06 maggio 2019

Via 4 Novembre e dintorni: La famiglia Rabita - 3^ Parte




Tra tutti i nostri vicini di casa ai quali si è accennato, la persona con cui la mamma si trovò più in sintonia fu la signora Giuseppina Aiesi, moglie di don Filippo Rabita. Tra lei e la signora Giuseppina fu subito simpatia reciproca; nel tempo si stabilì tra di loro una perfetta intesa che si consolidò in rapporto di stretta e duratura amicizia che coinvolse entrambe le famiglie. Nella signora Aiesi Rabita, di lei più anziana, la mamma, giovane sposa e già mamma poco più che ventenne, trovò una consigliera e un’interlocutrice ideale. La signora sua omonima trovò nella mamma un’allieva intelligente e intuitiva. Non erano necessarie fra le due molte parole per intendersi, si comprendevano con lo sguardo. Persone entrambe schiette, genuine e disponibili alla collaborazione, davano ai rapporti e alle cose peso e valore appropriati; dotate di una certa giovialità e senso dell’umorismo, sapevano cogliere l’aspetto comico delle situazioni. «La signora Rabita fu la prima ad apprendere della mia nascita», racconta Maria, «la mattina della domenica di quel 29 giugno, quando alla signora Aiesi, affacciatasi alla sua finestra di via Rosolino Pilo per chiamare mamma - si erano intese il giorno prima per andare insieme a messa - la nonna Maria Cava comunicò che, nella notte, ero nata io». Don Filippo Rabita aveva il suo laboratorio dietro la chiesa del Rosario, in via Fenice (ora Don Minzoni); vi esercitava l’arte assieme al fratello Liborio e ai propri due figli. Appena svoltato l’angolo, da piazza Matteotti, già si sentiva il rumore degli attrezzi in funzione e si avvertiva l’odore della polvere del legno, sempre più penetrante man mano che ci si avvicinava. All’interno del locale, si notavano, appoggiate alla parete di fronte all’entrata, assi di legno di vario tipo e di diverso spessore che toccavano quasi il soffitto; rastrelliere piene di attrezzi, righe e squadre pendevano dalla parete di destra, per lo più occupata da pezzi di mobili in costruzione. Addossate alla parete di sinistra e sostenute, su tre piani, da robusti spuntoni sporgenti, si intravedevano, benché fossero coperte da un telone grigio, casse dalla forma inquietante. Tra le casse e l’angolo sinistro di fondo stava il tornio. Due solidi banconi, con ampi incavi sui piani da lavoro e terminanti con grosse morse, erano sistemati perpendicolarmente alla parete di fondo. I Rabita costruivano ogni genere di mobile; seri e puntuali, godevano di un vasto numero di clienti. «Io però mi ci recavo», dice Salvatore, «soprattutto per farmi costruire
li rrummula: appena venivo in possesso del tronchetto di ulivo, correvo da don Filippo, sicuro e fiducioso, e lo osservavo mentre, tra una pausa e l’altra di lavori più seri, sistemato al tornio il pezzo di legno, lo sgrossava da una parte e dall’altra e lo rifiniva per dare all’oggetto la grandezza e la forma desiderata. Grazie a lui si potevano infatti ottenere, passione di tutti noi ragazzi, trottole personalizzate, della fattura che si voleva, tornite ed eleganti, dei veri prodotti artistici, ben diverse dalla rozze e grossolane trottole, tutte uguali, che si compravano alle bancarelle del mercato o al negozio di Magliocca. Peccato non averne conservata neppure una. Alla sua bravura nel lavorare il legno», prosegue Salvatore, «don Filippo univa molta bontà e pazienza; parlava sempre in modo calmo e pacato; mi spiegava, rispondendo a certe domande che, incoraggiato dalla conoscenza, osavo rivolgergli, che il bancone da lavoro del suo laboratorio era costruito con un legno americano, «forti cumu lu firru, lu piscipagnu» (pitch-pine), che il rumore lacerante che si sentiva mentre veniva segato era il lamento del legno, perché «anchi lu lignu soffri, cumu li cristiani».

«Impossibile per me», dice Maria, «dimenticare la figura di don Filippo Rabita. Me la ricorda costantemente un piccolo mobile che, posto in bella vista, adorna tra gli altri l’entrata della mia casa a Torino. Si tratta di un comò in miniatura stile ‘800, che don Filippo mi regalò quando ero ancora bambina. È un modellino alto 45 cm per cm 38 di larghezza, con i piedini a cipolla, le colonnine laterali tornite a bottiglietta, cinque cassettini estraibili, due piccoli superiori e tre grandi inferiori. Lu cantaraniddu, posto in un angolo del laboratorio e coperto di polvere, aveva attirato la mia attenzione una volta che, per caso, avevo accompagnato papà alla falegnameria Rabita, e me ne ero innamorata. A lungo lo avevo ammirato e desiderato! Quando mi capitava di transitare dalle parti di Piazza Matteotti, mi avvicinavo al laboratorio, entravo, mi accostavo al mobiletto, lo spolveravo, lo fissavo, uscivo col piccolo comò che mi ballava davanti agli occhi. Don Filippo intuiva il mio desiderio, ma restava apparentemente indifferente: mi fece patire un po’, forse il mobiletto gli ricordava suo padre, l’artefice, e non voleva separarsene. Ma “il miracolo” avvenne. Il giorno in cui si compì, don Filippo mi disse: “Maria, eccolo, è tuo, ma, mi raccomando, tienilo bene”! In quel momento il cuore mi batteva forte dalla gioia! A casa lo tenni sempre vicino a me. Un giorno a scuola ne decantai i pregi e le bellezze in un componimento che la maestra ci aveva assegnato:”Parla di un oggetto a te caro”. Quando mi sposai e dovetti trasferirmi a Torino lo lasciai in paese sicura che sarebbe stato ben custodito, ma col pensiero di fargli attraversare lo stretto il prima possibile. A qualche aspirante la mamma ripeteva “è di Maria, non si tocca!”. Dovevano passare diversi anni prima di avere il mobiletto di nuovo con me. Accadde quando mia sorella Michela, venduta la bella casa di via Principessa Deliella, portò su i mobili che costituivano per noi oggetti di maggior pregio, soprattutto dal punto di vista affettivo, alcuni dei quali portavano i segni di nostri interventi impropri. Tra essi, accuratamente impacchettato, il mio “giocattolo” finalmente partì da Pietraperzia per la sua nuova dimora. Giunto a Torino fu portato da un restauratore che, con una modesta spesa, ridiede al mobiletto il suo originale splendore. Ora il piccolo comò, posto in bella vista, adorna tra gli altri mobili l’entrata della mia casa; lo sposto secondo l’inclinazione del momento, ma sempre negli angoli più in vista. Passa il tempo e inesorabile lascia su tutti noi le sue tracce, ma lui, lu cantaraniddu, non registra il fenomeno: sempre più bello, lui sì è sempre come fosse appena nato».

L’amicizia tra le due famiglie si consolidò col tempo e continuò, senza mai uno screzio o una semplice incomprensione, anche quando i Rabita lasciarono la casa di via 4 Novembre e si trasferirono in Via San Giuseppe. Scomparsi don Filippo e donna Giuseppina, l’amicizia è proseguita soprattutto con Giuseppe Rabita, che ci aveva visto nascere e fatto giocare nei nostri primi anni di vita. «Nel mio album delle fotografie», dice Maria, «una ne conservo, scattata nell’occasione del passaggio di un fotografo ambulante dalla via 4 Novembre: sono seduta su un tavolo ricoperto da un tappeto di ciniglia; accanto al tavolo, sul cavallino a dondolo, mio fratello con il boccolo ben ordinato. Tutte le volte che ci incontriamo, Peppino non manca di ricordarmi quell’episodio: egli, nascosto dietro il tappeto, mi sostenne con una mano per paura che cadessi all’indietro. Non avevo ancora un anno, mio fratello ne aveva circa tre». Peppino ha continuato ad esercitare l’arte del padre, con le stesse competenza e abilità, sino alla pensione. Era una sua specialità la costruzione delle persiane con le gelosie movibili, cosa che richiede precisione e pazienza. Il nostro rapporto è stato, ed è, caratterizzato dagli stessi sentimenti di sincerità, schiettezza e di stima reciproca oltre che da vicendevole aiuto in momenti di difficoltà, come capita a tutti nella vita. Per noi è rimasto “cumpari Pippinu”, come erano soliti chiamarsi con papà e mamma, così come “Cummari Maria” mamma chiamò sempre la sua signora (Maria Marotta) quando Peppino si sposò. Fu lui che ci accolse per primo in Piazza Vittorio Emanuele, il 18 agosto del 2005, quando tornammo in Sicilia dopo venticinque anni di assenza, con la stessa premura con cui accoglieva mamma e Michela, quando, quasi ogni anno, d’estate, tornavano al paese. Assieme a lui facemmo il giro del cimitero, fermandoci, dopo la visita ai nostri cari, a ricordare, davanti alle loro tombe, parenti, conoscenti e amici scomparsi. Per tutta la mattinata visitammo i luoghi del paese, ricordandoci vicendevolmente gli eventi e i momenti che avevano visto vicine le nostre famiglie.

Alla sua abilità di artigiano del legno, Peppino Rabita associava una grande passione per il ballo, una passione incontenibile: dotato di grande sensibilità musicale e di una naturale attitudine, non c’era musica che non sapesse immediatamente, e senza alcuna difficoltà, ispirargli i passi da compiere e le figurazioni da assumere. Ballare lo appagava, niente gli dava maggiore soddisfazione. Di sentimenti romantici ed animo di poeta, esprimeva nel ballo l’autenticità della sua natura. Amava ballare il valzer, il tango, la polka e tutti i balli classici della tradizione, ma ballava anche, con la massima disinvoltura, i nuovi balli, latino-americani, afro-cubani, man mano che venivano importati nel nostro paese; il ritmo del bughi-bughi (Boogie-Woogie), del samba, del charleston gli mettevano addosso una forte carica di entusiasmo. Il periodo dell’anno che preferiva era quello del carnevale, durante il quale poteva dare sfogo alla sua passione dominante. Assieme alla sorella Piera, anch’essa abile ballerina, giravano per le vie del paese, vestiti in maschera, chiedendo un ballo nelle case dove si tenevano serate danzanti. Vederli ballare faceva pensare a Fred Astaire e Ginger Rogers, la celebre coppia di ballerini americani. Erano subito riconosciuti perché era nota in paese questa loro predilezione; sempre applauditi e invitati a restare, accettavano di fare un altro ballo, ma raramente si fermavano. Era come se avessero una missione da compiere: essere i testimonial della danza. Anche il fratello Vincenzo era portato per la musica, suonava ottimamente la fisarmonica ed era un bravo ballerino: quando si sposò con Anita Cutaia, figlia di don Arfonziju Cutaija, impiegato comunale, le coppie diventarono due. Fu questa attitudine che portò i due fratelli ad unirsi ad un gruppo di altri valenti suonatori e a fondare un complesso, il “Gempen”, in cui Peppino fu apprezzato batterista. L’orchestrina riscosse grande successo tra i pietrini e per molti anni allietò trattenimenti matrimoniali, feste di battesimo, serate danzanti. Quanto alla intitolazione del complesso, ”Gempen”, il significato resta un mistero, noto forse solo a qualcuno dei componenti del gruppo.

Lunga vita, compare Peppino, e grazie di questa amicizia!  

Maria e Salvatore Giordano





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