevano: persone, automobili, cani, biciclette, una bandiera. 
-Non so.- prese a dire il direttore -Valorizzazione etica mi sembra... mi sembrava buono... ha segno positivo, perché il termine valorizzazione dà l'idea di una azione...un'azione benefica, che valorizza, che dà il giusto valore... così la gente apprezza, capisce che è una cosa utile, buona...-
-Da quando si chiamano termovalorizzatori gli inceneritori fanno meno paura.- commentò sorridendo il collaboratore Oreste, che il direttore ignorò.
-Però- continuò lo stronzo -questo termine non piace alla chiesa. Sua eccellenza il signor ministro me lo ha fatto capire chiaramente. È troppo forte, per la chiesa. Non si può.-
-Ma la chiesa ha dato il via libera, quindi...- fece il collaboratore Corrado.
-Sì sì. Però certe sfumature, certi dettagli, come dire?, certi particolari, capito?, certi dettagli certe sfumature sono importanti... su questo non si scappa. Bisogna stare attenti a questi dettagli che sono essenziali. Dico essenziali.- disse gravemente il direttore, come trasumanato dalla sua stessa potenza.
Il collaboratore Emilio restituì i fogli al direttore, dicendo:
-Ristabilimento morale mi sembra possa andare bene.-
Apollonio dai quattro cognomi guardò con una nuova tenerezza i fogli planati sulla scrivania.
-Sì, forse... non so...- sussurrava -magari è un po' duro... troppo laico... non so...-
Tutti tacquero: Apollonio sfinito per la gravezza del lavoro che doveva svolgere (cioè scegliere il termine chiave per la stesura della legge Morani); i collaboratori esausti per questa impudica perdita di tempo.
-Io eliminerei senz'altro "correzione sociologica"; mi sembra cupo e anche improprio.- disse il collaboratore Michele.
-Eh, cupo...- sbottò il direttore - In fondo, sempre di pena di morte si tratta.-
-Sì; però quella parola correzione fa subito venire in mente i compiti, i brutti voti, le interrogazioni, la scuola.... alla gente non andrà giù...-
Il direttore Apollonio annuì:
-Vero. Questo non va bene.- e appallottolò con forza eccessiva il foglio che recava la scritta sciagurata. Lo lasciò cadere in terra.
-Anche equità radicale può creare confusione...non fa venire in mente le tasse?- domandò il collaboratore Corrado.
Apollonio chinò un po' la testa e strinse le labbra (pareva volesse buttare un bacio alla scrivania); picchiò ancora ritmicamente il dito curvo ad uncino su un foglio.
-Assestamento giuridico definitivo.- disse infine col tono della dichiarazione -E' il termine più adatto, il più corretto. Questo va bene.-
I collaboratori non dissero nulla, tanto al direttore non interessava niente che venisse da loro. 
Apollonio il direttore Apollonio era fiero di sé. Anche questa volta era stato il migliore.
-Assestamento giuridico definitivo.- disse ancora il direttore, questa volta un po' più lentamente, per fare scorrere le parole davanti agli occhi e a lasciarle misteriosamente fluttuare in aria, davanti a sé, brillanti e leggere nella grande luce che prorompeva dalla finestra tersa.




14 dicembre 2018

Udienze Scolastiche. Un Racconto di Paolo Cortesi

Un Racconto surreale di Paolo Cortesi. Un futuro al contrario in un paese che non legge, dove i libri sono un pericoloso strumento di conoscenza e ai bambini si regalano smartphone e videogiochi per tenerli lontani dai libri.

per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html



Domani, in Italia…

Si sistemò i capelli, un ciuffo rotondo al lato della fronte, e il gesto sembrò in qualche modo legato a quello che disse subito dopo:
-Io capisco... vi capisco bene... però, voi capite...-
La donna si affrettò a rispondere alla professoressa:
-Sì sì sì, ma certo-, poi dopo questo lampo di parole, imprevisto come un accesso di tosse, la donna tacque e restò in attesa e mostrò di aver fatto tutto quello che si poteva aspettare da lei.
La professoressa Siliani Giuliana toccò ancora il ciuffo dei capelli; era evidentemente il gesto che ripeteva quand'era imbarazzata. Disse:
-A un certo punto, il consiglio dei docenti ha creduto giusto, direi doveroso, avvertire voi genitori.-
La mamma di Carlo fece sì con la testa e guardò la punta delle dita della professoressa. Il babbo di Carlo non aveva ancora detto niente, solo buongiorno quand'era entrato nella sala insegnanti, dieci minuti prima.
Il padre di Carlo aveva un'autofficina; era piuttosto ricco, ma il suo aspetto era quello di un lavoratore povero che usava muscoli e tenaglie; aveva le mani grosse, le dita quasi gonfie, curve, con tanti taglietti scuri sui polpastrelli, sul dorso e sulle nocche; aveva le macchie del grasso e della morchia che, anche dopo il lavaggio col sapone speciale, lasciavano un alone scuro, come di ustioni.
La professoressa non si aspettava che lui intervenisse nella conversazione; pensava che la moglie se lo fosse portato dietro perché finalmente si occupasse un po' pure lui del figlio. Nei suoi vent'anni di scuola, ne aveva visti tanti di padri così, che dei figli sanno poco e non ci vogliono perdere tanto tempo. Non sono cattivi, ma sono pigri e rassegnati; i figli sono loro estranei quanto un condomino con cui si scambiano appena i saluti.
Così, il babbo di Carlo (si chiamava Ennio) stava seduto e con la pancia pareva reggere la scrivania a cui sedeva, dall'altro lato, la professoressa; accanto a lui, la moglie Anna occupava poco spazio, perché era magrolina e raccolta e si vedeva che non era a suo agio.
-Carlo è un ragazzino bravo.- iniziò a dire la professoressa -È intelligente e ben relazionato in classe.-
Anna sorrise.
-Non si distrae spesso e partecipa alle lezioni con contributi personali.- continuava la Siliani. Anna pensava che diceva tutte queste cose belle per prepararli alla botta finale.
Ennio intervenne:
-Se va così bene, perché ci ha chiamato qua?- domandò senza staccare le manone che teneva intrecciate, sulla scrivania.
Anna gli toccò un braccio e disse, guardando la professoressa:
-Stai buono. Lascia parlare la signora.-
La Siliani fece un mezzo sorriso e disse in un soffio:
-No per carità, dica pure.- e bastò questo perché Ennio tacesse.
-Carlo non è un ragazzino difficile, problematico.- continuò la professoressa -Per questo abbiamo pensato opportuno intervenire subito, prima che sia un po' tardi...-
-Tardi?- mormorò Anna. La botta era arrivata.
-Sì, perché il comportamento di Carlo... cioè, noi abbiamo capito che è un ragazzino capace, ma può prendere una.... eh...-
Ennio fece, con gli occhi spalancati, come aggredito:
-Una brutta strada?-
-Non volevo dire così, però... insomma... ecco... come dire?...-
Ennio restava incerto e immobile, guardava la moglie e aspettava di uniformarsi alla sua reazione. Anna, però, sembrava inerte: fissava la professoressa e teneva sulla faccia un sorriso piccolo, sommesso, quasi involontario. La professoressa Siliani capì che non era il caso di tirarla tanto lunga; i due genitori che le stavano davanti non sembravano capaci di partecipare in modo costruttivo alla chiacchierata. Doveva dire tutto chiaro e tondo. Loro non volevano altro. Anche se la faccenda si faceva, per lei, più faticosa.
-Vede, signora, noi lasciamo ai ragazzi una certa libertà, perché se no la scuola sarebbe...sarebbe...sarebbe una galera, una caserma...eh?- disse la professoressa, con tono conciliante.
-Sì sì.- Anche Ennio disse:
-.-
Siliani annuì e continuò:
-Però bisogna che ci sia il controllo da parte nostra, da parte degli educatori. Così noi cerchiamo di stare vicino ai ragazzini soprattutto quando vediamo che c'è qualcosa che non va... che non va bene... qualcosa che noi abituati a conoscerli e a vivere con loro tutti i giorni...-
-Ma cos'ha fatto Carlo?- esclamò Ennio e mise tutta la sua anima nelle parole, dette a voce più alta e piena, senza muoversi, con le due mani posate sul bordo della scrivania.
-È un'età delicata. È adesso che si formano per il domani.- rispose la professoressa e pareva che non avesse neppure ascoltato l'uomo.
-Allora?- incalzò Anna, supplichevole.
La Siliani aprì un cassetto della scrivania, estrasse un libro e lo posò davanti ai due genitori, che lo fissarono come se non fosse un libro, ma un pezzo di carne appena tagliata dal corpo del figlio.
Era "Le avventure di Huckleberry Finn" di Mark Twain; un piccolo libro che aveva un disegno colorato in copertina.
Il babbo ebbe un rantolo sofferto:
-E questo?...-
La professoressa disse:
-Gliel'ho sequestrato due giorni fa. Prima ancora gli avevo preso questo. Non vi avevo detto niente. Volevo aspettare. Volevo capire.-
Posò accanto al libro un altro volumetto: l'Odissea in una versione per ragazzi. Entrambi i libri erano vecchi, con le copertine opache per un velo appiccicaticcio di sporcizia e polvere. Gli angoli delle pagine avevano pieghette e tagli.
Ennio fece:
-Madonna...- e alzò un po' la testa, come per allontanarsi dagli oggetti che sembravano due cadaverini sul tavolo.
La mamma Anna domandò con apprensione:
-Ma è sicura che li avesse Carlo? Non poteva averli un suo compagno? Magari glieli hanno messi sotto al banco e lui non sapeva niente.-
La professoressa fece un sorriso bonario, mosse un po' la testa per negare, rispose con la dolcezza che si usa coi malati:
-Mi dispiace, ma li aveva Carlo. Li stava leggendo.-
Anna si portò le mani alla bocca. Ennio strinse i pugni furiosamente, emise un gemito, poi:
-Li leggeva lui? Lei lo ha visto che li leggeva?-
La Siliani disse sì con un filo di voce, appena udibile, come se volesse avvicinarsi quanto più possibile al silenzio.
Per la prima volta, i due genitori si guardarono l'un l'altra. Anna abbassò subito gli occhi, ed Ennio si mordicchiò l'unghia nera del pollice.
-Leggeva i libri.- sussurrò.
La professoressa cominciava a pentirsi di non aver voluto la psicologa di classe accanto a sé. Aveva sottovalutato il dolore dei genitori.
-Ma lui cosa dice?- domandò Ennio, con la voce incontrollata con cui si rivolgeva ai suoi lavoranti.
-Sì. Gli ha parlato? Ne avete parlato?- domandò Anna.
-Dice che gli piace leggere.- rispose in fretta la Siliani.
Ennio chiuse gli occhi. Restò così per un minuto. Poi fece un gran respiro e prese fiato come se stesse per alzare un grosso peso e disse inarrestabile:
-Io non lo so. Non lo so. Ci siamo stati attenti a quel bambino. Magari io ero spesso al lavoro e non stavo tanto a casa. Ma lei capisce. Chi porta i soldi a casa, se no? E come si campa senza soldi? Ma mia moglie è sempre stata brava. Gli è sempre stata attenta. Fin da piccolo piccolo che andava all'asilo gli abbiamo comprato tutti i film che uscivano, poi le musiche. Tutte le canzoni. Tutte. Guardava sempre la tv. Ma mi creda: sempre. Entrava a casa, lo mettevamo davanti alla tv e ci stava per sette otto ore. A due anni già conosceva tutti i gruppi, i solisti. Perfino gli svedesi. Cantava le canzoni senza sbagliare una parola. Poi lo abbiamo iscritto subito a balletto e poi al corso di comico con specializzazione cabaret. Abbiamo speso un sacco di soldi. Eh Anna? Poi cosa abbiamo fatto? Ah sì! A sei anni, a sette non mi ricordo, lo abbiamo iscritto a un corso di ipod. Il suo primo smartphone gliel'abbiamo regalato quando gli è spuntato il primo dentino. Era piccolino e conosceva tutti i nomi dei suv dei fuoristrada delle macchine sportive. Lo portavo con me sempre alla partita sempre sempre. Pensi che è stato per un paio d'anni la mascotte ufficiale del mio gruppo di ultras. Gli volevano tutti bene. Cantava le canzoni della tifoseria e ne sapeva tante a memoria. Eh Anna? ti ricordi? Allo stadio una volta ha anche avuto il microfono e cantava e tutti tutti in cinquantamila gli hanno battuto le mani. Mi è venuta la pelle d'oca, giuro. Guardi, in casa non c'è mai stato un libro ma mai mai; pensi che una volta..."
Anna tentò di placare la foga affannata del marito:
-Ennio, la professoressa non...-
-Ma un minuto! Solo un minuto!- gridò lui, perché si doveva capire bene che non aveva colpa -Pensi che una volta, in tv, vide una scena d'un vecchio film dove c'era un libro. Era una scena in prima serata che era scappata alla censura. Mi chiese: babbo cos'è? e io: ma niente, una roba vecchia brutta schifosa puzzolente che non c'è più. Lui voleva sapere cos'era a cosa serviva, ma io dissi subito: no no non devi interessarti di quella roba che fa male che rovina la gente.-
Ennio si arrestò, esausto, disorientato. Aveva la faccia di chi è arrivato correndo in un posto che non conosce.
La moglie Anna, dopo una breve pausa in cui tutti stavano in attesa, intervenne cauta:
-Guardi che noi ci siamo stati sempre attenti, al bambino. Pensi che una volta lui trovò un libro vecchio rotto in casa della nonna...-
-Tua mamma.- esclamò Ennio, assorto.
-Sì. Appena gli ho visto quella cosa tra le mani gliel'ho presa, gliel'ho buttata via.-
La professoressa intervenne:
-Ma forse era meglio se non dava peso, se glielo portava via dolcemente. Così forse ha fatto nascere in lui un interesse morboso, una curiosità che altrimenti non avrebbe avuto.-
-Eh dice bene lei.- rispose Anna, risentita, che si sentiva accusata -Ma quando ho visto quella cosa nelle sue manine... guardi, mi si è gelato il sangue nelle vene... avrei voluto vedere lei...-
Poi Anna tacque, perché non voleva irritare la professoressa. Esiste sempre un limite che chi non ha potere non valica mai.
La Siliani sorrise e abbassò lo sguardo, e guardando le mani grosse di Ennio disse:
-Adesso dobbiamo solo pensare al bene di Carlo. Il consiglio docenti gli ha affiancato un sostegno per il corso di analfabetismo.-
-Il sostegno.- mormorò Anna e guardò appena il marito, che sembrava non essere più in grado di parlare, dopo quella tirata fitta di prima.
-Sì, ma non vuol dire niente, non si preoccupi. È solo un aiuto, un sostegno. Non pensi male.-
-Il sostegno.- ripeté Anna, e nella sua voce perduta la parola suonava come il nome di una malattia.
La Siliani aveva già visto altre volte certe facce, certi occhi. Stava per dire le solite cose per consolare i genitori sconvolti. Si vergognava un po', dopo tanti anni, a recitare sempre la stessa parte e dire le stesse cose. Era stanca di vedere le facce patite e dolenti dei genitori che scoprivano figli diversi da quelli che credevano di avere in casa.
-Non vi preoccupate troppo.- iniziò a dire e ripeté quasi esattamente ciò che aveva detto la settimana prima a genitori convocati perché la figlia sapeva a memoria L'infinito che aveva detto ad un'amica di nascosto -Con un corso intensivo di un paio di mesi, Carlo diventerà analfabeta irreversibile. Qui seguiamo il corso psicodidattico di Khek Zalovic. E fra poco il vostro bambino avrà tanto orrore dei libri che non vorrà neppure vederne uno.-
-È colpa di quei porci che spacciano libri ai bambini!- esclamò Ennio, che misteriosamente puntò il grosso indice verso la faccia della professoressa e lo tenne così finché quella non sembrò annuire -La pena di morte ci vorrebbe, per quei delinquenti maledetti che rovinano i bambini! La pena di morte ci vorrebbe.-
Tacquero. La Siliani stava per iniziare la lenta goffa fase dei saluti, quando Ennio, fissandosi il dito, disse a voce bassa, parlando al suo dolore:
-Ma se ne prendo uno......-



I libri di Paolo Cortesi






09 dicembre 2018

Incontro con l'autore: PAOLO CORTESI


per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html



Moltissime biografie di personaggi non celebri (non abbastanza famosi da avere chi scriva la loro biografia) sono in terza persona, ma scritte dal biografato. Per lealtà verso chi legge, dichiaro che sono l’autore di queste note, scritte in terza persona per rispetto alla tradizione.

Paolo Cortesi è nato a Forlì il 23 novembre 1959. Nipote di capomastro e figlio di ebanista, è piuttosto incapace di lavori manuali per cause di cui è pienamente cosciente ma che non possono interessare chi legge. Ha frequentato il Liceo Classico G.B. Morgagni di Forlì, in cui ha sperimentato cosa sia la divisione in classi della società; di quei cinque anni ha un ricordo molto deprimente. Si è laureato in Filosofia (con lode, precisa con vanità) nel 1983 presso l’Università di Bologna; aveva scelto la facoltà piuttosto improvvisamente, dopo una lunga attenzione verso Lettere, in seguito alla lettura dello Zarathustra di Nietzsche, che però è opera molto più lirico-mistica che filosofica, dunque è possibile sospettare che sia stata una decisione un po’ imprecisa. Ma ormai….

Iniziò prestissimo a scrivere: risale ai suoi otto anni il suo primo “romanzo”, ovvero una storia avventurosa (esploratori, isola misteriosa, cannibali) che orgogliosamente fece leggere al suo maestro, l’indimenticato Natale Brigliadori, il quale restituì il quadernetto le cui pagine erano solcate di decine di correzioni che lo lasciarono basito. Le sue prime prove in prosa erano peggio che mediocri, erano infami. E lo restarono per molti anni.

Dopo una prima intensissima stagione di poesia (che ora gli è del tutto estranea), si dedicò alla saggistica: storia locale (ha collaborato a lungo con giornali e riviste locali e lo fa ancora), storia contemporanea, storia delle idee, storia del pensiero esoterico rinascimentale.

Nel 2004 pubblicò il suo primo romanzo “Il fuoco, la carne” che ha vinto il Premio Todaro Faranda per il romanzo inedito. Nel 2006 fece l’errore più atroce della sua vita, che scontò dieci anni dopo con grande sofferenza
Nel 2008 pubblicò “Il patto”, che ebbe un buon successo, se si pensa che uscì con un piccolo editore come Nexus.
Nel 2011 uscì “La velocità dei corpi”, romanzo cui è molto affezionato e che considera forse la cosa migliore che ha scritto finora. Fu pubblicato da un grande editore (Piemme) che non lo lanciò come l’autore avrebbe voluto. Con Piemme pubblicò anche “Marcel Proust e l’assassinio delle Tuileries” (2014), romanzo giallo con una accuratissima ricostruzione della Parigi del 1912; nella storia, Proust risolve un caso criminale senza mai uscire di casa (e davvero Proust restava chiuso per lunghi periodi…).

Ha pubblicato diversi volumi di saggistica con la Newton Compton, a partire dal 2001, e il rapporto continua tuttora: nel 2018 è prevista l’uscita di un libro dedicato all’Emilia Romagna nella collana “Forse non tutti sanno che…”. E sempre nel 2018 è attesa l’uscita, presso l’editore Carocci, di un saggio sull’opera di Nostradamus, un saggio molto documentato e dunque molto critico.

Lo scrittore in lingua italiana che preferisce è Dante Arfelli. Ha due figli, Federico e Giacomo, che stima molto. Totalmente astemio, è moderatissimo fumatore di sigari e colleziona cartine da gioco per bambini.

Per conoscere meglio le opere di Paolo Cortesi accedi al sito www.paolo-cortesi.com
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L'officina di Nostradamus è presente in biblioteca prenotalo qui