Quell’estate del 1943 i lavori agricoli
furono portati a termine come consentì la situazione. Lasciati i rifugi dove
avevano trascorso il periodo della guerra, i pietrini sfollati poterono fare
ritorno alle loro case. La vita riprendeva il suo corso.
In
paese l’atmosfera non era lieta; la guerra era durata poco e aveva provocato
modesti disastri ma tante preoccupazioni occupavano il cuore della gente. La
liberazione aveva riguardato soltanto parte del sud d’Italia; nel resto della
penisola gli Alleati stentavano a sfondare le forze tedesche attestate lungo
linee difensive fortificate dal Tirreno all’Adriatico e ad avanzare verso nord.
Contingenti militari italiani erano presenti nei vari teatri di guerra, in
Iugoslavia, in Albania, in Grecia, in
Russia. Le famiglie che avevano congiunti ai vari fronti, non avevano cessato
di temere per la sorte dei loro cari. Ma altri eventi politici e militari erano
intervenuti in quel periodo a rendere più complicata e difficile la situazione
in Italia.
L’armistizio separato.
Nel luglio del ’43,[1] con le forze
anglo-americane già in Sicilia, destituito e arrestato il suo capo, Benito
Mussolini, l’esperienza del governo fascista, iniziata il 31 ottobre 1922, è
finita. Il nuovo esecutivo, presieduto dal generale. Badoglio, concluso separatamente
l’armistizio con gli Alleati, ne dà l’annuncio l’8 settembre. Re e Governo in
tutta fretta abbandonano Roma e si trasferiscono a Brindisi.
Intanto
la guerra continua ma i termini poco chiari del proclama non fatto seguire da
precise indicazioni operative (…”ogni
atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare”…”le forze
italiane reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza )
creano grande disorientamento nelle forze armate italiane, a tutti i livelli,
con disastrose conseguenze. I tedeschi, all’annuncio dell’armistizio che
considerano tradimento, da nostri alleati (l’Italia era entrata in guerra a
loro fianco il 10 giugno 1940) sono diventati forze di occupazione. I generali
italiani non sanno cosa fare né quali ordini impartire alle loro unità di
fronte alla scelta drammatica se arrendersi ai tedeschi, combattere al loro
fianco o contro di essi. Si verificano casi di suicidio da parte di alti
ufficiali per non subire l’onta della cattura e della prigionia; episodi di
interi reparti che reagiscono con le armi alle condizioni dei tedeschi e cadono in combattimento, (è il caso
della Divisione Acqui a Cefalonia) o, se superstiti, vengono barbaramente
trucidati[2]. L’esercito italiano è in
gran parte formato da contadini del meridione; il primo impulso è quello di
tornare a casa e comunque di pensare alla sopravvivenza[3]. Sono i luoghi e le
particolari circostanze in cui ciascuno si trova che determinano le scelte
individuali e di gruppo. Di
quelli che tentano la via del ritorno a casa, molti sono catturati e fucilati o
deportati, come successe ai nostri concittadini:
Liborio Meglio, finito nel campo di
sterminio di Flossenburg "Lager Friedhof" (Germania) sepolto a Flossenburg
(06/09/1912 – 01/05/1944).
Dati tratti dal sito del Ministero della
difesa.
Bonfirraro Benedetto, sepolto ad Amburgo
(Germania), cimitero militare italiano d’onore (27/11/1922 – 21/03/1945).
Dati tratti dal sito “Dimenticati di Stato”.
Carà Michele sepolto a Francoforte sul meno
(Germania), cimitero militare italiano d’onore (14/07/1910 – 24/07/1944).
Dati tratti dal sito “Dimenticati di Stato”.
Puzzo Alessandro, sepolto a Francoforte sul
meno (Germania), cimitero militare italiano d’onore (11/05/1908 – 20/03/1945).
Dati tratti dal sito “Dimenticati di Stato”.
Cimitero militare italiano d'onore di Francoforte sul Meno fonte "Dimenticati di Stato" di Roberto Zamboni |
I tedeschi, padroni del campo, subito dopo l’armistizio
hanno liberato Mussolini prigioniero al Gran Sasso, il quale, con l’intento di
far rivivere un nuovo stato fascista, con la parte dell’esercito a lui rimasta fedele
e le strutture amministrative del precedente regime, costituisce la Repubblica
Sociale Italiana (RSI), di fatto sottomessa al volere dei nazisti. Con il
sostegno degli stessi il nuovo governo fascista domina con spietatezza sulle
regioni del centro-nord, imponendo alle popolazioni di aderire alla R.S.I. con
l’obbligo del servizio di leva pena la condanna a morte per i renitenti.
Dal
settembre 1943 al 1945 il nostro Paese, quindi, rimane diviso in due: Regno del Sud corrispondente al
territorio liberato dagli Anglo-americani (sede Brindisi e successivamente
Salerno) e Repubblica Sociale Italiana
R.S.I.(o di Salò dal nome della cittadina in provincia di Brescia, sede del
governo fascista).
La lotta armata
Di fronte alla drammaticità del momento tanti ufficiali
contrari alla nuova dittatura non indugiano ad abbandonare le caserme: seguiti
da molti militari dei loro reparti convinti anch’essi della necessità di una
scelta perentoria (il ritorno a casa si presenta estremamente rischioso) prendono
la via della montagna e danno vita alla Resistenza armata contro gli oppressori.
Alle lotta partigiana che si sviluppa in tutte le zone occupate dai
nazifascisti si uniscono i giovani renitenti alla leva, cittadini, uomini e
donne di ogni condizione e di ogni orientamento politico: studenti,
intellettuali, contadini, operai, sacerdoti che rifiutano di sottomettersi al regime
della RSI. Migliaia di persone che via via aumentano di numero. Con il
coordinamento politico militare del CNL (Comitato di Liberazione Nazionale)
costituito dai partiti democratici, la lotta contro le forze preponderanti del
nemico viene condotta con azioni di guerriglia per piccoli gruppi. Le loro armi
sono quelle sottratte alle caserme dai soldati prima di lasciarle; altre armi,
munizioni, viveri vestiario, fanno giungere ai partigiani le forze alleate con
lanci dall’alto. Così, per circa due anni, una feroce e sanguinosa guerra imperversò
nel centro-nord d’Italia, una vera e propria guerra civile che coinvolse popolazioni
delle campagne e delle città fatte oggetto di efferati eccidi, da parte delle
formazioni naziste e nazifasciste (un elenco lunghissimo, tra i più disumani
quelli delle Fosse Ardeatine (Roma), di Boves (CN)- Marzabotto (BO) Sant’Anna
di Stazzema (LU). Nulla di tutto ciò appresi durante la frequenza delle scuole
media e magistrale, forse nessuno sapeva cosa fosse realmente accaduto. Certamente
nulla si seppe sino alla liberazione dei deportati da parte delle armate russe,
dei campi di sterminio predisposti in segretezza dai nazisti per la sistematica
eliminazione degli ebrei: Auschwitz, Birkenau, Buchenwald, Mauthausen sono nomi
che mettono i brividi, in essi perirono, assieme ad internati di diverse etnie
e condizioni, circa sei milioni di ebrei. Primo Levi ce lo ricorda soprattutto
nel suo “Se questo è un uomo”.
Il contributo dei siciliani.
Ma
riguardo alla Resistenza la delimitazione nord/sud fu solo geografica. È senza
fondamento la convinzione che la lotta per la liberazione dell’Italia dalla
dittatura nazifascista sia stata “faccenda”esclusiva della dell’Italia del
centro-nord. Certamente lo fu, come si è detto, per le popolazioni delle
regioni interessate. Alla resistenza armata parteciparono, con contributo di
sacrifici e di sangue, uomini e donne provenienti da tute la parti d’Italia.
Perché, se “prevalevano le divise”, nelle formazioni partigiane “si parlavano
tutti i dialetti”[5].
Non esistono dati certi circa il numero di meridionali che scelsero di
combattere per la libertà dell’Italia. Una stima parziale, fatta dall’Istituto
di Storia della Resistenza di Torino (ISTORETO) relativa alle squadre partigiane
che operarono nelle province di Torino e Cuneo, ridimensiona al 20%, la
precedente valutazione dello storico A. Monti che sosteneva aggirarsi intorno
al 40% la presenza di meridionali in quelle formazioni[6]. Per quanto riguarda, in
particolare, il contributo dato dai siciliani, in un articolo sul quotidiano
“la Repubblica” del 25 /4/2008, si parla di 2.600 partigiani siciliani,
riconosciuti dall’Istoreto, che operarono in Piemonte; a parte le province di
Biella Novara e Vercelli che dipendevano dal comando di Milano[7]. Ad integrazione di tale
dato, portandolo a 2727 unità, l’articolo di Mauro Begozzi, pubblicato sulla
Rivista “Nuova Resistenza”, riporta i nominativi di 127 combattenti siciliani presenti nelle formazioni partigiane del
novarese e del VCO (Verbano Cusio Ossola, i paesi intorno al
lago Maggiore ) tra cui 18 caduti e 3 deportati in Germania[8].
Non
sono solo militari ma anche operai, impiegati, ferrovieri, studenti,
carabinieri siciliani, giovani e meno giovani, provenienti da tutte le province
dell’isola, in Piemonte per precedenti migrazioni o trasferimenti. Situazioni
simili si trovavano anche in altre regioni del nord occupate dai tedeschi. Un
esempio molto noto è quello di Concetto Marchesi di Misterbianco (CT),
latinista, rettore all’Università di Padova, il quale fu tra i primi ad
incitare studenti e professori a lasciare la scuola, dandone l’esempio, e a
unirsi ai resistenti per liberare l’Italia dal terrore nazista.
Secondo
dati ANPI (Associazione Nazionale Partigiani Italiani), 211 furono i siciliani
che persero la vita in Piemonte, molti dei quali insigniti di medaglia d’oro
(26), d’argento ( 85), di bronzo e di croce di guerra. Altri 70 si immolarono
nelle altre regioni d’Italia, 5 perirono nel massacro delle Fosse Ardeatine di
cui uno insignito di medaglia d’oro, due d’argento[9].
Tra i caduti è indicato il nome di un figlio di Pietraperzia: Filippo Di Blasi (Pirtusiddu), 12-9-1920, caduto in combattimento a Chiusa Pesio (CN) il 24/3/1945.
http://www.banchedati.istitutoresistenzacuneo.it/broken_lives/28490
Quella di Filippo Di Blasi è una vicenda toccante; sentirla raccontare dal cognato, Vincenzo Guarnaccia (Vicinzu Caniglia), ci ha procurato intensa emozione. Filippo, in servizio a Cuneo, si è fidanzato con una ragazza di Beinette, piccolo comune di quella provincia, dove i genitori di lei, sig.ri Quaranta, possiedono una grossa cascina. Dopo l’8 settembre Filippo viene accolto dai futuri suoceri, tra l’altro figure di spicco della Resistenza alla quale anche lui ha aderito. Della IV Divisione Alpini, Filippo opera con le bande dislocate nelle montagne della Valle Pesio. Le valli del cuneese, culla delle prime formazioni partigiane, sono le zone in cui più frequenti si susseguono i rastrellamenti e più accesi i combattimenti. Spesse volte, tra molti rischi, il nostro giovane partigiano è sceso a Beinette, in quei venti mesi di vita di trincea, rinsaldando il legame con la famiglia Quaranta, e parlato di matrimonio, da celebrare a liberazione avvenuta. Quando però manca circa un mese alla liberazione, in uno di quegli scontri che si fanno più violenti quando la conclusione si avvicina, Filippo rimane ucciso. La notizia colpisce e addolora la ragazza e i suoi familiari; sono loro che si occupano del recupero del corpo e della tumulazione nel cimitero di Beinette. La Cascina Quaranta, a Beinette, ora si trova in Via Filippo Di Blasi: i Quaranta, membri influenti della comunità, hanno voluto che la strada in cui si trova la loro casa fosse intitolata al ragazzo siciliano che si era immolato per la liberazione dell’Italia.
Tra i caduti è indicato il nome di un figlio di Pietraperzia: Filippo Di Blasi (Pirtusiddu), 12-9-1920, caduto in combattimento a Chiusa Pesio (CN) il 24/3/1945.
http://www.banchedati.istitutoresistenzacuneo.it/broken_lives/28490
Quella di Filippo Di Blasi è una vicenda toccante; sentirla raccontare dal cognato, Vincenzo Guarnaccia (Vicinzu Caniglia), ci ha procurato intensa emozione. Filippo, in servizio a Cuneo, si è fidanzato con una ragazza di Beinette, piccolo comune di quella provincia, dove i genitori di lei, sig.ri Quaranta, possiedono una grossa cascina. Dopo l’8 settembre Filippo viene accolto dai futuri suoceri, tra l’altro figure di spicco della Resistenza alla quale anche lui ha aderito. Della IV Divisione Alpini, Filippo opera con le bande dislocate nelle montagne della Valle Pesio. Le valli del cuneese, culla delle prime formazioni partigiane, sono le zone in cui più frequenti si susseguono i rastrellamenti e più accesi i combattimenti. Spesse volte, tra molti rischi, il nostro giovane partigiano è sceso a Beinette, in quei venti mesi di vita di trincea, rinsaldando il legame con la famiglia Quaranta, e parlato di matrimonio, da celebrare a liberazione avvenuta. Quando però manca circa un mese alla liberazione, in uno di quegli scontri che si fanno più violenti quando la conclusione si avvicina, Filippo rimane ucciso. La notizia colpisce e addolora la ragazza e i suoi familiari; sono loro che si occupano del recupero del corpo e della tumulazione nel cimitero di Beinette. La Cascina Quaranta, a Beinette, ora si trova in Via Filippo Di Blasi: i Quaranta, membri influenti della comunità, hanno voluto che la strada in cui si trova la loro casa fosse intitolata al ragazzo siciliano che si era immolato per la liberazione dell’Italia.
Tra
gli esempi più illustri del contributo dato dai siciliani alla liberazione
dell’Italia è annoverato, per il ruolo che vi svolse, l’on. Pompeo Colajanni,
classe 1906[10].
Il personaggio sarebbe divenuto molto noto a Pietraperzia: fisicamente
inconfondibile per i suoi foltissimi baffi neri, più volte, nel dopoguerra, i
pietrini udirono la sua voce robusta risuonare nella Piazza Vittorio Emanuele,
durante le campagne elettorali. Egli, nel 1943, tenente di complemento presso
la Scuola di cavalleria di Pinerolo, fu tra i primi, subito dopo l’8 settembre,
ad organizzare, con altri ufficiali, i suoi soldati e civili, la resistenza,
fondando a Borgo San Dalmazzo (CN) la banda partigiana “Carlo Pisacane” da cui
si svilupparono le brigate “Garibaldi”. Le imprese da lui condotte, come
comandante delle brigate garibaldine della zona del Monferrato, con il nome di
battaglia di “Barbato”, sono rimaste leggendarie. Per la sua esperienza e
competenza militare fu nominato Vice comandante del Comando Militare Regionale
Piemontese del Corpo Volontari della Libertà che riuniva i vari raggruppamenti
partigiani di diverso orientamento di tutto il Piemonte. Furono le formazioni
partigiane guidate da “Barbato” che liberarono Torino il 28 aprile 1945. Il
Comune di Cavour (TO) ha voluto ricordare il grande partigiano apponendo sulla
facciata del palazzo comunale, in piazza Sforzini, una lapide con questa
iscrizione: «Da Cavour (TO) il 10/9/1943 con alla testa il
comandante Barbato on. Pompeo Colajanni un gruppo di militari e civili iniziò
la guerra di liberazione nella zona per dare al nostro paese pace libertà e
democrazia. L’Amministrazione Comunale e i partigiani superstiti posero il 25
/4/1992. » Torino gli ha dedicato una strada. Un cippo in suo onore ha posto al
Giardino Inglese di Palermo l’Amministrazione della città:”Pompeo Colajanni,
comandante Nicola Barbato (1906-1987) partigiano, contribuì alla liberazione dell’Italia
dai nazifascisti e al riscatto della Sicilia”.
Non
meno degno di essere ricordato è il Comandante “Petralia”, nome di battaglia di
Vincenzo Modica, classe 1919, di Mazara del Vallo. Ufficiale presso la Scuola
di cavalleria di Pinerolo, come Pompeo Colajanni, ma di diversa formazione ed
esperienza politica, convinto dal più anziano tenente, lo seguì e ne divenne
vice e braccio destro. Si rese celebre come comandante della I Divisione
Garibaldina. “Petralia”era al fianco
di “Barbato” nella liberazione di Torino. A lui, ferito al braccio sinistro,
toccò l’onore di portare la bandiera del CVL ( Corpo Volontari della Libertà)
nella sfilata dei partigiani vittoriosi del 6 maggio 1945, a Torino.
Altro celebre esempio di partigiano
siciliano è quello di Nunzio Di Francesco, Linguaglossa (CT) 03/02/1924 Catania
21/02/2011.
Giovane
di formazione cattolica, militare artigliere a Venaria Reale,(TO ) lascerà la
caserma dopo l’8 settembre assieme ad altri siciliani, raggiungerà le “Brigate
Garibaldi” di “Barbato”dove sarà il partigiano Athos comandante di un
Distaccamento. Catturato dai tedeschi il 18/10/1944 e condannato a morte per
aver guidato una banda armata contro la Repubblica di Salò, verrà deportato a
Bolzano in attesa della esecuzione e successivamente nel campo di sterminio di
Mauthausen, non più persona ma numero-115503, dove assisterà alle atrocità
commesse dai nazisti, come scriverà nelle sue memorie[11]. Sarà liberato il
05/05/1945. Ritornato in Sicilia la sua adesione di partigiano alle “Brigate
Garibaldi” sarà criticata da parte dei suoi amici di prima e di autorità
ecclesiastiche, e troverà ostacoli all’ottenimento della pensione di guerra.
Sino al termine della sua vita sarà Presidente dell’ANPI della provincia di
Catania, ponendosi come testimone dell’impresa partigiana e dei valori della Resistenza
da proporre sempre nella formazione dei giovani;
a tale scopo abbiamo voluto fare la presente ricerca.
La
data del 25 aprile ’45, giorno della liberazione delle città di Milano e di
Torino ad opera dei partigiani segna la fine della guerra fratricida e la
liberazione dell’Italia dal nazifascismo. Dovevano passare ancora 14 mesi prima
che i prigionieri di guerra potessero tornare alle loro famiglie.. Nel 1946 la
data del 25 aprile venne proclamata festa nazionale dal primo governo della Repubblica
Italiana presieduto da Alcide De Gasperi.
Salvatore
Giordano
[1] Il
pronunciamento del Gran Consiglio del Fascismo che destituiva Mussolini è del 25 luglio 1943.
[2] Montanelli-Cervi,
Storia d’Italia-L’Italia del Novecento,
Milano, Fabbri Editori, 1998, pp.244-245.
[3]La
situazione era quella che avremmo vista rappresentata nel film di Luigi
Comencini, Tutti a casa, del 1960,
con l’interpretazione di Alberto Sordi.
[4]
Testimonianza di Vincenzo Siciliano (Vicinzu
Barraggiddu).
[5] Giovanni
De Luna, La Resistenza perfetta,
Feltrinelli, 2015. Bianco, Dante Livio, Guerra
partigiana, Einaudi, 1974.
[6]
Amelia Crisantino, I partigiani siciliani
liberatori di Torino, la Repubblica, 23 aprile 2005, sezione: Palermo.
[7]
Carmela Zangara, Ecco i partigiani di
Sicilia, la Repubblica, 25/4/2008.
[8]
Mauro Begozzi (a cura di), Dalla Sicilia
per la Libertà. I combattenti siciliani nelle fila delle formazioni partigiane
del Novarese e del VCO. Su “Nuova
Resistenza”, Luglio-Agosto 2007. Inserto speciale.
[9]
I dati relativi ai caduti, come quelli che riguardano la partecipazione dei
siciliani alla resistenza, sono approssimativi e parziali e non da considerare
come esaustivi e definitivi.
[10]
Dalla scheda biografica ANPI di Palermo: on. .P. Colajanni, nato a
Caltanissetta il 4/1/1906, morto a Palermo nel 1987 ”…fu sottosegretario alla
Difesa nel primo governo Parri e nel primo governo De Gasperi, ricoprì diverse
cariche politiche di rilievo nel Parlamento nazionale e nell’Assemblea
siciliana. Fu segretario delle
federazioni comuniste di Enna e di Palermo.
[11]
Nunzio Di Francesco “Il costo della
libertà. Memorie di un partigiano combattente superstite del campo di sterminio
di Mauthausen e Gausen 2”.Bonanno 2007.