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26 marzo 2018

Don Giovanni in Sicilia e quegli sguardi di troppo




Incontro con l’Autore

Vitaliano Brancati. Un affascinante e poliedrico protagonista. Un autore dalla natura intricata e oscura, non sempre visto dalla critica con degna oggettività, la quale lo ha spesso etichettato come “colui che portò il gallismo e il dongiovannismo in Italia”.
Ahimè, mai ci fu errore più grave di questo.
Il dongiovannismo è sinonimo di vitalità, forza, vigore, coraggio, carnalità, tensione verso la più accesa virilità maschilista; elementi del tutto estranei a Giovanni Percolla e alla sua strampalata combriccola, protagonisti del romanzo Don Giovanni in Sicilia (1941). Già il titolo dimostra quella connotazione tutta siciliana dei personaggi, il che comporta una serie di tratti distintivi: primo fra tutti, quello del mero atto sessuale non più carnale, ma solo apparente, statico e a tratti platonico, poiché l’eros, colonna portante dell’opera, si regge su un'unica e sola logica: quella degli occhi e quella dello sguardo.
Don Giovanni in Sicilia non è l’unico romanzo in cui lo sguardo assume un significato pregnante, si veda Anni perduti, in cui i protagonisti sono impegnati nella costruzione di una torre, una torre da guardare, una torre da cui guardare il panorama, un guardare che si sostituisce all’agire. Lo sguardo, quindi, nasconde dei significati più profondi, che saranno ben chiari se si entra nel merito dell’opera.
Giovanni Percolla ha tre sorelle, Rosa, Lucia e Barbara. Si ricordi che Santa Lucia è la protettrice della vista e degli occhi, e Brancati non sceglieva assolutamente a caso i nomi: le sorelle, infatti, rappresentano un surrogato materno, quell'elemento che tiene Giovanni ancorato al nido, che non ne permette la crescita e la maturazione. Gli occhi, quindi, sono strettamente legati alla sfera sessuale. Perfino la sua attività lavorativa è all'insegna degli occhi, poiché “il suo lavoro al negozio si riduceva ad aiutare con gli occhi quello che facevano lo zio e i cugini”. Anche il padre non è esente dal motivo degli occhi, poiché «La notte, il commendatore Percolla fu assalito dalla febbre, e i suoi occhi ingranditi s’attaccarono alla porta come vedendo qualcosa che gli altri non vedevano» La morte si associa quindi ad una padre ipervedente, dotato di un sentire unico. Tutti i membri della famiglia, chiaramente in misura diversa, sono convulsamente trascinati nella giostra degli occhi e dello sguardo.



Veniamo quindi a Giovanni.
Il suo eros non è concreto, ma soltanto astratto e mortifero. Non si bea della carnalità, ma si associa sempre ad immagini di fissità. Non passa all’azione, ma è solo un gioco di sguardi, come nel Dolce Stil Novo, divenendo simbolo di una mancata crescita dei personaggi. Gli occhi, quindi, sono un prolungamento, o meglio una sostituzione, del membro virile, poiché essi approdano dove tutto il resto non arriva.
«“Talìa?” dicono a Catania. “Che fa, talìa” domanda a voce bassa lo studente al compagno di banco, insieme al quale, col capo chino e rigido, passa sotto il balcone di lei.» Alla fine tutto si riduce ad uno sguardo, anzi ad una talìata.
Perfino il primo incontro tra Giovanni e Ninetta è all’insegna dello sguardo: Giovanni viene, per la prima volta, talìato, questa volta non è lui ad esercitare lo sguardo sulla donna, ma a subirlo.
Dietro il motivo dello sguardo si celano ragioni ancora più inconsce e recondite, a tal proposito si vedano le condizioni in cui Giovanni venne al mondo:
«Giovannino nacque un giorno più tardi di quando doveva nascere. Per ventiquattr’ore, gli sguardi, che i parenti mandavano al grembo della madre […] furon quelli che si mandano a una tomba precoce. Il bambino, il “corazziere”, che non usciva alla luce, fu considerato morto, e il nonno del padre lo pianse con gli occhi asciutti e certi rumori della gola che somigliavano a colpi di tosse».
Come si legge, Giovanni nacque all'insegna degli sguardi rivolti al grembo della madre, visto come una tomba precoce, simboleggiando ancora un ripiegamento verso la rassicurante dimensione uterina. Il nonno del padre, invece, lo pianse con occhi asciutti, con un dolore quasi indifferente ed estraneo. Madre, padre, occhi, sono motivi ricorrenti nella psicanalisi, in relazione al cosiddetto “complesso di Edipo”, che si accecò per non vedere più quel sole che era stato testimone dell'incesto. Anche Giovanni, quindi, come Edipo, non vuole abbandonare “il nido”.
Il complesso di Edipo sembra poi tornare in Anni perduti, secondo cui «si diventa adulti quando si diventa padri» a testimonianza di una impossibilità di paternità, un’angoscia di castrazione. A proposito di ciò, si vedano “i rimproveri” della madre nei confronti del padre di Giovanni, il quale, quando era bambino, lo baciava morbosamente:
«“Smettila di baciarlo così! Gli porti via gli occhiuzzi!…”»
Secondo Freud, la paura dell’accecamento (e quindi anche quella di Edipo) consiste nell'originario e inconscio timore dell’evirazione. L’evirazione denota, ancora, impossibilità di un amplesso carnale, richiamando anche l’impotenza del Bell’Antonio, simbolo di un eros mancato. Sempre secondo Freud, il complesso di Edipo collegato al motivo degli occhi è fortemente presente nel racconto L’uomo della sabbia (o Mago sabbiolino) dello scrittore tedesco E. T. A. Hoffmann, tematica affrontata nel saggio Il perturbante.
Fra tutte le profonde relazioni che tra le due opere si possono stilare, una cattura la nostra attenzione: l’espediente della bambola. Muscarà, uno degli amici di Giovanni, tornò da un viaggio con una bambola che assomigliava molto ad una donna in carne ed ossa; l’oggetto del desiderio venne nascosto in casa di Muscarà, poiché esso consisteva nell'elemento “perturbante”, un particolare inquietante che suscitava anche attrazione. La bambola avrebbe sconvolto la loro routine, rischiando di far “passare all'azione” i personaggi confrontandoli con una realtà più corporea rispetto a quella in cui avevano vissuto, per questo doveva essere celata.
Anche nel racconto di Hoffman è presente una bambola, Olimpia, la quale si rivelerà essere, alla fine del racconto, un automa, una bambola senz’anima.
Il motivo degli occhi e dello sguardo connesso al complesso di Edipo è presente anche nell'ultima eredità che lo scrittore ci ha lasciato, Paolo il Caldo. Il protagonista ci consegna un triste e malinconico soliloquio:
«Lo sforzo costante della mia vita è stato di vedere la luce del mondo (che per me è quella della Sicilia) dalla parte ridente, ed espellere dal cervello le influenze della sua ripresa buia, dalla quale derivano l'apprensione e la lussuria.
Non vi sono riuscito sempre. I periodi, in cui non vi sono riuscito, portano il nome di esaurimento nervoso. Che cosa era esaurito in me? Il fosforo, dicevano i medici. E questa diagnosi mi piaceva in modo particolare, perché fosforo vuol dire luce. In uno di tali periodi, mi son trovato seduto su un gradino del teatro greco di Siracusa, a una rappresentazione dell'Edipo a Colono di Sofocle. Quando il vecchio cieco gridò, con un gesto falso:
"Luce, che nella mia vivente tenebra più non vedevo, e sempre eri pur mia…" io ebbi un capogiro. Il verso, nonostante il gesto falso da cui era accompagnato, sembrava avesse premuto, come il dito di un chirurgo che operasse sul mio cervello, il punto in cui sono concentrate le forze della coscienza e della veglia.
»
Come si evince, il protagonista è consapevole di un suo oscuramento della coscienza, di un tragico conflitto interiore, va quindi alla ricerca della "luce" (motivo presente anche in Anni perduti), senza la quale la mente è ottenebrata dall'apprensione e dalla lussuria. E della stessa luce va alla ricerca Edipo che, dopo l'accecamento, viveva nelle tenebre.
Ricordiamo che il Novecento è il secolo della psicanalisi, dell’inconscio, del monologo interiore, del flusso di coscienza, basti tener presente l'Ulisse di James Joyce e La coscienza di Zeno di Italo Svevo (il cui protagonista, guarda un po’, è afflitto dal complesso di Edipo).
L’analisi riportata denota quindi una grande attenzione di Vitaliano Brancati al panorama novecentesco della letteratura italiana e straniera, un autore che, in virtù delle sue mille risorse e dei numerosi spunti di riflessioni, non può e non deve essere ridotto ad anguste etichette.
Spogliamo quindi i preziosi scritti del Brancati da tutte quelle nomee astruse e da quelle classificazioni riduttive, andiamo alla loro natura più intima ed essenziale, di una tempra tutta siciliana. Gettiamogli quindi uno sguardo, anzi, una talìata.


Anna Marotta


23 marzo 2018

INTERVISTA IMPOSSIBILE A VITALIANO BRANCATI. Una chiacchierata sull’Amore




Per quanto si possa parlare di un Autore, per quanto si possano leggere e commentare le sue opere, si ha sempre la sensazione che gran parte del suo pensiero rimanga nell’abisso dell’inesprimibile, del non-detto. Questa pseudo-chiacchierata con Vitaliano vuole rubare all’ombra ancora un piccolo lembo del suo pensiero e offrire alla luce ancora una parte della sua concezione della Vita.
Sono in sala d’attesa nell’anticamera dei cieli, circondata da una gran folla. Tutti chiedono di Vitaliano. Mentre ripasso con lo sguardo ancora qualche appunto sulla sua vita col block notes fra le mani, mi meraviglio che così tanta gente lo conosca. Scruto gli astanti: sono giovani, perlopiù uomini fra i venti e i quarant’anni. Molti hanno un aspetto curato e sicuro di sé, come predatori all’attacco saettano le donne della sala con sguardi maliziosi; altri, al contrario, sono timidi e insicuri; i loro sguardi sembrano creature spaurite che si aggirano per una radura senza la protezione della madre né di una fronda che faccia loro ombra, ansiosi di nascondersi dietro il primo cespuglio che si offra loro.
Le due categorie fanno gruppo ciascuna da una parte diversa della sala. Un’immagine grottesca e curiosa: sembrava che un capriccioso Mosè si fosse divertito a separarle come le acque del Mar Rosso, la Baldanza da un lato e la Pavidità dall’altro.
Ad interrompere le mie riflessioni sul curioso campionario umano, da dietro una porta, come un ronzio di una voce irata, ma non di un iracondo per natura, bensì di qualcuno che, punzecchiato oltremisura, perda d’improvviso la pazienza, e forzi perciò l’eleganza della sua voce in un momentaneo e attoriale sfogo d’ira: «Ma insomma, basta con queste richieste! Tutto credevo di essere ricordato dopo la morte, tranne che come il mental coach per la conquista dell’altro sesso! Selezionate, selezionate!».
Realizzo d’improvviso l’accaduto e mi si fa chiaro il motivo della copiosa presenza maschile nella sala. Un uomo sbuca da una porta a vetro, scruta con lo sguardo nella mia borsa la pila di libri dell’autore e, indovinato il block notes fra le mie mani chiuse, mi invita ad entrare.

B. Ah, una donna! (Tira un respiro di sollievo). Almeno lei non mi farà richieste assurde su come diventare il perfetto Don Giovanni!

V. (Chiudo la porta alle mie spalle e saluto con una punta di timidezza. Dalla penombra affiorano due occhi, dietro le cui fessure intravedo un abisso, penetranti e dolci, sovrastati da due sopracciglia perfette, scure e nette che, dopo un attimo di distrazione, rimbalzano il mio sguardo sulle iridi scure. E mi trovo occhi negli occhi con Vitaliano. Lui non disturba il mio silenzio. Mentre lo osservo sul suo volto si sovrappongono più volti: quello seducente di un arabo dall’incarnato e dalle iridi scure; quello elegante di un normanno dai lineamenti quasi filiformi sul viso sottile e aggraziato; quello caldo di un siciliano dalla fronte alta e i baffi scuri sulle labbra che, ora, accennano un sorriso.)

B. La gente crede che lo scrittore sia un prete sul pulpito, e invece è solo un fedele che ha il coraggio di levare la sua preghiera più forte degli altri.

V. Oggi non si solleva nemmeno più lo sguardo al cielo, perché non si hanno preghiere da levare. O a volte si chiede qualcosa, ma non è ciò che si vorrebbe realmente, presa in prestito com’è dal commerciante di sogni di turno. Così si cercano, più che guide che dicano cosa fare, uomini che prima ancora suggeriscano cosa desiderare.

B. Non mi dica che gli uomini non desiderano più nemmeno le donne!

V. La maggior parte crede di desiderarle, ma le concupisce soltanto, cosicché una volta avutele, viste e toccate, non sa più che farsene e va alla ricerca di emozioni sempre nuove, che diventano vecchie e consunte in un batter d’occhio.

B. (Sorride con un respiro ruvido che sfrega in fondo alla gola come un archetto sulle corde tese di un violino, senza voler minimamente celare una soddisfazione in procinto d’esplodere.) E poi lo criticavano il povero Antonio! “De-siderare”, signorina, dal latino DE- : rafforzativo e SIDERARE, da sidus, sideris: stella. “Fissare attentamente le stelle”, tenere lo sguardo fisso su qualcosa che è distante da noi, alto e quasi irraggiungibile e per ciò stesso affascinante, che rinnova un desiderio e un’emozione costante.

V. Meravigliosa etimologia, signor Brancati, ma prima o poi Antonio doveva “raggiungerla” quella donna!

B. E cosa vuol dire “raggiungere una donna”? Congiungersi con lei? Tanti uomini portano a letto le donne, vi fanno perfino dei figli, ma non le hanno mai raggiunte.

V. (Sgrano gli occhi in segno di stupita approvazione, poi dalle mie sopracciglia aggrottate trapela una profonda delusione). Ma fare l’amore è meraviglioso! (L’esclamazione perde un po’ di foga nelle sue ultime lettere, mescolata com'è ad una punta di imbarazzo). Nobile, profondo sentimento l’amore, che ci fa gioire fin nei meandri dell’anima, e ci eleva. Ma rimarrebbe solo una contorsione del cuore, uno spasimo della mente se non si “facesse” concreto... fare l’amore... è l’amore che si fa odore dolce su per le narici, si fa pelle sotto le dita, si fa suono negli orecchi e sapore dell’altro sulla lingua e...

B. ...e sensazione di vederlo in persona, l’Amore, nell’immagine della donna che ami. (Esita).
Lei crede che Dante sarebbe riuscito ad amare così a lungo e con quell’intensità Beatrice, se l'avesse sfiorata anche solo una volta?

V. Ma Dante aveva nove anni al suo primo incontro con Beatrice! E la seconda volta in cui la incontra, dopo quasi dieci anni, lei gli nega persino il saluto. Non era amore quello! L’amore diventa tale solo se ricambiato, prima d’allora è solo ossessione, venerazione o contemplazione. Anche un’opera d’arte ci rapisce con la sua bellezza e ci eleva, ci rivela grandi verità. Che differenza c’è allora fra una donna e un quadro?

B. (Sospira). Vecchio dilemma. Ha colto nel segno, signorina. Era come quadri in un museo che ci piaceva ammirare le donne. Giovanni Percolla, Muscarà, Scannapieco... i marciapiedi di via Etnea erano per loro le pareti del Louvre, del Musée d’Orsay. Guardavamo quei visi dolci, quelle gambe e quelle rotondità coperte dalle vesti come Veneri del Rinascimento, e le donne a Viareggio come fossero le bagnanti di Renoir...

V. (La mia bocca si curva in un sorriso d’assenso). Se tutto quello che ci circonda fosse rimasto solo un’idea nella mente di Dio, nulla esisterebbe. Un’idea, infondo, è nulla.

B. Lei crede in Dio, dunque. La invidio.

V. Non so se Dio esista. Ma mi piacerebbe che fosse così. Anche lei cercava Dio. Quel viaggiatore dello sleeping n. 7, i tormenti di Ermenegildo inginocchiato in chiesa accanto ad Antonio... ecco, posso rileggerle un suo passo?

B.  (Sfila Il bell'Antonio dalle mie mani, e prima ancora che io gli indichi quale riga leggere), esordisce:

È possibile che le parole cielo, paradiso, giustizia divina, pace eterna non corrispondano a nulla di reale? Loro non corrispondono a nulla, proprio loro che sono le parole più belle della nostra vita? È possibile che il nome Gesù Cristo, ecco lo ripeto: Ge-sù Cri-sto, sia il nome di un povero morto e a pronunziarlo non si fa voltare nessuno né in questo né in un altro mondo? Ecco, lo ripeto ancora: Gesù Cristo, Ge-sù Cri-sto, il nome di un matto dunque, vissuto duemila anni fa, che si figurava in buona fede di versare sangue e morire solo per una sua generosa accondiscendenza alla debolezza umana, e di lasciare in piedi i soldati che lo fustigavano e le torri della città che assisteva al suo supplizio, solo frenando a stento la sua onnipotenza? Gesù Cristo, un pietoso allucinato con la testa sempre arrovesciata a guardare il cielo, di cui in realtà ignorava la forma, la composizione e la luce, ma che egli credeva ormai la sua reggia, vedendovi nel mezzo un suo trono dorato alla destra di un assai curioso Padre… E dunque la sera di giovedì, quando pregò nell'orto ripetendo nel modo più tenero questa parola “Padre”, dall'altra parte non c'era nessuno ad ascoltarlo? E quando, sulla croce, promise al ladrone convertito di portarlo in cielo con sé, povero ladrone, come dovette bestemmiare quando s'accorse che alla penombra dell'agonia succedeva un buio sempre più fitto e senza speranza!… E dunque per noi uomini, ci chiamiamo Ermenegildo Fasanaro o Gesù Cristo di Nazaret, non c'è che buio e ignoranza? E, se andiamo a scuola, una rassegnata filosofia che si accontenta di chiamare “verità” le nostre disgraziate domande senza risposta?

(L’interrogativo rimane sospeso come un equilibrista sul filo teso nel tendone di un circo. Silenzio)

V. Beh! Dio o D’io? In ogni d-io c’è un “io”, caro Brancati. Dio è il mondo visto dalla mia prospettiva, il significato che do a quello che mi circonda. Dio è nient’altro che quel senso.

B. Ecco, io credevo che fosse l’Amore il senso. È per questo che Antonio non sfiorò la sua Barbara: non voleva che lei fosse parte di tutto il resto... della materia che degrada e sfiorisce, della carne che invecchia e marcisce...

V. Quella Bellezza... quella che nei suoi romanzi lei scrive con la “B” maiuscola.

B. Esatto. Non sarebbe bastato l’acme di un orgasmo della carne per raggiungerla. Così gli diedero dell’ “impotente”.

V. Chi ama la Bellezza pura si sente sempre un po’ impotente: possiamo ammirarla in un dipinto, scorgerla in una statua, annidarla in una riflessione filosofica, corteggiarla in un’alba, in un uomo, in un tramonto, ma non abbiamo mai la sensazione di raggiungerla veramente.

B. Questo è l’essere umano: tensione, attenzione, intenzione... tutto è un tendere, insomma. Abbiamo sempre bisogno di tendere le braccia al di sopra di noi per rimanere in piedi, per ergerci sulle cose e sul mondo.

V. E ora che è qui? In questo Oltretomba su cui gli uomini fantasticano a dismisura... l’Iperuranio, il luogo della pace, della salvezza, il coacervo indifferenziato delle idee, dei sogni e dei pensieri... sente di aver finalmente sfiorato ciò che ha inseguito per tutta la vita?

B. (Solleva le sopracciglia come un bambino cui si scopre una bugia, poi disegna fulminea con lo sguardo una linea obliqua e posa i suoi occhi sul pavimento). Ora che sono qui... mi mancano i gelati di Palermo, la zuppa di pesce della Zì' Teresa a Napoli, la bistecca di Salvini a Firenze, il silenzio del Canal Grande, l'aria fresca dei fiumi dell'Alto Adige, le vasche da bagno dell'Hôtel Coccumela a Sorrento

V. (Adesso sono io a soffiare il mio sorriso dentro un sospiro mesto) Tutto quello che faceva trasalire il petto di gioia a Marietta in quel suo ultimo romanzo...

B. Ecco, ora che sono da questa parte dico: siate come lei... sentite le vibrazioni della Vita in ogni corda dei  vostri sensi; non perdetevi nell'eccesso della razionalità. Quello che si registra nella mente è solo lo spartito... ma la Vita è musica. Ecco, da scrittore mi sono sentito come un musicista che compone senza aver mai sfiorato il tasto di un pianoforte, la corda di un violino...

V. (Distolgo lo sguardo dal suo viso per lasciarlo solo con la sua Nostalgia, con discrezione, come uno che, costretto nello stesso luogo con due amanti, voglia lasciarli indisturbati. I miei occhi sono catturati dalla luce di una finestra alle sue spalle, da cui un azzurro turchino irradia forte la luce solare. Il cielo è terso al punto tale che i vetri sembrano non reggerne il peso cromatico e, dissoltisi, brillino in minutissime schegge danzanti insieme al pulviscolo luminoso. Una risata ovattata d’improvviso vi fa da melodia. Allungo la vista e nella nebbia luminosa pian piano si materializzano due figure. Riconosco Antonio, dal volto olivastro, affumicato potentemente dalla barba, ma delicatissimo e quasi unto di lacrime al di sotto degli occhi, bello, proprio come Vitaliano l’aveva descritto. Scompigliati dopo la giravolta, i capelli neri di Barbara, attraversano il viso di lui come una nube passeggera e scura il sole di primavera. Antonio prende il viso di lei fra le mani e con gli occhi raggianti di felicità stringe le labbra sulle sue. Un bacio impetuoso, lungo e profondo come uno che si tuffa da uno scoglio e viene inghiottito dal blu... riemerge e apre gli occhi. L’abbraccio che segue è così stretto che vedo le due sagome diventare un tutt'uno, fra loro, con l’azzurro, con la luce).