Tra tutti i nostri vicini di casa ai quali si è
accennato, la persona con cui la mamma si trovò più in sintonia fu la signora
Giuseppina Aiesi, moglie di don Filippo Rabita. Tra lei e la signora Giuseppina
fu subito simpatia reciproca; nel tempo si stabilì tra di loro una perfetta
intesa che si consolidò in rapporto di stretta e duratura amicizia che
coinvolse entrambe le famiglie. Nella signora Aiesi Rabita, di lei più anziana,
la mamma, giovane sposa e già mamma poco più che ventenne, trovò una
consigliera e un’interlocutrice ideale. La signora sua omonima trovò nella
mamma un’allieva intelligente e intuitiva. Non erano necessarie fra le due molte
parole per intendersi, si comprendevano con lo sguardo. Persone entrambe
schiette, genuine e disponibili alla collaborazione, davano ai rapporti e alle
cose peso e valore appropriati; dotate di una certa giovialità e senso
dell’umorismo, sapevano cogliere l’aspetto comico delle situazioni. «La signora
Rabita fu la prima ad apprendere della mia nascita», racconta Maria, «la
mattina della domenica di quel 29 giugno, quando alla signora Aiesi,
affacciatasi alla sua finestra di via Rosolino Pilo per chiamare mamma - si
erano intese il giorno prima per andare insieme a messa - la nonna Maria Cava
comunicò che, nella notte, ero nata io». Don Filippo Rabita aveva il suo
laboratorio dietro la chiesa del Rosario, in via Fenice (ora Don Minzoni); vi
esercitava l’arte assieme al fratello Liborio e ai propri due figli. Appena
svoltato l’angolo, da piazza Matteotti, già si sentiva il rumore degli attrezzi
in funzione e si avvertiva l’odore della polvere del legno, sempre più
penetrante man mano che ci si avvicinava. All’interno del locale, si notavano,
appoggiate alla parete di fronte all’entrata, assi di legno di vario tipo e di
diverso spessore che toccavano quasi il soffitto; rastrelliere piene di
attrezzi, righe e squadre pendevano dalla parete di destra, per lo più occupata
da pezzi di mobili in costruzione. Addossate alla parete di sinistra e
sostenute, su tre piani, da robusti spuntoni sporgenti, si intravedevano,
benché fossero coperte da un telone grigio, casse dalla forma inquietante. Tra
le casse e l’angolo sinistro di fondo stava il tornio. Due solidi banconi, con
ampi incavi sui piani da lavoro e terminanti con grosse morse, erano sistemati
perpendicolarmente alla parete di fondo. I Rabita costruivano ogni genere di
mobile; seri e puntuali, godevano di un vasto numero di clienti. «Io però mi ci
recavo», dice Salvatore, «soprattutto per farmi costruire li rrummula: appena venivo in possesso del tronchetto di ulivo,
correvo da don Filippo, sicuro e fiducioso, e lo osservavo mentre, tra una
pausa e l’altra di lavori più seri, sistemato al tornio il pezzo di legno, lo
sgrossava da una parte e dall’altra e lo rifiniva per dare all’oggetto la
grandezza e la forma desiderata. Grazie a lui si potevano infatti ottenere,
passione di tutti noi ragazzi, trottole personalizzate, della fattura che si
voleva, tornite ed eleganti, dei veri prodotti artistici, ben diverse dalla
rozze e grossolane trottole, tutte uguali, che si compravano alle bancarelle
del mercato o al negozio di Magliocca. Peccato
non averne conservata neppure una. Alla sua bravura nel lavorare il legno»,
prosegue Salvatore, «don Filippo univa molta bontà e pazienza; parlava sempre
in modo calmo e pacato; mi spiegava, rispondendo a certe domande che,
incoraggiato dalla conoscenza, osavo rivolgergli, che il bancone da lavoro del
suo laboratorio era costruito con un legno americano, «forti cumu lu firru, lu piscipagnu» (pitch-pine), che il
rumore lacerante che si sentiva mentre veniva segato era il lamento del legno,
perché «anchi lu lignu soffri, cumu li cristiani».
«Impossibile per me», dice Maria, «dimenticare
la figura di don Filippo Rabita. Me la ricorda costantemente un piccolo mobile
che, posto in bella vista, adorna tra gli altri l’entrata della mia casa a
Torino. Si tratta di un comò in miniatura stile ‘800, che don Filippo mi regalò
quando ero ancora bambina. È un
modellino alto 45 cm
per cm 38 di larghezza, con i piedini a cipolla, le colonnine laterali tornite
a bottiglietta, cinque cassettini estraibili, due piccoli superiori e tre
grandi inferiori. Lu cantaraniddu, posto in un angolo del
laboratorio e coperto di polvere, aveva attirato la mia attenzione una volta
che, per caso, avevo accompagnato papà alla falegnameria Rabita, e me ne ero
innamorata. A lungo lo avevo ammirato e desiderato! Quando mi capitava di
transitare dalle parti di Piazza Matteotti, mi avvicinavo al laboratorio,
entravo, mi accostavo al mobiletto, lo spolveravo, lo fissavo, uscivo col
piccolo comò che mi ballava davanti agli occhi. Don Filippo intuiva il mio
desiderio, ma restava apparentemente indifferente: mi fece patire un po’, forse
il mobiletto gli ricordava suo padre, l’artefice, e non voleva separarsene. Ma
“il miracolo” avvenne. Il giorno in cui si compì, don Filippo mi disse: “Maria,
eccolo, è tuo, ma, mi raccomando, tienilo bene”! In quel momento il cuore
mi batteva forte dalla gioia! A casa lo tenni sempre vicino a me.
Un giorno a scuola ne decantai i pregi e le bellezze in un componimento che la
maestra ci aveva assegnato:”Parla di un oggetto a te caro”. Quando mi sposai e
dovetti trasferirmi a Torino lo lasciai in paese sicura che sarebbe stato ben
custodito, ma col pensiero di fargli attraversare lo stretto il prima
possibile. A qualche aspirante la mamma ripeteva “è di Maria, non si tocca!”.
Dovevano passare diversi anni prima di avere il mobiletto di nuovo con me.
Accadde quando mia sorella Michela, venduta la bella casa di via Principessa
Deliella, portò su i mobili che costituivano per noi oggetti di maggior pregio,
soprattutto dal punto di vista affettivo, alcuni dei quali portavano i segni di
nostri interventi impropri. Tra essi, accuratamente impacchettato, il mio
“giocattolo” finalmente partì da Pietraperzia per la sua nuova dimora. Giunto a
Torino fu portato da un restauratore che, con una modesta spesa, ridiede al
mobiletto il suo originale splendore. Ora il piccolo comò, posto in bella
vista, adorna tra gli altri mobili l’entrata della mia casa; lo sposto secondo
l’inclinazione del momento, ma sempre negli angoli più in vista. Passa il tempo
e inesorabile lascia su tutti noi le sue tracce, ma lui, lu cantaraniddu, non registra il fenomeno: sempre più bello, lui sì
è sempre come fosse appena nato».
L’amicizia tra le due famiglie si consolidò col
tempo e continuò, senza mai uno screzio o una semplice incomprensione, anche
quando i Rabita lasciarono la casa di via 4 Novembre e si trasferirono in Via
San Giuseppe. Scomparsi don Filippo e donna Giuseppina, l’amicizia è proseguita
soprattutto con Giuseppe Rabita, che ci aveva visto nascere e fatto giocare nei
nostri primi anni di vita. «Nel mio album delle fotografie», dice Maria, «una
ne conservo, scattata nell’occasione del passaggio di un fotografo ambulante
dalla via 4 Novembre: sono seduta su un tavolo ricoperto da un tappeto di
ciniglia; accanto al tavolo, sul cavallino a dondolo, mio fratello con il
boccolo ben ordinato. Tutte le volte che ci incontriamo, Peppino non manca di
ricordarmi quell’episodio: egli, nascosto dietro il tappeto, mi sostenne con
una mano per paura che cadessi all’indietro. Non avevo ancora un anno, mio
fratello ne aveva circa tre». Peppino ha continuato ad esercitare l’arte del
padre, con le stesse competenza e abilità, sino alla pensione. Era una sua
specialità la costruzione delle persiane con le gelosie movibili, cosa che
richiede precisione e pazienza. Il
nostro rapporto è stato, ed è, caratterizzato dagli stessi sentimenti di
sincerità, schiettezza e di stima reciproca oltre che da vicendevole aiuto in
momenti di difficoltà, come capita a tutti nella vita. Per noi è rimasto “cumpari Pippinu”, come erano soliti
chiamarsi con papà e mamma, così come “Cummari
Maria” mamma chiamò sempre la sua signora (Maria Marotta) quando Peppino si
sposò. Fu lui che ci accolse per
primo in Piazza Vittorio Emanuele, il 18 agosto del 2005, quando tornammo in
Sicilia dopo venticinque anni di assenza, con la stessa premura con cui
accoglieva mamma e Michela, quando, quasi ogni anno, d’estate, tornavano al
paese. Assieme a lui facemmo il giro del cimitero, fermandoci, dopo la visita
ai nostri cari, a ricordare, davanti alle loro tombe, parenti, conoscenti e
amici scomparsi. Per tutta la mattinata visitammo i luoghi del paese,
ricordandoci vicendevolmente gli eventi e i momenti che avevano visto vicine le
nostre famiglie.
Alla sua abilità di artigiano del legno, Peppino
Rabita associava una grande passione per il ballo, una passione incontenibile:
dotato di grande sensibilità musicale e di una naturale attitudine, non c’era
musica che non sapesse immediatamente, e senza alcuna difficoltà, ispirargli i
passi da compiere e le figurazioni da assumere. Ballare lo appagava, niente gli
dava maggiore soddisfazione. Di sentimenti romantici ed animo di poeta,
esprimeva nel ballo l’autenticità della sua natura. Amava ballare il valzer, il
tango, la polka e tutti i balli classici della tradizione, ma ballava anche,
con la massima disinvoltura, i nuovi balli, latino-americani, afro-cubani, man
mano che venivano importati nel nostro paese; il ritmo del bughi-bughi (Boogie-Woogie), del samba, del charleston gli mettevano addosso una
forte carica di entusiasmo. Il periodo dell’anno che preferiva era quello del
carnevale, durante il quale poteva dare sfogo alla sua passione dominante.
Assieme alla sorella Piera, anch’essa abile ballerina, giravano per le vie del
paese, vestiti in maschera, chiedendo un ballo nelle case dove si tenevano
serate danzanti. Vederli ballare faceva pensare a Fred Astaire e Ginger Rogers,
la celebre coppia di ballerini americani. Erano subito riconosciuti perché era
nota in paese questa loro predilezione; sempre applauditi e invitati a restare,
accettavano di fare un altro ballo, ma raramente si fermavano. Era come se
avessero una missione da compiere: essere i testimonial
della danza. Anche il fratello Vincenzo era portato per la musica, suonava
ottimamente la fisarmonica ed era un bravo ballerino: quando si sposò con Anita
Cutaia, figlia di don Arfonziju Cutaija,
impiegato comunale, le coppie diventarono due. Fu questa attitudine che portò i
due fratelli ad unirsi ad un gruppo di altri valenti suonatori e a fondare un
complesso, il “Gempen”, in cui
Peppino fu apprezzato batterista.
L’orchestrina riscosse grande successo tra i pietrini e per molti anni allietò
trattenimenti matrimoniali, feste di battesimo, serate danzanti. Quanto alla
intitolazione del complesso, ”Gempen”,
il significato resta un mistero, noto forse solo a qualcuno dei componenti del
gruppo.
Lunga vita, compare
Peppino, e grazie di questa amicizia!
Maria e Salvatore Giordano
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