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03 aprile 2024

Immagine del settimanale “LA  TRIBUNA  ILLUSTRATA” del  14/01/1894
“I  CASI  DI  SICILIA  –  GLI  INCENDI  DI  PIETRAPERZIA”

Il fascio dei lavoratori di Pietraperzia davanti al Tribunale militare di guerra di Caltanissetta. A centotrenta anni da quei drammatici eventi, quale memoria ne conserva la comunità pietrina?

 

In memoria di Salvatore Di Gregorio
nato a Pietraperzia il 7/4/1865
villico, iscritto al locale Fascio dei Lavoratori

 


Giusto 130 anni fa, il giorno 3 di Aprile del 1894, a Caltanissetta prendeva avvio un processo a carico di 73 imputati (fra cui dieci donne) tutti quanti di Pietraperzia.
L’accusa per tutti loro è quella di “avere nel di 1 gennaio 1894 commessi fatti diretti a suscitare la guerra civile ed a portare la devastazione del detto comune di Pietraperzia e per avere nelle suddette circostanze usate violenze e minacce con armi per opporsi a pubblici ufficiali (carabinieri, truppa) ... e ciò commesso in riunione di oltre cinque persone con armi ed in riunione di oltre dieci persone previo concerto”.
A giudicarli sarà il Tribunale militare di guerra per le province di Caltanissetta e Girgenti.
Ma quali sono i fatti di cui devono rispondere e perché a giudicarli è un tribunale militare di guerra?
Il contesto storico nel quale si svolge quel processo è quello che segna l’epilogo drammatico dell’esperienza dei fasci siciliani dei lavoratori; una vicenda che percorse la Sicilia, le sue città e le sue campagne allo spirare del XIX secolo e che vide consumarsi a Pietraperzia una pagina importante di quella tragica ed esaltante epopea.
Una storia, quella dei fasci dei lavoratori siciliani che a buon diritto è considerata una pagina di primo piano della storia d’Italia, della storia del socialismo e del movimento operaio e contadino del nostro paese.
Ebbene, quella Storia irruppe con tutta la sua forza anche nella vita della piccola comunità di Pietraperzia, della sua gente, ne sconvolse la quotidianità e ne segnò in qualche modo la vita.
Questa volta la storia di Pietraperzia non si identifica con la storia di questa o quella dinastia; con questo o quel casato più o meno nobile e illuminato che si incarica di rappresentarne lustro e ruolo. È la storia di una moltitudine senza blasone; la storia di gente senza storia. Si accese, in quella breve stagione, come una scintilla che diede a quella comunità di viḍḍàni senza istruzione, la consapevolezza che potevano prendere in mano e farsi protagonisti della propria storia per correggere un futuro di miseria e privazioni che gli era cucito addosso come un destino ineluttabile.
Come si sa, finì in tragedia! Quelle aspirazioni vennero sconfitte e duramente represse; l’illusione fu spezzata e le umiliazioni che ne seguirono alimentarono ancor più, rabbia e frustrazione in tutta la comunità e all’interno di quelle famiglie.
Ebbene, il processo di Caltanissetta è la rappresentazione tragica ed emblematica della brutalità con la quale venne spenta quella speranza.
Ma, si diceva, di quali fatti sono accusati quegli imputati?
I fatti sono quelli accaduti a Pietraperzia nel giorno di capodanno del 1894.
In quella giornata si era svolta nelle strade di Pietraperzia una manifestazione di protesta organizzata dal locale fascio dei lavoratori durante la quale il paese era stato teatro di tumulti e devastazioni anche di uffici pubblici compreso il palazzo comunale. Ma oltre alle devastazioni, il bilancio della giornata registrò nove morti sparati rimasti per terra nel piano innanzi alla chiesa di Santa Maria e quindici feriti tutti quanti tra i manifestanti oltre ad alcuni contusi tra le forze dell’ordine.
Rapporti di polizia, corrispondenze giornalistiche, testimoni offrirono ricostruzioni non univoche sulla cronaca di quella giornata. Di esse da conto l’ottimo lavoro di Vincenzo Di Natale “Il Fascio dei lavoratori di Pietraperzia”[1].
Ma come vengono ricostruiti gli avvenimenti di quella giornata nella sentenza che concluse il processo? Riportiamone alcuni stralci. Scrivono i giudici “Nelle ore antimeridiane di quel 1° gennaio i componenti del fascio tennero una riunione segreta nella quale si stabilirono certamente le modalità della dimostrazione che doveva avere luogo in tal giorno...” Il corteo mosse verso le due del pomeriggio uscendo dalla chiesa Madre al grido abbasso le toghe, abbasso il municipio.
Nella piazza S. Domenico, davanti al palazzo comunale, Filippo Napoli (segretario del locale fascio) tenne un comizio “che terminò con le parole quello che facciamo è per la fame...”
“Quella turba tumultuante” – prosegue la sentenza - scese ancora verso il piano di San Rocco esi diresse per l’ufficio centrale del dazio ma giunto davanti alla chiesa di S. Maria trovò la forza che tentò di fermarlo”.
E qui si consumò la tragedia! Seguiamo ancora la ricostruzione dei giudici.
Di fronte alla truppa schierata “la turba sempre più eccitata accennava a violenze …incominciava a scagliare sassi contro la forza. Diventò anche più accanita quando si diedero i tre squilli di tromba tanto che parecchi soldati furono colpiti e contusi.”
Ma il peggio deve ancora accadere. Infatti, prosegue la ricostruzione del collegio giudicante, “Nella speranza di intimorire quella turba vennero tirati dalla forza alcuni colpi in aria … dalla folla vennero tirati alcuni colpi di arma da fuoco contro la truppa per cui l’ufficiale che la comandava fu costretto ordinare il fuoco per non lasciarsi sopraffare…”
Ne seguì la decisione della truppa di ritirarsi in quartiere (nel convento di S. Maria) lasciando campo libero ai manifestanti.
Dunque, la truppa prima sarebbe stata fatta segno di lanci di pietre, poi di colpi di arma da fuoco da parte dei manifestanti e, solo in risposta, avrebbe a sua volta sparato per non lasciarsi sopraffare.
E tuttavia i morti si conteranno solo dalla parte dei manifestanti, mentre sul fronte della truppa saranno annotati solo contusi, alcuni con lesioni guarite oltre i 20 giorni.
In effetti l’ipotesi dell’uso di armi da fuoco da parte dei manifestanti, prima che la truppa si vedesse costretta a rispondere, a parte il rapporto di polizia assunto nella ricostruzione processuale, non riscosse gran credito nelle cronache delle numerose corrispondenze giornalistiche di quelle giornate (dalla Gazzetta Nissena al Giornale di Sicilia, da Vita Nuova al Corriere della Sera, alla Revue de Paris); le stesse testate più filo governative diedero una versione dei fatti non collimante con la ricostruzione operata dalle autorità di polizia e comunque piuttosto evasiva sull’uso di armi da fuoco da parte dei dimostranti.
Una ricostruzione che il deputato Napoleone Colajanni non esitò a definire falsa, in un appassionato intervento che tenne nel corso del dibattito alla Camera dei Deputati che si svolse nel successivo mese di febbraio del 1894 sui fatti in Sicilia: “Si è scritto e si è detto che i contadini di Pietraperzia fecero uso delle armi prima del massacro. È falso!  Io vi domando: dove sono i feriti, dove sono i contusi fra le truppe? Abbiamo avuto massacri, in otto o dieci paesi…. In nessun punto troviamo traccia di conflitti; non troviamo uso di armi, da fuoco o da taglio… Or bene, una folla armata che spara contro la truppa, non ne ferisce uno, non ne ammazza uno! Tranne il soldato ucciso a Belmonte Mezzagno, il disgraziato Sculli, tutti gli altri soldati sono rimasti illesi; …. A Santa Caterina sapete in che numero era la forza pubblica che uccise 11 persone, e ne ferì 23? Otto soldati di fanteria, 4 carabinieri ed 1 tenente dei carabinieri. Ebbene essi tirarono sul popolo, perché ebbero paura di 5.000 uomini. Ma ditemi, se questi 5.000 uomini avevano intenzioni aggressive, e volevano difendersi, ma che cosa sarebbe avvenuto di questi 13 soldati?”
In quanto ai metodi utilizzati per imbastire una versione di comodo di quegli eventi, Colajanni accusò senza mezzi termini le autorità di polizia di avere costretto alcune delle persone arrestate a Pietraperzia “…a sottoscrivere delle carte, delle quali ignoravano assolutamente il contenuto”.
Ma naturalmente, il presupposto dell’uso delle armi da parte dei manifestanti contro la truppa (costretta a sparare per rispondere a quelle fucilate) rappresentava un elemento essenziale nella configurazione di uno dei reati per i quali si procedeva (violenze e minacce con armi per opporsi a pubblici ufficiali) e della responsabilità degli imputati. Sarà dunque questa la versione dei fatti che, assunta nelle carte processuali, determinerà la sentenza.
Sentenza che semplicemente ignora la presenza dei morti nel luogo e nel corso dei tumulti: in nessuna parte di essa se ne parla. Quei cadaveri sono semplicemente irrilevanti ai fini processuali.
Rilevante, ai fini processuali, è quello che successe dopo l’eccidio nel piano di Santa Maria. Infatti, prosegue la ricostruzione dei giudici, “Dopo che la truppa si era ritirata, la turba sempre più eccitata dai caporioni del fascio anzitutto si reca a bruciare l’ufficio principale del dazio… indi si portò al convento di S. Domenico ove risiedevano il municipio, la pretura, il telegrafo e l’ufficio di registro ed in breve tutto venne messo a sacco e fuoco… uguale destinazione facendo dei circoli dei civili e dei buoni amici. Quella turba selvaggia si recò allora alle carceri per liberare i prigionieri e quindi si recò ad assaltare la casa della Esattoria, ma tanto nell’uno quanto nell’altro posto furono vigorosamente respinti e fugati.”.  Questi i fatti assunti nel processo.
Ma perché a giudicare di quei fatti e della responsabilità degli imputati doveva essere un Tribunale militare di guerra?
Per questo dobbiamo ritornare brevemente a quel contesto storico.
In quel volgere di anno, tra la fine del 1893 e l’inizio del 94, si produsse nella storia del regno d’Italia una profonda svolta politica che vide le dimissioni del governo Giolitti e la nascita del nuovo Gabinetto Crispi che fu presentato alle Camere il 20 dicembre 1893.
Nell’economia di questo breve intervento non posso che rinviare alla copiosa storiografia esistente sulle implicazioni e i presupposti connessi a quel passaggio cruciale nella storia d’Italia. Qui ci si limita a riportare alcune delle principali conseguenze che quegli eventi ebbero sul fronte delle vicende siciliane e pietrine che qui vogliamo raccontare.
Come primo atto, il 23 dicembre, il Consiglio dei ministri votò l’autorizzazione al Presidente a proclamare lo stato d’assedio nelle province siciliane “ove e quando l’avesse creduto necessario”.
Il 24 dicembre il generale Morra di Lavriano fu nominato comandante del XII corpo d’armata in Sicilia e reggente della prefettura di Palermo.
Seguì l’invio in Sicilia di una forza militare di ulteriori 30.000 uomini.
Il segnale che il Governo inviava con quei provvedimenti era inequivoco e di grande risolutezza sulla volontà di volere ripristinare l‘ordine in Sicilia.
E tuttavia a quelle decisioni il siciliano Crispi, forte anche del seguito e del prestigio personale di cui godeva nell’isola, associò una iniziativa indubbiamente connotata da una certa apertura e da un certo grado di comprensione delle ragioni sociali che erano alla base delle proteste promosse dai fasci.
In particolare, il 25 dicembre Crispi diramò una circolare ai prefetti dell’isola con la quale indicava tra le cause del malcontento delle popolazioni lo stato di indigenza, i tanti vizi delle amministrazioni locali; corruzione, privilegi, iniqua ripartizione delle imposte locali “il cui peso veniva fatto gravare prevalentemente sui  lavoratoriÈ tempo di correggere cotesti errori e sarebbe questo il vero mezzo per impedire giorni luttuosi e di portare la pacificazione degli animi di coloro che vivono della loro opera manuale”. La circolare si concludeva con l’invito ai prefetti dell’isola ad intervenire sulle amministrazioni locali nel senso auspicato dal governo.
Come osserva lo storico Francesco Renda[2], nell’intento del Presidente del Consiglio, la circolare avrebbe dovuto contribuire a disinnescare il malcontento della popolazione ed il diffondersi delle agitazioni nei comuni siciliani ed incanalare la protesta verso una piattaforma legalitaria. Avvenne esattamente il contrario!
Quello che venne letto come un riconoscimento governativo delle ragioni delle proteste, la sostanziale inerzia, quanto non l’ostilità, delle amministrazioni a dare seguito a quegli indirizzi, moltiplicarono le iniziative dei fasci; in quelle giornate furono numerose le manifestazioni promosse dal movimento e scattò una repressione violenta contro di esse.
Teatro di quelle violenze furono tanti piccoli comuni delle province siciliane: Pietraperzia tra essi. In quelle settimane, da Giardinello a Lercara, da Pietraperzia a Gibellina, da Belmonte Mezzagno a Marineo e Santa Caterina si contarono 85 morti tra i partecipanti a quelle manifestazioni. Vennero operati arresti di massa, migliaia di persone furono mandate al confino e sospese le libertà individuali, l’inviolabilità del domicilio, la libertà di stampa e il diritto di riunione e di associazione.
In quelle drammatiche giornate, in una corrispondenza con il prof. Girolamo De Luca Aprile (riportata nell’opera di Renda citata), il Presidente del Consiglio scriveva “I saccheggi gli incendi, le rapine, gli assassini non possono confondersi con la politica né possono cessare con atti di benevolenza. All’apertura del Palamento, tornata la calma in Sicilia, proporrò leggi utili al miglioramento delle classi operaie. Oggi nulla posso promettere di fronte alle plebi insorte per ordine di palesi o occulti incitatori”. Così dunque Crispi riassumeva la linea d’azione del governo: una risoluta azione per ripristinare l’ordine in Sicilia con le leggi speciali e la repressione militare poi, tornata la calma, attendere a quei provvedimenti utili al miglioramento delle classi operaie.
Alla luce dei fatti successivi, si può ben dire che maggiore efficacia ebbe l’azione governativa sul primo degli obbiettivi, molto, molto meno sul secondo.
I provvedimenti che daranno corpo all’indirizzo governativo vennero assunti in rapida successione.
Dopo l’autorizzazione governativa alla proclamazione dello stato di emergenza, già deliberata dal Consiglio dei Ministri in dicembre, il relativo decreto fu sottoposto al Re ed emanato il 3 gennaio del 1894.
Con esso venne dichiarato lo stato d’assedio nella città di Palermo e in tutte le province siciliane ed il generale Morra di Lavriano fu nominato Commissario straordinario con pieni poteri sotto la cui dipendenza sono poste tutte le autorità civili e militari dell’isola.
Con proprio editto del 5 gennaio il Commissario straordinario istituì tre Tribunali militari speciali (Palermo, Messina e Caltanissetta) cui deferire i responsabili dell’ordine turbato e rese applicabili alle persone estranee alla milizia “le disposizioni relative al tempo di guerra stabilite dal codice penale per l’esercito”.
L’11 gennaio i Prefetti dell’isola ebbero la delega per: “lo scioglimento di ogni singola sezione dei fasci siciliani e il sequestro delle carte, dei registri, dei gonfaloni, delle bandiere e di quant’altro sia di pertinenza dei sopradetti Fasci in quanto l’azione fin qui spiegata da essi è stata causa delle agitazioni, dei disordini e delle sommosse avvenute in alcuni comuni.”
Con decreto speciale del febbraio 1894, venne messo a punto un penetrante sistema di censura preventiva oltre che sui giornali siciliani anche su quelli provenienti dal resto del paese per le notizie riguardanti gli avvenimenti nell’isola; alcune testate vennero chiuse e furono introdotte forti restrizioni per i permessi di entrata nell’isola di esponenti politici provenienti dal resto d’Italia.
Si perfezionò così l’armamentario poliziesco-giudiziario volto a cancellare quel movimento e si ebbe cura che il tutto potesse avvenire senza troppo clamore.
Da quel valente soldato che era, il generale Morra di Lavriano non risparmiò energie e determinazione nel portare a compimento la missione affidatagli predisponendosi, come ebbe ad anticipare, “ad una applicazione pronta ed energica dei rigori della legge”.
Lo Stato d’assedio andò avanti fino al mese di agosto di quell’anno e il generale, commissario concludeva con queste parole la propria relazione conclusiva al Governo: “…vedere conservata la pace, che ho procurato di ridare stabilmente a questa regione ed il saperla continuamente diretta ad ottenere il suo miglioramento economico ed amministrativo, sarà il miglior compenso all’opera da me prestata in favore di questa terra benedetta”. A riconoscimento dell’ottimo lavoro svolto, Morra di Lavriano a conclusione di quel suo impegno, venne insignito dell’onorificenza di Grande Ufficiale dell’Ordine Militare d’Italia.
Ma torniamo agli avvenimenti di inizio anno.
Nelle giornate drammatiche che portarono, il 3 gennaio 1984, a decretare lo stato di assedio in tutta la Sicilia, il Parlamento del Regno d’Italia era chiuso, in pausa natalizia. Alla sua riapertura, a partire dal 21 febbraio 1894, la Camera dei Deputati dedicò una tormentata sessione di lavori ai tumulti scoppiati in Sicilia ed ai provvedimenti adottati dal Governo volti a ripristinare l’ordine in quella Regione.
Crispi - primo Ministro e Ministro degli interni - fu protagonista assoluto di quel lungo ed aspro dibattito. Già in avvio di quella discussione, in un breve intervento su una questione incidentale, ebbe modo di anticipare, con parole molto dirette, la valutazione del Governo sugli avvenimenti siciliani e non esitò ad evocare la responsabilità di potenze straniere interessate alla dissoluzione della nazione: “È una spedizione all'inverso di quella di Marsala, che si voleva compiere. Si tentò, insinuandosi nell'animo ingenuo dei nostri contadini, laboriosi, sobri, di una bontà mirabile, far loro credere che il Governo nazionale fosse un nemico anziché un protettore. E come si svolse questo movimento? Con incendi, con rapine, con assassini di pubblici funzionari, distruggendo gli archivi dei municipi, recando la desolazione nei quattordici Comuni che sventuratamente furono il teatro dei loro perfidi conati….  La Sicilia, che era stata scelta come quella che doveva dare l'iniziativa del moto al quale doveva rispondere anche il continente, dette a noi in quei giorni lunghe ore di mestizia e di dolore, soprattutto a me che avevo speso i primi anni della mia vita alla costituzione dell'unità d'Italia...”.
Dunque alla base di quanto era accaduto in Sicilia, per il Primo Ministro, vi era l’opera interessata di sobillatori che utilizzavano lucidamente il malcontento popolare con lo scopo palese di attentare all’unità della nazione con la copertura di potenze straniere che sostenevano tale disegno.
Una ricostruzione, in particolare la evocazione del complotto internazionale e la minaccia all’unità del paese, che è da considerare tutt’altro che estemporanea perché sarà giocata dal Governo come il presupposto fondamentale (sotto il profilo giuridico statutario oltre che politico) a sostegno della proclamazione dello stato d’assedio.
A questa lettura dei fatti seguì un duro scambio polemico con l’On. Napoleone Colajanni che accusò Crispi di dire falsità sulle cose di Sicilia dove “non esiste un movimento separatista che volesse disfare la patria comune” e con la replica del Presidente del Consiglio che garantiva invece sull’esistenza di “documenti che schiacceranno le sue affermazioni”.
Altrettanto decisa la reazione del deputato socialista Badaloni che rivolto al Presidente del Consiglio affermò: ” Di fronte a questi fatti, di fronte allo strazio della libertà e della vita di centinaia e di migliaia di uomini, spinti ad insorgere (lasciatemelo dire, onorevole Crispi, perché è il vero) non dai sobillatori o dai nemici dell'idea nazionale, ma dalla miseria, qualunque cosa in contrario possano dire i documenti da voi raccolti, perché questi non possono distruggere in nessun caso la realtà provata della miseria infinita, inenarrabile, che gli stessi vostri cooperatori al Governo videro e descrissero..”. E questo fu l’inizio della discussione.
Alla base di quella sessione di lavori parlamentari vi era una mozione presentata dal gruppo socialista il cui testo così recitava: «La Camera, ritenuto che il Governo con lo stato d'assedio, coi tribunali militari straordinari e con le enormità commesse a danno della vita e della libertà dei cittadini, abbia, per interessi di classe e col pretesto dell'ordine, dato esempio di arbitrii e violenze repugnanti alle leggi del progresso e della giustizia sociale, violando gli articoli 6, 26, 27, 28, 32, 70 e 71 dello Statuto; delibera: a norma dell'articolo 47 del medesimo di porre il Governo in istato di accusa. — Badaloni, Agnini, Prampolini, Ferri».
La discussione che ne seguì offre uno spaccato di sicuro interesse sulla considerazione che dei tragici eventi di Sicilia avevano maturato i principali partiti ed esponenti politici nazionali e sul posizionamento che assunse la deputazione siciliana di fronte al precipitare di quella crisi.
Una discussione che meriterebbe uno spazio più ampio e appropriato, ma nell’economia di questo intervento mirato a ricostruire alcuni aspetti della specifica vicenda processuale a carico dei componenti del fascio, l’attenzione è riservata a quella parte della discussione che si concentrò sulla contestazione della legittimità giuridico-statutaria dei provvedimenti adottati dal governo e segnatamente la decretazione dello stato d’assedio e la istituzione dei tribunali militari speciali.
La strategia dell’opposizione fu evidente fin dall’inizio; l’attacco al Governo non si limitava a contestare il merito politico dell’azione repressiva intrapresa in Sicilia ma intendeva dimostrare che proprio il Governo nel reprimere i fasci, accusati di violare la legge, si poneva esso sul terreno della illegalità calpestando i principi giuridici dello Statuto che pure asseriva di volere difendere.
Intervenendo sul punto, l’On. Altobelli non esitò a definire il decreto di proclamazione dello stato d’assedio “…incostituzionale…non essendo il provvedimento consentito dallo Statuto.
L’oratore fece osservare come il decreto non riportasse un solo articolo di legge dal quale, anche indirettamente, si potesse fare discendere la misura eccezionale adottata e ricondurla all’interno dell’ordinamento.
Ribatté il Presidente del Consiglio Crispi che invece tale norma esisteva ed era l’art. 246 del Codice penale militare; seguì la lettura in Aula da parte del Deputato Altobelli della disposizione richiamata dal Governo come fondamento del regio decreto: “ Allorché il territorio di una divisione o sottodivisione militare o quello dipendente da una piazza di guerra, fortezza o posto militare, saranno invasi da truppe nemiche, ovvero saranno le stesse a distanza minore di tre giornate ordinarie di marcia, dovrà quel territorio o piazza di guerra, fortezza o posto militare essere considerato in stato di guerra” ed aggiunse, rivolto al Presidente del Consiglio,  “Ma dove erano le truppe nemiche che avevano invaso, o minacciavano d'invadere il territorio italiano? Forse il Governo ignorava che quella disposizione si riferisce unicamente allo stato di guerra? Qui si è fatto ricorso… al Codice penale militare che voi, onorevoli colleghi, sapete, si riferiscono allo stato di guerra e non possono per conseguenza applicarsi in tempo di pace”.
Appare chiaro dunque il senso di quel riferimento alla condizione sostanziale da stato di guerra anticipata dal Presidente del Consiglio e la sua evocazione del disegno di potenze straniere teso a sobillare il malcontento popolare in Sicilia per smembrare lo Stato italiano. Questioni sulle quali Il presidente del Consiglio aveva promesso al Parlamento la presentazione di prove inconfutabili; prove che si risolsero in realtà nella citazione di denunce generiche, documenti improbabili e storicamente inconsistenti, quando non riconosciuti del tutto falsi, prodotti nei sottoboschi delle strutture investigative più compiacenti, a cominciare dal famigerato Trattato di Bisacquino.[3]
In effetti sulla debolezza della costruzione giuridica portata a fondamento del provvedimento di proclamazione dello stato d’assedio, a dubitare per prima era stata la Corte dei Conti che ne aveva rifiutato la registrazione e quando successivamente lo dovette fare sulla reitera del Governo, lo registrò con riserva e riportando nelle motivazioni che comunque il provvedimento usciva “dai confini della legge scritta”.
Lo stesso Crispi finì con l’offrire una prova indiretta del vulnus giuridico che era stato operato con l’adozione di quel provvedimento, allorché propose di aggiungere al progetto di riforma del Codice penale militare allora in itinere, un nuovo articolo 337 bis che prevedeva la possibilità di proclamare lo stato di guerra anche “in caso di insurrezione o d’imminente pericolo della pace pubblica”; segno che quella fattispecie non era rinvenibile tra le disposizioni vigenti e che le due condizioni (invasione da parte di truppe nemiche e insurrezione o imminente pericolo della pace pubblica) non potevano considerarsi equivalenti.
Del resto gli stessi interventi pronunciati nel corso della discussione alla Camera da quei parlamentari schierati a sostegno dell’azione governativa, argomentarono sostanzialmente che la questione aveva natura politica e non giuridica.
Particolarmente esplicito fu, al riguardo, l’intervento dell’On. Antonino Di San Giuliano che difese le scelte del governo e criticò gli argomenti utilizzati da Sacchi ed Altobelli “i quali sono andati interpretando questo o quell'articolo dello Statuto, questa o quella disposizione del Codice penale militare… mentre la vera questione sta nel vedere se lo stato d'assedio, con tutte le sue conseguenze, era, o non era necessario. Se non era necessario, il Governo ha fatto male, comunque s'interpretino lo Statuto e le nostre leggi. Se era necessario, la questione di diritto costituzionale è implicitamente risoluta”.  E lo stato d’assedio era necessario, concludeva il deputato siciliano.
Dunque nello stato di diritto immaginato dall’oratore, legittimo non è ciò che è previsto dallo Statuto (la Costituzione del Regno) e dalle leggi vigenti ma ciò che il governo valuta necessario e meritevole di essere considerato tale.
La discussione registrò anche un siparietto con applausi ironici e grida di bravo provenienti dai banchi dell’estrema sinistra indirizzate all’On La Vaccara deputato per Piazza Armerina, allorché affermò che nello Stato d’assedio aveva addirittura trovato vero e proprio conforto.
Parimenti illegittimo, per Altobelli, era da considerarsi il provvedimento adottato dal Regio Commissario Morra di Lavriano che aveva istituito i tribunali militari speciali; illegittimo perché assunto da una autorità che non ne aveva la competenza e perché in contrasto con “il divieto di essere sottratto ai propri giudici naturali, il divieto di non potersi per ciò creare tribunali o commissioni straordinari, scritto nello Statuto”
A tutela di tali principi furono richiamati, in particolare, l’art. 70 dello Statuto del Regno (“Non si può derogare all’organizzazione giudiziaria se non in forza di una legge”) e l’art. 71 (“Niuno può essere distolto dai suoi giudici naturali. Non potranno essere perciò creati tribunali o commissioni straordinarie”).
Con i provvedimenti emanati invece si erano sottratti dei cittadini alla giurisdizione del loro giudice naturale e si derogava all’organizzazione giudiziaria non con una legge, come previsto dallo Statuto, ma con un editto del Regio Commissario che così esercitava un potere che non aveva e che non gli avrebbe potuto conferire nemmeno il Governo poiché anch’esso non lo aveva in quanto quel potere apparteneva esclusivamente agli organi ai quali lo Statuto (art. 3) attribuiva la funzione legislativa ossia al Re e al Parlamento che lo esercitano congiuntamente.
Osservarono gli oratori che nei giudizi innanzi ai tribunali di guerra era calpestato anche il diritto di difesa degli imputati che si videro negata la possibilità di scegliersi un difensore civile di propria fiducia per essere difesi da militari comandati a quel ruolo.
E non era tutto! Nella gran parte dei casi, Pietraperzia tra questi, le persone furono sottoposte al giudizio dei tribunali di guerra per fatti che avevano commesso ancor prima della dichiarazione dello stato di emergenza e prima della istituzione dei tribunali militari speciali.
Ma al di là della fondatezza di tali denunce, i numeri in quel Parlamento erano dalla parte del Governo e quella lunga ed appassionata discussione si concluse con l’approvazione di un ordine del giorno tanto laconico quanto inequivoco: “La Camera approvando l’azione del governo diretta alla tutela della pace pubblica confida ch’esso saprà definitivamente assicurarla con opportuni provvedimenti legislativi.”
A questa azione di mistificazione del merito giuridico della questione, non si sottrasse nemmeno la Corte di Cassazione in sede di pronuncia sul ricorso contro la sentenza del Tribunale militare di Palermo a carico dei dirigenti regionali del fascio.
In quella occasione la suprema corte sostenne che “la proclamazione dello stato d’assedio, se non dalla legge scritta, poteva essere giustificata dalla suprema legge della salute della patria, ossia da necessità di Governo… e la condotta del Governo fu a grandissima maggioranza approvata dalla Camera… e la creazione dei tribunali di guerra ne era la necessaria conseguenza… come conseguenza necessaria era la facoltà del generale comandante di pubblicare bandi aventi forza di legge”.
E quanto alla incompetenza dei tribunali militari a giudicare sui reati commessi prima della loro istituzione e della proclamazione dello stato d’assedio, di fronte ad uno stravolgimento così palese di uno dei principi giuridici più pregnanti dell’ordinamento, si limitò ad osservare che “Dal momento che si deve riconoscere aver vigore di legge la proclamazione dello stato d’assedio e la creazione dei tribunali di guerra, ne consegue che la giurisdizione di questi tribunali era e doveva essere quella indicata dai bandi”.
E così il cerchio si chiuse con una pronuncia del massimo organo giudiziario di garanzia della legittimità formale degli atti e della loro corrispondenza alla legge scritta che invece ne legittimava una loro lettura sostanziale, magari fuori dalla norma ma corrispondente alla suprema legge della salute della patria secondo la declinazione che di essa faceva il Governo.
Venne introdotto così, in spregio ad ogni principio di legalità, un apparato giuridico-repressivo mostruoso allo scopo, si disse, di riportare la legalità nell’isola.
La ragion di Stato scagliata contro un manipolo di contadini ignoranti e facinorosi: come potevano sperare di farla franca?
Ed in effetti quella macchina funzionò alla perfezione. I Tribunali militari distribuirono nell’isola più di 5000 anni di prigione tra dirigenti e contadini iscritti al movimento dei fasci; circa 2000 persone (di cui 174 di Caltanissetta e provincia) furono inviate al domicilio coatto.
Ecco qual era il contesto nel quale quei 73 contadini di Pietraperzia sobillatori e nemici della patria vennero trascinati davanti al tribunale militare di Caltanissetta.
L’epilogo era scritto: stava tutto nelle premesse e nel clima nel quale quel processo veniva celebrato. Ed infatti, in poco più di una settimana si consumò l’intero rito processuale.
Furono sentiti gli imputati, sfilarono quasi 250 testimoni, parlò il procuratore fiscale per l’accusa, intervennero i militari assegnati (per meglio dire, comandati) alla difesa degli imputati ed infine giunse la sentenza.
Sentenza che distribuì condanne esemplari a quelle teste calde.
Un trafiletto del periodico nisseno Vita Nuova riporta la cronaca della seduta conclusiva del processo con la lettura della sentenza e scrive “Giovedì 12 corrente, dopo 9 giorni di dibattimento, questo Tribunale militare pronunciò la sentenza contro gli imputati dei disordini di Pietraperzia. Il Tribunale ne assolse 18 su 73, condannò a pene che oscillano dai 3 agli 8 anni, gli altri a pene superiori. Le pene più gravi furono applicate ai seguenti: Di Dio Antonino anni 21 di reclusione; Fiorino Gaetano anni 15 e 6 mesi; Lombardo Sebastiano anni 14; Mazzola Ciro anni 14 e mesi 6; Mazzola Michele anni 15 e mesi 6; Martorana Salvatore e Giuseppe anni 14 e mesi 6; Martorana Giuseppa (intesa la moglie del traditore) anni 13; Meglio Achille anni 14 e mesi 6; Nicoletti Vincenzo anni 14; Rabita Luigi anni 12. La sentenza fu accolta con grida e pianti dagli imputati e dai loro parenti che fecero un vero pandemonio”. Un compendio completo dei nomi e delle relative condanne è riportato nel prezioso citato lavoro di Vincenzo Di Natale.
Nel complesso la sentenza comminò quasi 500 anni di carcere oltre all’obbligo a risarcire le spese processuali e i danni provocati che la perizia aveva stimato in 11.710 lire così ripartiti: 4000 Municipio; 1000 Pretura; 5000 Ufficio Registro; 1500 Casino dei nobili; 200 Circolo Buoni Amici; 10 Ufficio telegrafico.
Del clima in cui si svolse quella udienza con le urla di disperazione degli imputati e dei parenti man mano che si procedeva alla lettura delle condanne, diede conto la Gazzetta Nissena riferendo anche della decisione del Presidente del tribunale, di fronte a quelle reazioni, di sospenderne la lettura e fare sgombrare l’aula prima di riprenderla.
“Terminata la lettura, gli imputati si danno in preda al più disperato pianto": così si conclude quella cronaca.
Un finale drammatico e angosciante; il più disperato pianto di donne e uomini che vedevano aprirsi davanti a loro il baratro di anni di prigione e un destino ancor più nero di miseria per le loro famiglie. Una intera comunità umiliata.
Ebbene, sono passati appena centotrenta anni da quel tragico capodanno di morte del 1894 a Pietraperzia; dalle violenze, dalla caccia all’uomo e dagli arresti che seguirono nelle giornate successive; dalla umiliazione del processo cui furono sottoposti in tanti davanti ad un tribunale militare; dalle accuse infamanti alle quali tanti furono inchiodati anche da testimonianze interessate ed inaffidabili (emerse anche nel corso del dibattimento processuale) e dalle pesanti pene carcerarie che ne seguirono. Tra testimoni e imputati il processo vide coinvolti direttamente circa 350 persone! Praticamente non vi fu famiglia di Pietraperzia che rimase estranea a quegli eventi. Tutto questo accadeva poco più di un secolo fa! Un lasso temporale che, nella storia di una comunità, viene considerata relativamente breve: appena qualche generazione. Eppure una storia così tragica, una storia che segnò così in profondità la comunità, che coinvolse direttamente la gran parte delle famiglie di Pietraperzia, famiglie che ebbero morti e patirono condanne, una storia che finì per allargare il fossato e il risentimento tra chi quelle umiliazioni e quelle sconfitte le subì e chi invece celebrò la vittoria della legalità, ebbene quella storia appare oggi come svanita nella memoria della nostra comunità. È vero, non mancano pregevoli tentativi di raccontare quella pagina di storia: un lavoro cui si sono dedicati con passione e competenza alcuni studiosi locali.

Ma io mi riferisco piuttosto a quella che appare come una evidente perdita della memoria collettiva di quei fatti; una perdita nel sentire della comunità; nel riconoscere e riconoscersi in quella storia, sentendola come la propria storia; nell’attitudine stessa delle famiglie a coltivare e tramandare, anche per le vie del racconto e della tradizione orale (un altro dei percorsi che lega le generazioni di oggi a quelle che le hanno precedute) vicende tanto intense quanto drammatiche ed a noi così vicine.
Come sia potuto accadere tutto ciò ed in così breve lasso di tempo risulta, almeno per me, difficile da comprendere. E tuttavia avverto quanto importante sia per noi cercare di colmare questo oblio; cercare di riportare in superfice (anche rovistando nelle carte, nei ricordi e nelle storie delle nostre famiglie) eventi, sentimenti, speranze e delusioni che accompagnarono quelle vicende e quella generazione che ne fu protagonista.
Recuperare, quanto più è possibile, frammenti di questa memoria serve anzitutto a noi, alla nostra ricerca di identità comunitaria ma, al contempo, è anche un doveroso atto di giustizia riparativa verso i nostri nonni o bisnonni che in quel fine secolo si organizzarono e presero parola provando a dire la loro su come andavano le cose e per questa loro improntitudine pagarono un prezzo così feroce e spropositato.
Un lavoro che potrebbe entrare a giusto titolo nel programma di recupero dell’identità e della storia della nostra comunità che l’Associazione degli Amici della Biblioteca sta meritoriamente portando avanti.

Salvatore Di Gregorio

 

[1] Vincenzo Di Natale, IL FASCIO DEI LAVORATORI DI PIETRAPERZIA - I tumulti del 1° gennaio 1894

[2] Francesco Renda. I fasci siciliani (1892-1894), Einaudi, 1978

[3] Un documento redatto, sulla base delle rivelazioni di un confidente, dal delegato di pubblica sicurezza del comune di Bisacquino. Il testo parlava di una congiura ordita da alcune potenze straniere (segnatamente Francia e Russia) che “a mezzo dei fasci dei lavoratori socialisti…hanno di mira lo smembramento della Sicilia dal resto d’Italia…la Sicilia sarebbe invasa dalla Russia e tenuta da essa come base d’operazione sopra Costantinopoli…”. Allorché quel delegato venne chiamato a testimoniare sulle circostanze nelle quali era venuto in possesso del documento, durante il processo di Palermo a carico del Comitato centrale dei Fasci, incalzato dalle domande di avvocati e imputati, si produsse in una serie di contraddizioni che gli valsero una ammonizione nel corso del dibattimento. E quando gli venne chiesto su cosa basasse la convinzione dell’attendibilità del confidente, rispose Ne ho la certezza metafisica. A quelle parole, riportano le cronache del tempo, la sala proruppe in risate straripanti (Rino Messina. Il processo imperfetto 1894: I fasci siciliani alla sbarra. Sellerio editore. Palermo).



14 aprile 2021

UN MODESTO EFFETTO COLLATERALE DEL VIRUS

 


Fra gli innumerevoli danni che la pandemia ha scaricato sulle nostre vite, lasciatemi spendere due parole su un problema che potremmo, tutt’al più, considerare un modesto effetto collaterale: più la fastidiosa puntura della zanzara che il doloroso morso del serpente.

Divagare sugli effetti secondari e non concentrarsi su quelli più seri può sembrare davvero eccentrico se non proprio fuori luogo, considerati i tempi, e se lo pensate, non posso certo darvi torto.  E allora perché mi sono comunque risolto a proporvi l’argomento?

Anzitutto perché delle altre conseguenze, quelle veramente serie, si occupano già tante persone (e con ben altra competenza) e poi perché, male che vada, alla fine vi avrò solo fatto perdere qualche minuto di tempo su una questione forse futile ma comunque innocua.

Per di più, nella cupezza dei tempi che viviamo, allentare di tanto in tanto la tensione può persino risultare terapeutico. Prendiamoci dunque questa licenza e andiamo sull’argomento.

Lo abbiamo presentato come un (subdolo) effetto collaterale del virus. Quali sintomi accusa la persona che ne è colpita? Essenzialmente due: una marcata bulimia verbale e una evidente difficoltà di ascolto.

In che modo tali sintomi sono associati al fenomeno pandemico? Un esperto della materia me l’ha spiegato così.

Il virus ha unito il mondo! Non già nel senso che l’ha reso più coeso e solidale ma nel senso che ne ha uniformato le priorità, omologato il linguaggio e monopolizzato la discussione in ogni latitudine. Naturalmente ci arriva anche l’eco di altri avvenimenti ma la musica di fondo nel pianeta terra oggi la suona e la dirige il virus.

Il mostro vuole su di sé tutta l’attenzione; detta l’agenda ai governi e impone le sue regole alle persone. Insomma esige che, nel tempo del suo regno, sia sospesa ogni divagazione: vietato distrarsi in parole, pensieri e opere, come ci insegnavano al catechismo.

Da un anno a questa parte non parlano d’altro, governanti, giornalisti, economisti, igienisti, virologi, pandemisti, statistici, comici, saggisti, opinionisti, astrologi, psicoanalisti, fisioterapisti, sociologi, divulgatori, tassisti, naturalisti e, ovviamente, tuttologi.

E del resto, direte voi con qualche ragione, come potrebbe essere altrimenti?

Di fronte ad un evento così devastante; un evento che ha travolto ogni certezza, sovvertito ogni priorità, abbattuto ogni barriera, di cos’altro vuoi parlare?

Non che in tempi di distanziamento siano molte le occasioni di incontro, ma provate in una qualche conversazione, anche di quelle che si svolgono sulla macchina, a fare cenno ad argomenti diversi dal tema assegnato.

Ma cosa ti salta in mente? Ti pare un argomento serio con quello che accade? Ti pare rispettoso per i morti, per il dolore e per i sacrifici che la pandemia sta imponendo a tante persone; per gli effetti sulla loro salute e sulle loro attività?

E tu che, ovviamente, non intendi mancare di rispetto a nessuno, lasci perdere; abbandoni ogni altra futilità e riprendi la discussione sull’ordine del giorno imposto dalla circostanza: piani pandemici, indici RT, protocolli vaccinali, vaccini con RNA messaggero, vaccini vivi attenuati, vaccini inattivati, vaccini a DNA ricombinante, anticorpi monoclonali e quant’altro.

E naturalmente nel momento in cui accetti la discussione, devi dire la tua. Devi mostrare di poter padroneggiare gli argomenti e sfoggiare un linguaggio appropriato, con tutta la naturalezza di chi la sa lunga, anche se le tue cognizioni virologiche risalgono al libro di scienza della scuola media (o del liceo per i più istruiti).

Ma cosa non si fa per stare in società! Costretti a reinventarci eruditi per necessità.

Per fortuna che c’è la rete che consente, anche a chi sull’argomento ha evidenti lacune e poco tempo per colmarle, di reperire le quattro informazioni giuste per tenere testa nella conversazione e potere discettare con solide argomentazioni scientifiche anche sulle trombonate del tale professorone ascoltato la sera prima dalla Gruber.

Noi, con le informazioni prèt à porter che la giungla ci mette a disposizione, arriviamo subito al punto. Un giretto nel web e il gioco è fatto; la citazione di una rivista scientifica (naturalmente mai letta), una statistica orecchiata, una opinione che suona bene (possibilmente con corredo di termini inglesi) ... e tutti pronti alla discussione: e che discussione! Una valanga di asserzioni, convinzioni e certezze, altro che quei cacadubbi degli scienziati che più stanno chiusi nei laboratori, più studiano i problemi, e più dubbi si fanno venire e ti fanno venire.

Non scordiamoci che siamo impegnati in conversazioni su argomenti dei quali non capiamo un accidente e con persone alle quali vogliamo dimostrare che loro non capiscono un accidente; e se ci si imbatte in un momento di difficoltà dialettica (sempre possibile: al nostro tavolo di conversazione tutti hanno fatto il loro giretto nel web per rubacchiare opinioni scientifiche) si può sempre ricorrere alla vecchia e consolidata tecnica di scaricare sulla conversazione fiumi di parole utili solo a confondere le acque, dissimulare i concetti e colmare così le lacune; se questo non basta allora si alza il volume della voce; se non basta ancora, si da sulla voce del contraddittore e se ne neutralizza ogni via di comunicazione.

Naturalmente per tenere sempre allertato il circuito cervello/bocca c’è bisogno di energia e concentrazione supplementari che la persona attinge dal circuito cervello/orecchie che nella conversazione viene di conseguenza disattivato. Infatti, come mi spiega un ricercatore nel campo delle neuroscienze, di mia conoscenza, studi approfonditi mostrano che il cervello deve mantenere un'omeostasi per cui le energie si bilanciano all'interno degli stessi circuiti neurali e il circuito del linguaggio comprende sia la comprensione verbale sia la produzione verbale.

Ed ecco manifestarsi i due sintomi associati di cui si diceva: logorrea e caduta della capacità di ascolto.

È così che nel conto dei danni che il mostro ci infligge si è aggiunto anche quest’altro; un danno che, beninteso, non è grave come altri ma che comunque è pur sempre un danno: davanti ad un argomento così complesso che appena appena riusciamo ad inquadrare, piuttosto che cercare di capirne di più, vogliamo solo dirne di più.

Ma a preoccupare maggiormente, a sentire l’esperto di cui vi parlavo, è l’estrema contagiosità del fenomeno; l’ignaro si trova coinvolto in una discussione con persone che hanno sviluppato i sintomi e ne subisce fatalmente il contagio.

Il soggetto è subito preso dalla irrefrenabile cupidigia di esibire il suo bagaglio di erudizione acquisita nel giretto pomeridiano nella rete; di tirare fuori la quantità di parole ed il volume della voce richiesta dalla durezza della discussione e dalla pervicacia dell’interlocutore, finché non ne ha avuto ragione.

E così a quel tavolo di conversazione si ritrovano solo persone che parlano (si parlano) alzando progressivamente i decibel della voce e moltiplicando la quantità di parole, nessuna delle quali arriva all’orecchio (e per suo tramite al cervello) degli altri: rumore, rumore, rumore!

Si può scansare il contagio? Purtroppo pare che lo stesso vaccino risulti di scarsa efficacia e la sola prevenzione consiste nell’adottare precise tecniche di dissimulazione quando si entra in contatto con i soggetti contagiati (la evidenza dei sintomi vi deve subito mettere in allerta).

Innanzitutto bisogna lasciare a loro la conduzione del discorso; non interromperlo, non contraddirlo e complimentarsi spesso per la competenza e l’acutezza delle argomentazioni che propone.

Sulle prime ne sarà lusingato ma ben presto vacillerà. Non è preparato a fronteggiare un atteggiamento così arrendevole.

Non trovando resistenza e non ravvisando la necessità di dovere caricare tutte le sue batterie per stroncare l’interlocutore, perderà grinta e motivazione e la discussione inevitabilmente si appiattirà; quello è il momento giusto per voi di assumere un tono fintamente svagato, provando a portare il discorso su altro. La conversazione potrebbe così prendere aria ma soprattutto avrete dato un piccolo aiuto al vostro amico a contenere i sintomi che lo affliggono.

Per il fatto che viviamo tempi difficili non è detto che dobbiamo impegnare le nostre energie, tante o poche che siano, nel renderli ancor più insopportabili.

Salvatore Di Gregorio


 

11 febbraio 2021

Esercitazione. – Sull’idea di valore di un’opera d’arte di Salvatore Di Gregorio





Con il termine esercitazione il vocabolario Treccani indica quella attività svolta allo scopo di acquisire maggiore pratica in una disciplina o su un determinato argomento; esercitiamo il nostro fisico allo scopo di migliorarne le prestazioni ed esercitiamo l’intelletto al fine di elevarne la capacità di analisi e di ragionamento. Insomma, sotto ogni aspetto, è un continuo bisogno di esercitarsi per migliorarsi.

Il richiamo mi serve per dare una idea di queste quattro righe che vi sottopongo perché, mi pare, che il termine corrisponda abbastanza allo spirito con cui l’argomento trattato viene svolto; appunto una specie di esercitazione su un tema che ho trovato di una certa suggestione e sul quale, magari ragionandoci, riusciamo a migliorarne la comprensione.

Per introdurre l’argomento prendo a prestito due aneddoti riportati, il primo in una pubblicazione recente di Gianrico Carofiglio (il titolo del libro è Della gentilezza e del coraggio) e l’altro nelle Lezioni Americane di Italo Calvino (esattamente nella lezione che tratta della Rapidità).

La questione è la seguente: da cosa deriva il proprio valore un’opera artistica? Dalla difficoltà che è costata la sua realizzazione? Dal tempo impiegato per realizzarla? Dal talento, dalla fama dell’autore? Dal personale gradimento di ognuno? Da una combinazione di tutti quanti questi fattori e da altri ancora? E attraverso quali meccanismi si forma? Ritorniamo agli aneddoti.

Il primo (quello citato nel libro di Carofiglio) ha per protagonista Pablo Picasso il quale mentre sorseggia una bevanda al tavolo di un caffè parigino con l’aria distesa di chi si gode un ordinario (o artistico?) momento di ozio, è intendo a schizzare qualcosa con una matita su un tovagliolo di carta.  

La scena è osservata da una donna seduta ad un tavolo vicino, la quale, appena si rende conto che il maestro ha completato il suo lavoro, si avvicina all’artista dichiarandosi interessata ad acquistare il disegno appena realizzato.

Picasso acconsente alla richiesta ma, con una certa meraviglia della donna, pretende per il suo lavoro un prezzo che le appare spropositato.

Ma come, osserva la signora, una cifra così alta per un disegno per il quale avete impiegato non più di un quarto d’ora, seduto al tavolo di un caffè.

Vi sbagliate signora, ribatte l’artista, per realizzarlo mi ci è voluta una vita intera.

L’altro episodio, quello riportato nello scritto di Calvino, racconta di un emerito artista orientale di nome Chuang-Tzu il quale eccelleva in molti campi ma in particolare, e sopra ogni altro, nell’arte grafica.

Il re, desiderando possedere un’opera da lui realizzata, gli commissiona il disegno di un granchio. Chuang -Tzu accetta l’incarico ma pone le sue condizioni: pretende che gli vengano concessi cinque anni di tempo e assegnati un sontuoso palazzo nel quale ritirarsi a lavorare e dodici servitori. Tutto quanto, naturalmente, a spese del re come ricompensa per la sua prestazione.

Il re acconsente alle sue richieste, ma allo scadere dei cinque anni Chuang-Tzu non ha ancora messo mano al suo lavoro e chiede altri cinque anni di tempo ed anche questi gli vengono accordati. Solo allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto che si fosse mai visto.

Come ci raccontano i due episodi il problema che ci eravamo posti all’inizio, circa il modo in cui si forma il valore di una opera d’arte?

Sostanzialmente ce lo rappresentano ponendosi nell’ottica dell’artista che ha realizzato  l’opera o che viene incaricato di realizzarla.

Qui è importante sottolineare che in entrambi i casi si tratta di artisti sommi ed affermati e, per entrambi, le circostanze e le situazioni nelle quali l’opera prende corpo possono essere anche le più ordinarie o istantanee.

Ma, e qui sta il senso della risposta di Picasso alla donna, la scintilla che produce nell’animo dell’artista il momento magico della creatività (al di là delle circostanze in cui si manifesta) è innescata da una lunga combustione; una combustione lunga quanto la vita dell’artista medesimo, alimentata da tutto il patrimonio di esperienze, abilità, sensibilità, formatesi in altri tempi e in altri luoghi e sedimentate dentro la sua anima.

Tutto questo, questo mondo di sentimenti, esperienze ed abilità, ne fa l’artista unico che egli è.  

Ed è il valore di questo patrimonio che Picasso vuole che venga riconosciuto anche alla sua realizzazione apparentemente più estemporanea, istantanea e semplice; e si tratta di un valore molto più alto del prodotto del momento: il percorso creativo che porta alla realizzazione dell’opera vale, in questo caso, e per il suo autore, molto più dell’opera stessa.  

Anche Chuang-Tzu mostra di avere in testa idee simili.

Lui è l’artista sommo; il più grande del suo tempo. Sa bene che esaudire la richiesta del re è per lui impegno che gli richiede qualche minuto del suo tempo, ma non intende svilire il suo talento in un negozio così modesto ed ordinario.

Il valore che vuole riconosciuto per il suo lavoro trascende i pochi minuti a lui necessari per disegnare un granchio (sia pure il granchio più perfetto che si sia mai visto) ma deve ripagare al di là dell’opera commissionata, il talento che in essa egli trasfonde e che, per l’artista, vale bene dieci anni di vita agiata a spese del re.

Quindi, nei due casi, è l’artista che indica il corrispettivo che ritiene adeguato ad esprimere il valore della sua opera.

Ma mentre per Chuang-Tzu sappiamo come va a finire (con il committente che accetta le condizioni poste dall’artista) nulla sappiamo sul negozio messo in piedi tra Picasso e la signora del tavolo accanto.

Potrebbe essere che la donna, dopo la iniziale meraviglia, abbia accettato la valutazione che del lavoro ha proposto il pittore; potrebbe essere invece che, ritenendola eccessiva, la donna abbia rinunciato al proposito di acquistare l’opera.

Nel primo caso il valore che l’artista ha attribuito alla sua opera diventa un valore condiviso e ciò consente di realizzare lo scambio tra artista e committente.

Se invece le cose non sono andate così e la signora ha controproposto a quella dell’artista, una propria valutazione, allora a quell’opera si associano due diversi valori: quello attribuito ad essa dall’autore e quello proposto dal potenziale acquirente.

Se ognuno rimane fermo nella sua proposta non si forma un valore condiviso e non si realizza lo scambio: l’artista si tiene la sua opera e la signora si tiene i suoi soldi

Potrebbe essere che abbia assistito alla scena un altro signore il quale, rispetto alla donna, sia disposto a riconoscere all’opera un valore più elevato ma non quello preteso da Picasso: una valutazione ulteriore e sarebbe la terza.

Adesso si può immaginare che attorno al tavolo di quel bar, ogni passante o avventore abbia prima sostato incuriosito e poi fatto una sua offerta tirando fuori la propria personale valutazione dell’opera secondo il suo gusto e secondo la sua competenza.

Di fronte alle tante valutazioni che si materializzano (compresa quella dell’esperto d’arte che passava di li) che fine fa il nostro problema di partenza? Se nel tempo, nello spazio, nella sensibilità di ciascuno si formano innumerevoli, cangianti valori, ha senso cercare il valore (non tutti i valori che le circostanze rendono possibili) di quell’opera d’arte?

Sembra un vero paradosso! Ma il paradosso, in realtà, nasce da un equivoco che è intenzionalmente inserito nel ragionamento, ossia l’idea che il valore dell’opera sia coincidente con il suo prezzo. Ed è questa corrispondenza ad essere, in effetti, arbitraria.

La dottrina economica ha discettato per secoli sulla differenza tra valore e prezzo e sui differenti meccanismi che li determinano; fior di pensatori se ne sono occupati, ma naturalmente l’oggetto di questa esercitazione non è né la teoria del valore né la storia del pensiero economico; qui interessa giungere ad un elemento di giudizio sulle considerazioni dei nostri due artisti circa il valore della loro creazione.

Ne possiamo trarre qualche considerazione? Una, in qualche modo fascinosa, la potremmo riassumere così. Il mercato dell’arte stabilisce i prezzi delle opere e dunque le condizioni che ne consentono lo scambio e la circolazione; il prezzo muta nel tempo e nello spazio in ragione dell’apprezzamento del mercato e della volubilità delle sue regole; ma il valore dell’opera, quello che esprime la unicità di quella creazione e della sensibilità artistica di chi l’ha concepita e realizzata, quel valore si forma in una profondità di esperienze, di sentimenti e di visioni dove il mercato non può arrivare. A volte l’artista risale da quelle profondità e viene a patti con il mercato; altre volte gli è concesso il privilegio di poterne fare a meno.

E questo i nostri due artisti mostrano di averlo ben chiaro.

 

Salvatore Di Gregorio





09 gennaio 2021

Le masserie nel territorio di Pietraperzia - Salvatore Di Gregorio

 



Le masserie raccontano una pagina importante della nostra storia ed ancora segnano, con la loro presenza, il paesaggio rurale siciliano.

Non semplici dimore di campagna ma strutture ben più complesse che dovevano rispondere alle necessità abitative, lavorative e di convivenza di tutto quel microcosmo sociale che ruotava attorno, nei nostri territori, al sistema agricolo del latifondo.

Dunque insieme, abitazione, azienda agricola, magazzino, ricovero per uomini, raccolto, attrezzi ed animali.

Collocata al centro del feudo, distante dai centri abitati, nella masseria convivevano più famiglie, si organizzava il loro lavoro e si svolgeva anche tanta parte della vita di relazione di quelle comunità. Numerose le figure che ne animavano la vita svolgendovi la loro attività e molto rigidi erano i principi e le gerarchie che ne regolavano i rapporti.

I nobili proprietari, solo raramente si occupavano della conduzione del feudo preferendo piuttosto darlo in gabella e godersi le rendite nelle splendide residenze e nella vita sfarzosa di città.

Sicché, generalmente, è Il gabellotto il dominus di quella comunità e ad esso risponde il massaro che è la figura che sovrintende alla conduzione ed amministrazione del fondo e di tutta l’attività della masseria. Conduzione nella quale è affiancato dai campieri: gente di stretta fiducia che garantiva il mantenimento dell’ordine e del controllo padronale sulla vita e sulle attività del feudo. La forza lavoro era composta dai contadini che vi prestavano la loro opera a vario titolo: mezzadri, salariati fissi, stagionali,  misaluri, jurnatari. Fondamentale la presenza delle figure femminili che non solo disimpegnavano le tante incombenze domestiche essenziali per la vita nella masseria, ma spesso condividevano anche la fatica del lavoro nei campi.

La vita nella masseria seguiva la stagionalità del ciclo produttivo della campagna e delle sue attività, animandosi e popolandosi, in particolare, nei periodi della raccolta.

All’insieme di queste attività che vi si svolgevano e di figure che in essa operavano e convivevano, corrispondeva una peculiare conformazione costruttiva della masseria che, nella sua struttura più tipica, contemplava generalmente un ampio caseggiato chiuso verso, l’esterno da un alto muro perimetrale che delimitava un cortile interno centrale sul quale si affacciavano gli edifici adibiti ad abitazione, a magazzini per i prodotti, gli attrezzi e le stalle. In qualche caso, un secondo piano di costruzione ospitava le abitazioni del proprietario o del gabellotto che, tuttavia, solo occasionalmente, in genere nei periodi di raccolta, dimoravano in masseria.

La vita e le attività nella masseria siciliana sono state narrate magistralmente dalla grande letteratura siciliana del XIX secolo; per tutte, la Masseria di Margitello e la sua tenuta che furono lo scenario delle malefatte del Marchese di Roccaverdina fino al loro tragico epilogo o la masseria di Mangalavite, pupilla degli occhi di mastro don Gesualdo che vi riparò famiglia e parentado per sottrarli all’epidemia di colera che imperversò in Sicilia nel 1837.

In una masseria, Il poeta e scrittore pietrino Giovanni Giarrizzo ambientò il suo dramma Un coccio di verità. In essa si consumano le vicende narrate dall’autore e si muovono quegli stessi personaggi che, così come nella realtà, animano la vita della masseria: i proprietari, i massari, i contadini e le loro famiglie.

Uno degli episodi più significativi del romanzo Piccola pretura (di Giuseppe Guido Lo Schiavo che fu Pretore a Barrafranca tra il 1921 ed il 1922) si svolge nella Masseria del Conte che l’autore colloca in una contrada non discosta dai centri di Barrafranca e Pietraperzia e così ne descrive la struttura “era una specie di fortilizio in mezzo alla bonifica: un alto muro di cinta, grosso e spesso come un bastione, cingeva il vasto cortile. A levante si apriva la porta, enorme, rinforzata da bande ferrate e da puntelli: unico accesso controllato all’edificio. Agli altri tre lati erano addossati i magazzini, la casa padronale, gli appartamenti dei guardiani, le scuderie, le stalle. Feritoie occhieggiavano in alto, esternamente, dal chiuso recinto”.

La crisi del modello produttivo del latifondo, al quale la masseria era intimamente legata, è tra le cause del suo progressivo, inesorabile decadimento. Alcune di quelle strutture, nel tempo, si sono convertite a nuova vita adattandosi a ruoli e utilizzazioni differenti; più spesso hanno subito l’onta del degrado e dell’abbandono.



In giro per il nostro territorio ci si può imbattere in queste imponenti costruzioni; giganti del passato, spesso malamente sopravvissuti ma pur sempre testimoni potenti e custodi della nostra identità. A questa realtà le tavole disegnate da Armando Laurella vogliono restituire il fascino della memoria e mostrarne una intensità di vita che solo l’arte può sottrarre alla inesorabile usura del tempo.

Salvatore Di Gregorio



 

13 febbraio 2018

Invito alla lettura: Gli intrighi della politica e la razionalità della matematica




Quello che si riceve in regalo, si sa, non dovrebbe essere regalato ad altri; una regola, in realtà, tanto citata quanto disattesa. Di solito, tuttavia, i regali dei quali tentiamo di disfarci sono quelli che proprio non hanno colpito nel segno; difficilmente ricicliamo quelli che ci sono piaciuti e ci ha fatto piacere ricevere. Tutto questo giro per dire che il libro che intendo regalare alla biblioteca in questa occasione, è un regalo che ho ricevuto a mia volta. Ma ci tengo a dire anche che appartiene alla categoria dei regali graditi; anzi, in questo caso, doppiamente graditi perché mi è stato regalato da uno dei miei  figli e  perché si tratta di un libro che ho letto con piacere e curiosità e che ho trovato molto originale. Il titolo è “La Trappola del


gioco” e l’autore è Nicola Oddati. Il genere è il giallo
(genere sempre verde) e del giallo ha tutti i connotati canonici: l’omicidio (in questo caso una sequenza di omicidi); le indagini; la soluzione finale del mistero. 
Quello che subito appare piuttosto particolare è invece il contesto nel quale la storia prende corpo e decisamente originali sono i personaggi coinvolti nelle indagini e ancor più le metodologie che risultano decisive per risolvere gli enigmi.

  Siamo a Napoli, inizio degli anni 2000, in piena emergenza rifiuti. Le strade sono invase dall’immondizia, le discariche sono stracolme, nei depositi si accumulano le famigerate ecoballe in attesa di essere smaltite.
  
Ma l’emergenza rifiuti oltre ad ammorbare l’aria e attentare alla salute delle persone, profuma di affari e su di essa lucra e si muove una consorteria politico – affaristico - camorristica che alimenta un circuito che è perfetto fintanto che tutto si tiene ed allora sono guadagni e carriere politiche spianate; quando salta la catena sono invece morti ammazzati e carriere politiche che si infrangono tragicamente.

  La prima vittima a cadere su questa strada è un consigliere regionale che ha fatto le sue fortune politiche appunto nel settore della gestione dei rifiuti; il cadavere viene trovato (viene fatto trovare lì, perché appaia chiaro il messaggio) in un sito di stoccaggio di ecoballe.  E’ quello che si dice un morto eccellente; un personaggio chiave del sistema, un politico ambizioso che ha costruito la sua carriera con spregiudicatezza, anche a spese dei vecchi sodali di partito e macinando le loro carriere; uno che era uso a coltivare rapporti pericolosi e curare dossier in grado di compromettere tante persone: ce n’è quanto basta per agitare il sonno di molti.

 Ma non è che l’inizio. A questo segue un secondo morto ammazzato (una intraprendente donna d’affari introdotta nel mondo politico napoletano, con interessi nel campo dell’impiantistica ambientale) ed un terzo ( l’amministratore delegato di un colosso nazionale nella realizzazione di impianti per il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti).  Morti tra di loro collegate e tutte quante interne al sistema.

  Da dove partono i colpi e perché? La miscela è davvero esplosiva: i contrasti e i risentimenti dei politici, gli interessi della camorra e delle imprese che lucrano sull’affare dei rifiuti? Tutto questo insieme o qualcos’altro ancora? E dove è saltata la catena? Perché il sistema che deve produrre utilità per chi è dentro, produce morti?  E quei morti sono il segno che il sistema si è destabilizzato o sono morti che devono prevenirne la destabilizzazione?

  Questo lo scenario che hanno davanti gli investigatori. Come si viene a capo del groviglio di interessi che muove la storia? Come valutare ruolo e comportamento degli attori che agiscono su tale scenario? Con il rigore delle scienze matematiche.

 È così che la chiave per venire a capo degli intrighi politico-affaristico-criminali che reggono la storia sarà fornita da Pietro Maiorana professore di matematica all’Università di Napoli (ma palermitano di origine) che è associato alle indagini come speciale consulente degli inquirenti.

  Quella di Pietro è una mente insieme razionale e visionaria che introdurrà nelle indagini le chiavi interpretative giuste per  inquadrare il comportamento dei singoli personaggi che popolano la scena venendo a capo del mistero. Di che si tratta? Dell’applicazione alle indagini di una metodologia interpretativa del comportamento delle persone derivata dalla teoria dei giochi.

  La teoria dei giochi è una scienza vera e propria che si avvale della matematica più complessa per analizzare e studiare il comportamento dei soggetti coinvolti in una competizione che può svolgersi in uno qualsiasi dei campi dell’interazione umana e valutare le strategie poste in essere da ciascuno per ottenere il massimo vantaggio per se stessi o ridurre uno svantaggio.

  Nel modello analizzato, ogni soggetto coinvolto ha un preciso obiettivo: deve decidere come meglio muoversi per volgere la situazione in proprio favore senza sapere cosa faranno gli altri (può solo ipotizzarlo) ma sapendo che anche gli avversari applicano il medesimo procedimento logico.

 Un contributo importante alla teoria dei giochi lo diede J. F. Nash (genio assoluto e premio Nobel nel 1994, la cui vita è raccontata in un film di qualche anno fa “A beautiful mind” con Russel Crowe: assolutamente da recuperare e vedere) che formulò appunto il teorema che porta il suo nome: in una situazione dove gli attori non cooperano, anzi sono in competizione tra di loro e non possono fidarsi l’uno dell’altro o accordarsi, la mossa vincente, per tutti e per ciascuno, è arrivare ad una condizione nella quale tutti i giocatori hanno un valido motivo per non cambiare la propria strategia, che si presume sia seguita anche dagli altri: tale condizione è detta appunto equilibrio di Nash.

  In una condizione siffatta, applicata all’indagine, per l’investigatore tendono a chiudersi gli spazi perché i protagonisti (non solo il colpevole o i colpevoli, ma anche tutti quelli che hanno da temere qualcosa dal disvelamento della vicenda) non si muovono più, minimizzando così il possibile danno per se stesso che può derivare dal progredire delle indagini; una condizione di stallo che pregiudica la possibilità di risolvere il caso.

  Per stanare i giocatori ed indurli ad una ulteriore mossa, bisogna introdurre elementi di squilibrio nel gioco: gli inquirenti devono modificare la tendenza all’inerzia del sistema tendendo una trappola ai giocatori per non rimanere intrappolati nel loro gioco.

 Ed è appunto Pietro ad architettare la trappola finale; l’equilibrio si sfalda e nessuno si sente più al sicuro semplicemente non agendo; devono esporsi per ripristinare l’equilibrio.

 Ma è bene fermarsi qui nel racconto: di un giallo non si deve anticipare troppo per non compromettere il piacere della lettura.

 Su una cosa sono pronto a scommettere: chi si dovesse appassionare alla lettura del libro e non ne sa abbastanza sulla teoria dei giochi, sicuramente sentirà il bisogno di saperne di più sull’argomento. A me è andata così.

Salvatore Di gregorio