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16 giugno 2019

Le Ultime Parole: Un Racconto di Paolo Cortesi


per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html


Io apro la porta dell'ingresso principale dell'Hotel Majestic Royal Splendid.
In effetti, è una grande porta girevole con uno spesso vetro color brandy e tanto ottone smerigliato ai bordi; io sono lì a fianco, a destra, di questa grandiosa porta girevole luccicante; vesto una giacca bianca che sembra quella d'un capitano di marina, ma si vede subito, dall'insieme del mio abbigliamento e altro ancora, che sono un servitore: ho i guanti bianchi, i calzoni neri con un filo d'oro, un berretto a visiera dura lucida.
Sto con le mani unite, una sull'altra, posate proprio sul pube; così resto per i minuti in cui non entra nessuno e la porta compie un lentissimo giro, residuo del moto precedente.
Quando arrivano i signori, io allungo un braccio, tocco appena la porta: la rallento se il signore ha spinto troppo forte, la forzo un po' se il signore non ha spinto abbastanza.
C'è gente che dà dei colpi, preme come se dovesse abbattere un ostacolo. Altri - donne, per lo più - sembra che abbiano paura del gran vetro rotante e lo sfiorano mentre fanno un sorriso timoroso, per far vedere che se sbagliano non è colpa loro.
Appena il signore ha superato il cilindro brillante, non mi guarda più. Prima, mentre doveva vedersela con quella meravigliosa baracca dorata, aveva un po' bisogno di me, o almeno doveva riconoscere che io, se non altro per il lavoro che facevo, sull'aggeggio ne sapevo più di lui.
Così, il tipo magari mi guardava per un attimo, magari sorrideva un poco, come per dire: "siamo accomunati da quest'affare della porta rotante". Ma poi si vedeva anche sulla faccia questo pensiero: "tu sei pagato per aiutarmi con quest'aggeggio".
(Perché, son convinto, una porta rotante non è una porta qualunque, anzi non è una porta vera. La porta, da che mondo è mondo, è una tavola rettangolare che chiude o apre il varco. Ma una porta girevole non esiste in natura; mentre in natura esiste il pietrone che ostruisce la bocca della caverna, e questa è una porta a tutti gli effetti. Dunque, una porta girevole dà sempre un pochino di imbarazzo; ed è per questo che hanno inventato il mio lavoro: quello che aiuta ad usare la porta girevole. E' anche per questo che i ricchi che entrano per la gran porta girevole dell'Hotel Majestic Royal Splendid si aspettano che ci sia lì accanto uno come me che li aiuta, che sorveglia che il loro ingresso sia sciolto, disinvolto, elegante perché chi è ricco non sarà mai più goffo).
Dunque, io regolo la rotazione della porta; e non pensate che dia troppa importanza al mio ruolo perché è quello che faccio io: le porte girevoli sono davvero qualcosa di strano e complicato e ci si può chiedere perché siano il simbolo degli alberghi costosi e preziosi, dato che non sono porte facili.
Credo però che sia anche per questo che la porta girevole è dei grandiosi alberghi padronali: perché è un apparato non facile, ed io so - per anni di esperienza - che ai ricchi piace quello che sanno appare agli altri poco facile.
Un giorno pioveva. Era un temporale grandissimo, che non solo riempiva e scompigliava tutto il cielo, ma arrivava giù fino a terra, fino alla strada che era diventata un fiume nero scintillante, con i tombini che ribollivano della pioggia schiumosa tanto che pareva la risputassero fuori, gorgogliando e spruzzando.
Il traffico si era rallentato; i passanti cercavano riparo sotto tettoie e negli androni dei palazzi, e molti guardavano al cielo, per calcolare quando quel turbinio sarebbe finito, e anche per vedere da quale tempesta si stavano sottraendo in quel rifugio diviso con altri, che stavano zitti, o parlavano sottovoce dell'acqua furibonda.
Io, dentro all'hotel, guardavo il marciapiedi deserto. 
Nella furia dell'acqua, arriva alla porta dell'hotel una donna magra, ricca. La magrezza delle ricche è diversa da quella delle povere: per le ricche, la magrezza è un lusso che pagano. Per le povere, la magrezza è una malattia. Nelle donne ricche, la magrezza ha un aspetto artificiale; si vede bene che loro non sarebbero mai così se non fossero ricche.
E' una magrezza falsa e faticosa.
La donna arriva trafelata alla porta; gocciola. Non ha ombrello ed è inzuppata di pioggia. La riconosco; è una donna che tenta caparbiamente di essere creduta meno vecchia di quanto sia; che vive per combattere contro l'età, che con creme e operazioni di chirurgia estetica ha trasformato il suo corpo di vecchia in un corpo finto, in cui ogni parte - dal dito alla gamba, ai piedi - mostra senza pudore che non è come dovrebbe essere secondo natura.
Conosco la donna ricca: è la moglie di un uomo ricco, che ha lunghissime basette bianche, una pancia sferica e le labbra nere.
La donna arriva alla gran lastra di cristallo; spinge e non avanza. La porta non gira.
La donna guarda la porta con stupore, e subito dopo con stizza.
Spinge ancora, ma ha pochissima forza e poi tiene tra le braccia due scatole e dalla mano sinistra penzola una sporta di cartone, di quelle che danno nei negozi per ricchi, e contengono oggetti costosi, come maglioni di cachemire.
La donna spinge; la pioggia la batte sulla schiena, sulle spalle, le schiaccia i capelli sulla testa e sulla fronte.
Ora la donna dà dei pugni, ma sono i pugnettini delle donne arrabbiate e non fanno niente; fanno solo male alle donne che così diventano ancora più isteriche.
-Ma mi apri o no?!- urla la donna guardandomi con odio.
Io avevo già mosso un braccio verso la porta.
Dico:
-Certo, signora!-
ma la porta è bloccata; qualcosa si è incastrato sotto una lastra; guardo bene: vedo che un grosso lembo della moquette si è alzato e si è ficcato sotto l'anta girevole, bloccandola.
-Signora- dico - non spinga...-
La donna non mi lascia proseguire:
-Eh che cazzo! Che cazzo dici!? devo stare qui a infradiciarmi per te, stronzo!?-
Dà calci alla porta, che vibra un po' ma resta sempre ben chiusa.
-Apri! Apri! Apri!- strilla la donna.
-Sì, signora. Ma se lei spinge, non posso aprire. Vada un po' indietro:- e indico per terra, per farle capire cos'è che ferma la porta girevole.
-Che indietro!? che indietro, stronzo!? mi bagno tutta! non vedi come piove, cretino!?-
Mi inginocchio; cerco di rimuovere il pezzo di moquette che immobilizza la porta, ma la donna di là spinge come impazzita.
-Signora, guardi.- dico - C'è un pezzo di moquette che sta...-
-Pezzo di merda!- urla quella, e ha la faccia prosciugata e deformata da tese pieghe aride, sembra una mummia polverosa, la bocca aperta -Pezzo di merda, mi fai entrare sì o no?-
Qualche passante, nonostante la burrasca, sta a guardare e non capisce.
Allora provo a liberare la porta anche con la donna che continua a spingere. Afferro il pezzo di moquette come meglio posso, fra pollice e indice delle due mani, tiro fino a farmi male.
-Porco! Stronzo bastardo! Mi prendo una polmonite per colpa tua!- urla la donna, ormai ha la voce roca per la rabbia e per il troppo gridare.
Le sono cadute le scatole in terra, la borsa prestigiosa è a mollo in un rigagnolo. Tutta la roba dentro è diventata nera.
-Apri! Direttore! Ma non c'è il direttore!? Non c'è nessuno che cacci questo porco bastardo a calci in culo!?-
Urla pazzamente; pare non possa fare altro per tutta la vita che le resta da vivere. Sulla faccia si schiacciano i capelli bagnati: lucidi e molli sembrano sanguisughe.
-Signora, la prego- dico in un estremo tentativo - mi ascolti, se lei lascia la porta io posso sbloccarla...-
-Vaffanculo!-
-Signora, mi ascolti: non è colpa mia se non può entrare. Vede, c'è un pezzo della moquette che impedisce alla porta di girare...-
-Stronzo! Chiamami il direttore! Subito! Subito! Chiamami il direttore!- grida, e la pioggia fredda sulla faccia la eccita, la aizza; non ascolta, non ragiona.
-Ma signora...-
-Porco! Bestia! Chiamami il direttore! Subito! Ti faccio licenziare com'è vero iddio!- ora più che gridare, la donna rantola. Ha la voce arrochita, la gola brucia.
-Signora, mi sente?-
La donna è esausta, stringe la porta girevole come se mollare la presa le sarebbe causa di morte. Ansima. Per un po' tiene gli occhi chiusi. Si asciuga il naso che gocciola pioggia con il dorso della mano destra. Poi pare mettersi a piangere; vedo per un istante la smorfia che precede le lacrime. Poi le labbra si stringono; la donna dà ancora una spallata alla porta, e dice con voce rotta, faticosamente:
-Vaffanculo.- come fossero le sue ultime parole terrene; il suo lascito.



30 aprile 2019

"CAMPANA" di Paolo Cortesi




per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html

Dino Campana l'altro giovane favoloso
Dicevano che era matto. Io, che lo vidi e ci parlai due volte, non so dire se lo fosse davvero: so soltanto che mi sembrava sempre o più saggio di ogni saggio, o più folle di ogni pazzo; ecco: un uomo eccezionale, che rivelava poco di sé e forse nascondeva il meglio. Certo, questo - forse- vuol dire essere matti, ma la sua pazzia (se pazzia fu davvero) era luminosa e forte, non tetra e muta e crudele come la pazzia che disperde le parole, spegne lo sguardo in una lucentezza dura di bilia.
Lo incontrai la prima volta che la terra fumava d'una nebbia opaca e lenta. Sembrava, la terra, un gigantesco animale nero dal cui dorso saliva un vapore biancastro, come si vede sulle schiene dei cavalli dopo un lungo galoppo. Era una bruma opaca, lattiginosa, che stratificava in bande più spesse attorno a cespugli e tronchi neri, e diradava fino a sparire, creando un varco che lacerava quella misteriosa tela aerea.
Pareva, anche, che la terra respirasse, che da lei salisse a un ritmo sconosciuto quel respiro che prendeva forma visibile d'una brina fluttuante nell'aria.
Eravamo a Casetta di Tiara, l'autunno incupiva, veniva vento freddo dalle cime delle montagne e le nuvole erano grosse e scure, piene di pioggia.
Io, a quel tempo, volevo fare il pittore; ero giovane, ero ingenuo, e credevo che la nostra vita sia veramente nostra. Non è così. Ho imparato, con dolore, che la nostra vita è quello che ci lasciano vivere gli altri, quelli che decidono, che comandano, che hanno i soldi e vivono come vogliono; quelli che dicono sempre "eh, la vita è fatta così, bisogna accontentarsi"; ma loro, invece, non si accontentano di nulla che non sia ciò che a loro piace.
Insegnano la rassegnazione e la pazienza, ma loro -i signori, i ricchi, i padroni- non farebbero mai nulla di quanto dicono agli altri: non vogliono nient'altro di ciò che decidono per sé.
A quel tempo, io ero giovane e sognavo di fare il pittore. Mi dicevo: "sono bravo, ho studiato, l'arte è una cosa nobile e bella, perché non potrei fare il pittore?". Ero giovane e sprovveduto, credevo che uno avesse tutto il diritto di scegliersi la vita che vuole; mentre invece non è così; per noi, non è così.
Ero andato ad abitare per l'estate in una casa di pietra che mi aveva affittato una vecchia zitella.
Avevo una camera con appena un letto, due sedie e un tavolo, ma ero molto felice e sentivo che lì un pittore poteva lavorare molto bene. D'estate uscivo al mattino presto, subito dopo essermi lavato la faccia nel catino di smalto. Il monte brillava dentro la luce del sole che saliva; era come attraversato dal chiarore che si dilatava in un polverio infinito di schegge di luce bianchissima.
Portavo il cavalletto e la tela e la scatola dei colori e pennelli. Era faticoso e spesso dovevo aggrapparmi agli alberi per issarmi, per non scivolare. Ricordo ancora la superficie ruvida, come arsa, dei carpini.
Un'altra cosa bellissima di quei giorni lontani è il profumo dell'olio di lino che si mescolava con l'odore della terra calda brulicante, delle foglie che splendevano al sole come cocci verdi delle bottiglie. Era tutto caldo e quieto, e io sentivo ronzare gli insetti che non si vedevano.
Dipingevo tutti i giorni, per diverse ore, ed ero molto felice. Non sapevo che era tutto inutile e che non sarei mai stato pittore, ma in quel tempo ero così felice, tanto ingenuo e ancora sicuro che ciascuno potesse essere ciò che si sentiva dentro.
Adesso che ci penso, forse il matto mi aveva visto molto tempo prima, perché lui nel bosco ci girava come se fosse tutto suo: si muoveva non solo con sicurezza (anche i montanari del luogo sapevano tutti i sentieri), ma anche con una certa franca scioltezza, direi con eleganza.
Io non lo vedevo, ma lui certo vedeva me, ma non volle mostrarsi. Non credo che si nascondesse, credo anzi che non temesse nulla da un pittore, ma evidentemente non voleva ancora farsi vedere.
Passò l'estate; era l'estate del 1916 e la gente che mi vedeva di certo si domandava perché mai quel giovane non fosse andato alla guerra, e io ormai non mi curavo più di far sapere che ero tisico, come se dovessi giustificarmi del fatto che non ero ancora morto, perché così dovevo finire: morto d'uno sputo di sangue o morto con una palla in testa, così dovevo finire, per la gente.
Arrivò l'autunno; io vivevo ancora nella piccola casa di pietra; passava meno gente per il sentiero davanti alla mia porta. Gli alberi si fecero più sottili e persero ogni colore, diventando segni neri scomposti che solcavano il cielo fumoso. Tutto divenne più silenzioso.
Un mattino - ricordo che era un sabato - ero andato a fare schizzi al torrente Rovigo: volevo cercare di ricreare l'effetto di trasparenza senza riverberi dell'acqua sotto il cielo bianco. Ero troppo ambizioso, a quel tempo; come tutti i giovani inesperti sapevo trovare belle idee ma non avevo la forza per realizzarle. Me ne stavo intirizzito, sentivo che non riuscivo a disegnare ciò che avevo pensato, ma volevo ostinarmi, insistevo, convinto che con uno sforzo più intenso avrei ottenuto ciò che desideravo.
Non l'avevo visto arrivare, così, quando parlò alle mie spalle, ebbi uno scossone, terrorizzato, e mi si spezzò il respiro.
Lui disse con voce molto bassa:
-Fate male ad intestardirvi.-
Io fui sorpreso non solo del fatto che quello era arrivato come una foglia caduta da un ramo, ma ancor più perché pareva avermi osservato a lungo, abbastanza a lungo da vedere la mia ostinazione senza successo.
Dissi qualcosa sulla difficoltà dell'effetto di luce che cercavo di rappresentare e lui rispose:
-Voi cercate l'inessenziale, per questo fallite.-
Capii che così non parlava un contadino.
-Anche voi siete pittore?- gli domandai.
Mi volsi verso di lui. Era un uomo giovane, non alto, massiccio, aveva la faccia larga, occhi chiari e capelli rossicci, baffi e barba un poco più scuri. Stava a braccia conserte sul petto e teneva le gambe una davanti all'altra, quasi cercasse un migliore equilibrio, come un marinaio sulla tolda quando il mare è mosso.
-Sono poeta.- rispose -Sono l'ultimo poeta barbarico.-
Non mi stupivano i tipi bizzarri: ne avevo conosciuti tanti fra i miei amici pittori.
-Voi siete barbarico?- gli chiesi molto incuriosito.
-Sissignore. L'ultimo dei germani. Nella mia anima alberga la purezza originaria della parola.-
-Attento a parlare di germanici, amico mio. Con questa guerra non è bene dire certe cose.-
Il giovane sbarrò gli occhi e mi fissò sbalordito.
-Voi siete un poliziotto?- mi domandò.
-Ah no! No, proprio no!-
Fece due tre passi indietro; ora la sua straordinaria agilità e il suo perfetto equilibrio sulla terra scoscesa erano diventate una postura incerta, e lui s'era come ingobbito, curvato sotto un peso invisibile.
-Ah cane!- esclamò agitando le mani -cane d'un italiano! cane d'una guardia! cane d'uno sbirro!-
Scappò via; lo sentii parlare da solo.
Firenze, quando c'è il sole, diventa grandissima e leggera.
I palazzi, che pure sai essere enormi masse di mattoni e marmo e pietra, sembrano così lievi che il vento potrebbe farli ondeggiare, come grosse foglie. E le facciate delle case, delle chiese rimandano la luce, che si moltiplica, schiarendo, in un quieto vortice di luminosità e scintillii abbaglianti.
Quando c'è il sole, Firenze diventa calda come una mano che tocca il forno. E', infatti, un tepore pieno e sano di cosa viva, che fa star bene, che rassicura e conforta.
E la gente a Firenze, quando c'è il sole, è più serena e sembra assorbire nel corpo il calore vitale che scende dal cielo brillante, che sale dalle strade.
In quei giorni, ero tornato dai monti del Mugello. Non sapevo più niente di me: se ero o no pittore, se avrei potuto vivere della mia arte, se ero o no felice. Ero giovane, mi illudevo di poter giudicare e vivere la mia vita, e solo la fatica e l'amarezza mi hanno fatto piegare la testa e fissare la realtà, e capire che noi tutti siamo anelli di una catena di cui non vedremo mai le estremità.
Ero andato a Firenze, quell'estate del 1917, con gli ultimi risparmi rimasti. Pochi giorni ancora e non avrei avuto di che pagare vitto e alloggio e vestiti: la tassa sull'esistenza. In quegli istanti di accettata incoscienza, andai al caffè delle Giubbe Rosse; mi dicevo: se fra poco sarò un barbone sotto il Ponte alle Grazie, tanto vale che mi conceda adesso, finché ho tre lire in tasca, un po' di piacere, un po' di lusso. E questa mia decisione -che riconoscevo stupida e inutile- mi dette un po' di coraggio.
Entrai al caffè e subito mi avvolse una frescura di caverna. C'era tanta gente e io guardai tutti con curiosità, quasi con cura: guardavo e mi dicevo "ecco, vedi, questi sono tutti più fortunati di te e quando torneranno a casa troveranno una bella famiglia, i domestici premurosi, i guanciali soffici".
Sedetti al tavolo più vicino all'ingresso, così da poter guardare il passeggio nella piazza che si apriva davanti alle vetrine e all'ottone delle Giubbe Rosse. Chiamai il cameriere e quello arrivò subito, ma restò un attimo perplesso vedendo le mie scarpe sporche e il mio vestito liso. Presi di tasca i soldi, li passai nell'altra tasca solo per farglieli vedere (e questo mi pare lo tranquillizzò) e dissi con finta noncuranza:
-Per piacere, favoritemi una birra ghiacciata.-
Il cameriere fece un cenno con la testa, che non mi parve lo stesso inchino che faceva agli altri clienti -quelli vestiti bene-, ma piuttosto un assenso. Aspettavo la birra e guardavo fuori; non pensavo a niente, non volevo pensare perché il pensiero è il peggior nemico di chi è povero.
La gente che camminava nella piazza mi sembrava, tutta, tranquilla e sazia, pareva che tutti avessero un posto da raggiungere in fretta, un posto in cui ciascuno sarebbe stato bene. All'improvviso apparve davanti a me, oscurando la visione della piazza, un uomo.
-Mi riconoscete?- domandò a voce un po' troppo alta. Alzai la testa e lo guardai sorpreso.
Mi parve di averlo già visto, ma non riuscivo a capire, a fissare l'idea.
L'uomo mi fissava e sorrideva, aveva lo sguardo divertito dal mio stupore. Riconobbi gli occhi chiari e accesi, i capelli rossi e scomposti.
-Ah ma voi siete il poeta della montagna!- esclamai alzandomi in piedi.
Lui rise forte e la gente si girò a guardare. Diceva:
-Il poeta della montagna! Sì! Sono il poeta della montagna!-
Si sedette al mio tavolino senza aspettare che lo invitassi. Mi chiese cosa facevo a Firenze e io gli dissi un po' di me.
-Non è importante essere un grande artista.- fece lui -Ciò che conta davvero è essere un puro artista.-
-Dite bene, voi. Ma anche il puro artista mangia e veste panni.-
-Lo so.- rispose duramente, forse deluso dalla mia osservazione.
-E come pago l'affitto di casa? Con i quadri?- continuai, quasi incattivito.
-Arte e soldi non hanno niente in comune. Si escludono a vicenda come la luce e il buio. Dovete scegliere: o arte, o soldi.-
-Sì, capisco. Ma se muoio di fame, la mia arte finisce lì.-
-Sbagliate: l'arte è la sola risposta dell'uomo alle pretese della morte.-
-Questo lo credevo anch'io.- dissi -Ma adesso non la penso più così. L'arte deve comunicare, deve aprirsi al mondo, deve essere di tutti; se no non esiste. L'arte chiusa nel cassetto non è arte.-
-Ma non può essere neppure un mestiere.- ribatté il mio interlocutore- Il muratore deve obbedire al capomastro; il falegname deve accontentare chi gli chiede un armadio. L'artista non può avere un padrone e dunque non può avere un mestiere.-
-Eppure ci sono grandi artisti pieni di soldi.- dissi.
L'uomo non rispose; affondò la destra sotto la maglia e ne estrasse un libriccino sottile, con la copertina d'un giallo sbiadito.
Me lo porse e io lessi il nome di Dino Campana e il titolo "Canti Orfici".
-Avete una lira e mezza?- mi chiese il giovane uomo, porgendomi il librino.
-Ne ho tre in tutto e devo pagare la birra.-
-Datemi allora una lira.-
Nella voce di quell'uomo sentivo una trepidazione dolorosa.
-Forse è meglio se offrite il vostro libro ad un altro.- dissi.
Temevo che quel tipo strambo avrebbe insistito, magari avrebbe gridato; invece Campana non ebbe alcuna reazione.
Ora, penso che egli era abituato a certi rifiuti e non gli facevano più male.
Ripose il libro sotto la maglia, disse "buona fortuna" e se ne andò.
Uscì dall'ombra del caffè e, sulla piazza, fu avvolto dalla luce polverosa che fece più sottile la sua figura. Lo guardai andare verso via degli Strozzi. Camminava pestando i piedi, con le braccia pesanti lungo i fianchi, come fanno i montanari, come andando contro un vento sempre contrario.





22 marzo 2019

Malato: Un Racconto di Paolo Cortesi





per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html


Mario non scorderà mai per tutta la vita la faccia che aveva il medico quando gli disse che suo figlio aveva la tubercolosi.
Il medico aveva la finestra alla spalle; il sole era basso sull’orizzonte; i rami di un grande albero erano neri contro la luminosità larga e forte della palla di fuoco fermo. La luce attraversava le orecchie del medico, che apparivano perciò rosse, traslucide, come spellate e venate di lampi di sangue.
Tutta la testa del medico era scura, come i rami dell’albero là fuori.
C’era quella testa nera, con un ciuffo di capelli storti; le orecchie rosse e opalescenti: il malato sembrava il medico, non Attilio.
E invece il ragazzino era a letto, sotto le coperte che la madre gli tirava fin sopra il mento. Coprirlo bene, e tenerlo ben coperto, era la sola cosa che lei poteva fare per credere di essere utile al figlio; così gli stava seduta accanto al letto; teneva le mani posate sul grembo e le muoveva – subito – appena Attilio scostava un po’ il lembo della stoffa che lo avvolgeva.
Il medico scrisse la ricetta, che posò sul tavolo. Disse che ci voleva aria sana e tanto sole, aria asciutta. La montagna, ci voleva. Montagne alte e al sole.
Attilio (che fissava medico e genitori come figure sconosciute che non avrebbe mai più incontrato) Attilio pensò che sarebbe andato in montagna e fu contento, ma segretamente.
Mario accompagnò il medico alla porta. Tornò indietro presto, perché la stanza era una sola e la porta era quasi davanti al letto.
Mario guardò la moglie Elvira, non era nemmeno triste perché le notizie brutte, anche le più brutte, non ti schiantano quando le aspetti da tanto, ma ti seppelliscono vivo solo un po’ di più, e che differenza fa stare sotto tre metri di terra invece che due?
Che differenza fa?
Mario guardava la moglie: lui e lei apparivano stanchissimi. Attilio temeva che si arrabbiassero con lui, perché era malato e sapeva – lo sapeva da anni – che le medicine costano, e se il medico Frisoli era buono e non si faceva pagare, invece la cura in montagna sarebbe stata troppo costosa.
Restarono tutti e tre zitti per diversi minuti, finché Attilio non decise di dare un colpo di tosse.
Allora il padre si alzò dalla sedia; sembrò scavarsi una nicchia nell’aria diventata all’improvviso, misteriosamente, grossa e pesante. Disse alla moglie:
-Allora io vado.-
Era come un segnale, come l’inizio di una cosa preparata da tempo. Attilio ebbe un po’ paura; temeva che andasse a prendere dalla zia la siringa, per fargli fare le iniezioni.
Ma il tempo passava e il padre non tornò. Attilio si addormentò, perché nel letto faceva caldo; stava disteso e immobile.
Quando si svegliò, vide il babbo seduto dove stava prima di uscire; ora leggeva a sua moglie un pezzo di carta; era una lettera, su un foglio bianchissimo, con le pieghe ben dritte. Mario lo teneva in mano con delicatezza e quasi con timore, come si fa con oggetti fragilissimi.
Leggeva a voce bassa, per non svegliarlo, ma ora Attilio ascoltava:
…che come un buon padre tanto ha a cuore la salute della fresca giovinezza d’Italia. Duce, a voi ricorrono con illimitata speranza due poveri ma onesti genitori, che non possono permettersi le costose cure per ridare la salute al loro amato figlioletto. Un vostro cenno, Duce, e la benefica volontà vostra dispiegherà gli effetti della…
Attilio ascoltava con attenzione perché era un po’ preoccupato. Non aveva mai sentito suo babbo parlare così, né lo aveva nemmeno sentito leggere, e non capiva il significato di quelle parole, che erano belle, suonavano bene, molto diverse e importanti; erano parole – si sentiva – scelte bene e messe assieme molto bene. Sembrava di sentire il prete quando faceva la predica, ma erano parole più strane, anche un po’ più importanti, almeno così pareva.
Mario vide che il figlio si era svegliato. Lo guardò un istante e lesse a voce appena un poco più alta:
…i sottoscritti genitori osano sperare che la bontà vostra…
La mamma volse la testa verso Attilio; gli sorrise. Sembrava sempre sfinita, come immobilizzata da un peso troppo grande.
Mario concluse la lettura. Posò la lettera sul tavolo con ogni riguardo; la moglie prima si sfregò le mani sul grembiule, controllò che fossero pulite poi prese il foglio con una delicatezza di cui Attilio fu quasi geloso.
Stava leggendo; lo si vedeva dal movimento delle pupille che andavano e venivano.
Poi disse:
-Scrive bene. Scrive proprio bene il figlio della Velia.-
Mario annuì.
-Mi voleva dare anche la busta e il francobollo, ma io ho detto di no. Sembrava che ci approfittassimo.-
-Hai fatto bene.-
-Adesso vado a prendere la busta col francobollo.-
Si alzò e mise la mano in tasca. Contò il denaro. Erano monete nere, consunte, lustre.
Mario guardò il figlio e gli fece un gesto con la mano, lo salutava.
Attilio tirò fuori la mano dalle coperte e salutò il padre.




23 febbraio 2019

"Il Progresso". Un Racconto di Paolo Cortesi




per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html

Il conte Ottavio, in fondo, non era cattivo.
Antonio lo aveva detto tante volte agli altri domestici che se n’era convinto. Il conte Ottavio, pensava, è un signore, è abituato a comandare, a farsi servire. Antonio pensava ancora, e lo disse qualche volta, che se lui fosse stato conte, avrebbe fatto proprio come il signor Ottavio. Magari avrebbe avuto più pazienza, ecco questo sì, questo sì. Magari, avendo provato quanto è faticoso dire sempre sì signor conte, lui, Antonio, avrebbe avuto un po’ più attenzione verso i servi.
Li avrebbe ascoltati di più. E se dicevano cose giuste, li avrebbe accontentati. Ma Antonio era nato stalliere da un uomo che aveva fatto lo stalliere tutta la vita e suo nonno era stato contadino prima di arrivare in città spinto dalla miseria come un forcone spinge un porco al macello.
Il conte Ottavio non era cattivo, a saperlo prendere, pensava Antonio, che aveva imparato come doveva prendere il signor conte.
Mai contrariarlo, essere sempre contento, soddisfatto, sazio. E quando il signore non parlava, bisognava stare zitti; se il signore parlava, bisognava raccontare fatti e fatterelli, con barzellette e storielle e bisognava parlare in dialetto che metteva il signore di buonumore.
Da quasi un mese il signor Ottavio si preparava per la notte di Capodanno del 1900. Antonio lo aveva sentito dire a Morlini, il segretario:
-Ma ci pensa, cavaliere? Abbiamo passato una vita a scrivere la data col 18 iniziale, adesso dobbiamo scrivere 19… ma non le fa impressione?-
Morlini sorrideva e dondolava il capo annuendo ritmicamente (lui sapeva come prendere il signor conte) e non diceva nulla per prudenza. Ottavio continuava:
-Millenovecento. Millenovecento.- ripeteva, assaporando le parole come fossero caramelle in bocca -Millenovecento. Dio, che cifra! Piena di zeri. A me lo zero fa paura, soprattutto nella colonna delle entrate!- e il conte rideva forte, e Morlini capì che adesso doveva ridere rumorosamente anche lui.
-Il nuovo secolo!- esclamò il segretario, a voce alta, come se una piazza lo dividesse dal conte -Entriamo nel secolo nuovo! Nel futuro!-
Quest’idea del futuro, l’immagine del secolo che entrava nel futuro come una freccia coglie il bersaglio, piacque tanto al conte che la fece sua. Un mattino, alla fine di novembre (Antonio ricordava i campi che scintillavano di ghiaccio e parevano cosparsi di migliaia di pezzetti di vetro chiaro) un mattino, il conte stava a guardare lo stalliere che strigliava un cavallo dal manto così nero che dava riflessi blu. Antonio lavorava sodo, perché si sentiva gli occhi del conte sulla schiena; il signor Ottavio parlava tanto, senza fermarsi, quasi con foga, come gli capitava di rado e solo quando un argomento lo interessava davvero (i cavalli, le donne, le corna degli altri, le rendite di case e poderi…). Il conte diceva:
-Con l’anno nuovo si rinnova tutto. Vedrai che cambiamenti, che progresso. Ormai la natura non ha più segreti. Con i telescopi riusciamo a vedere i pianeti lontanissimi. E abbiamo il telegrafo, le corazzate, i treni che vanno come fulmini. Sei mai stato in treno, tu?-
Antonio fece no con la testa, poi -poiché gli sembrò poco rispettoso- disse:
-No, signor conte.-
Ottavio fissava l’occhio sferico e lucente del cavallo; disse:
-Eh caro mio, il treno! Ti porta ovunque. A Parigi, a Vienna…-
-Bello.- mormorò Antonio, ma il conte non lo sentì neppure, e continuava:
-Con gli aerostati possiamo salire oltre le nuvole. E l’elettricità, la chimica, la meccanica. Il progresso, caro mio, questo è il progresso ed il millenovecento sarà pieno di progresso. Non ci saranno più guerre, perché la scienza ci fa tutti fratelli e andremo a esplorare l’Africa tenebrosa, andremo ai poli.-
-Non c’è più la guerra?- domandò Antonio, contento e timoroso come stesse scegliendo un regalo.
-Il millenovecento porterà bene anche a voi poveretti.- dichiarò il conte, con voce sicura.
Antonio restò sospeso nel gesto: col braccio destro alzato sul dorso del cavallo, pareva una delle statue nel giardino del conte. Sussurrò:
-Anche per noi?-
-Certo.- esclamò il conte Ottavio -Il progresso vi farà vivere meglio.- e non disse altro. Antonio avrebbe voluto chiedere come, quando il progresso gli avrebbe dato una vita più bella, ma non osò e riprese a strigliare Pallino, che era il cavallo preferito del padrone.
Il conte Ottavio rimase assorto e fermo; fissava qualcosa lontano, fuori dalla stalla; pareva che cercasse nell’orizzonte fumoso un segno del progresso imminente. Il cielo era bianco, opaco, e i rami neri degli alberi sembravano crepe in un muro.
Il signor Ottavio aveva organizzato nel suo palazzo una gran festa per la notte di Capodanno del 1900. Aveva invitato parenti, amici e nemici, nobili, ufficiali, professori dell’università e primari dell’ospedale. Aveva speso molto, e questo era davvero eccezionale perché il conte Ottavio era attento alle lire, ma voleva festeggiare un evento -diceva a gran voce al circolo- che capita una sola volta nella vita d’un uomo.
Così, aveva fatto ripulire il salone, lustrare il pavimento, le scale e gli specchi.
Però, per non buttare i soldi che poteva risparmiare, aveva comandato tutta la servitù a fare da maggiordomi. Il fattore, il giardiniere, l’ortolano e lo stalliere li aveva rivestiti con delle belle livree rosse e argento, affittate al trovarobe del teatro. Li aveva istruiti come fossero soldati, e aveva fatto anche delle esercitazioni. I quattro erano goffi e incerti; si sforzavano di essere gentili e leggiadri (così aveva detto il conte), ma le dita grosse, le facce scure d’un velo di barba tenace, le labbra socchiuse rivelavano che loro non erano mai stati dei domestici.
Arrivò la sera fatale. E tutto iniziò bene: le carrozze si fermavano davanti al portone illuminato della casa del conte, ne scendevano signori vestiti di nero e signore avvolte da profumi e da stole di pellicce lucenti. Poi ci furono le danze e il fattore, il giardiniere, l’ortolano e lo stalliere facevano un po’ fatica a non distrarsi con quelle spalle nude di donna che si capiva che erano calde anche senza toccarle. L’orchestra suonava musiche bellissime, che loro quattro non avevano mai ascoltato prima.
Antonio portava in giro un vassoio colmo di bicchieri; cercava caparbiamente di essere leggiadro (il conte gli aveva spiegato cosa vuol dire quella parola) e si guardava in giro per portare da bere.
Ad un certo punto, mentre ruotava su di sé come gli aveva raccomandato il conte, Antonio urtò il colonnello Redis, che aveva settant’anni e crollò a terra, i bicchieri di cristallo caddero ed esplosero in un lampo brillante di schegge, il vassoio dette un rumore altissimo e spaventoso di gong che zittì i suonatori.
Il vecchio colonnello annaspava confuso a terra, con la sciabola tra le gambe che non riusciva a districare; Antonio si chinò per aiutarlo e così picchiò la testa contro quella dell’avvocato Crocci che pure lui s’era piegato per rialzare il vecchio. Arrivò il conte Ottavio di corsa; già da lontano gridava:
-Cosa c’è? Cosa c’è?!-
Antonio vide per un istante i suoi occhi feroci, i denti.
-Cretino! Idiota! Imbecille!- urlava il conte -Bestia! Bestia deficiente!- e agitava le braccia, pareva che volesse prendere a pugni Antonio, il quale se ne stava a testa bassa, con le mani lungo i fianchi, a farfugliare:
-Chiedo scusa… sono dispiaciuto…-
-Ma lo vedi cos’hai fatto, deficiente?!- gridava il conte, indicando i cocci di vetro con l’indice teso -Lo vedi, cretino?!-
Il colonnello si rimise in piedi barcollando, diceva con una vocina da ammalato:
-Ma no, ma lasci stare… non è nulla…-
Il conte continuava a insultare e maledire Antonio, poi finalmente alcune signore dissero che poverino era già tanto mortificato e non era il caso di infierire così.
Ottavio si fermò, respirava forte e strinse le labbra. Poi voltò la faccia dall’altra parte e disse allo stalliere:
-Va’ via, va’ via ché non ti veda mai più.-
Antonio fece un inchino alla schiena del conte. Bisbigliò “buonasera” ed uscì dalla sala, mentre si sentiva qualcuno esclamare:
-Su su! Allegria!-
Antonio andò nella camerina dove i quattro servi si erano cambiati d’abito. Si toglieva lentamente la livrea rossa e argento; alla luce della lampada ad olio i bottoni scintillarono come monete d’oro.
Antonio pensò che il millenovecento non avrebbe cambiato la sua vita.



02 febbraio 2019

"Il Dubbio del Conte". Un Racconto di Paolo Cortesi




per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html


Aspettavano il signor conte Pellegrinetti da una decina di giorni, da quando il fattore Morini aveva annunciato la visita in modo confuso e un po' misterioso, e non si capiva se lui ne sapeva poco o se non voleva ancora dividere il suo segreto con i contadini.
Poi anche il prete, dopo la messa, cominciò a ripetere:
-Il signor conte ci farà presto l'onore di una visita.-, e il tono era festoso ma anche persuasivo, compunto e si capiva che il prete chiedeva di fargli fare bella figura.
Il conte Leopoldo nei suoi cinquanta anni di vita non era mai stato una sola volta nelle tante vaste terre che possedeva. Suo padre Urbano, morto proprio il primo giorno del 1900, aveva chiamato quel suo unico figlio al capezzale e gli aveva fatto giurare che si sarebbe interessato, finalmente, di possedimenti e palazzi, perché fino a quel momento non l'aveva fatto. Fino a quel gennaio 1900, Leopoldo Pellegrinetti non aveva mai voluto sapere niente di contabilità e investimenti, non conosceva le proprietà di famiglia e quando il padre cercava di fargliene un resoconto completo, lui si annoiava e si distraeva tanto che il vecchio aveva smesso di tentare.
-Bisogna tornare alla terra. Bisogna tenere alla terra. Perché la terra è la sola sorgente e garanzia di ogni ricchezza, morale e materiale.- diceva spesso Urbano al figlio, che una volta ribatté:
-Come faccio a tornare dove non sono mai stato?- e lo disse sorridendo, fiero della sua arguzia. Invece il padre attaccò un discorso accorato, lunghissimo, ed aveva gli occhi afflitti.
-Quel coglione si mangerà tutto in due anni con le puttane e le carte.- diceva sempre più spesso il conte padre. In effetti, Leopoldo non aveva fatto altro che questo: consumare i soldi della famiglia, vivere sul lustro e il nome della famiglia. Pareva impegnato a recitare una parte: il rampollo dissipatore, che non ha alcuna incertezza e vergogna nell'essere mantenuto e nell'evitare anche la sola parola lavoro.
Il vecchio conte aveva fatto uscire i medici ed aveva voluto a sé quello che i domestici chiamavano ancora il contino, sebbene avesse i capelli grigi e, alto e tumido, pesasse più di un quintale.
Leopoldo andò, seccato e frastornato e temendo di dover vedere il vecchio morirgli davanti.
Pensava, mentre entrava nella camera quasi buia, dove ristagnava l'aria greve e rancida delle stanze dei malati, pensava che avrebbe dovuto fare un gesto affettuoso, prendere le mani del moribondo, forse addirittura ci si aspettava che lo baciasse in fronte. C'erano lì accanto alcuni parenti, c'erano i domestici, i medici e due infermiere, c'era il prete don Fumagalli.
Lui doveva recitare la parte del figlio affranto. Il vecchio fece appena in tempo a fargli giurare che avrebbe visitato tutti i poderi che, di lì a poco, sarebbero diventati suoi.
Quando il vecchio conte iniziò a rantolare, Leopoldo scappò dalla camera, urlando per chiamare i medici che spinse dentro. Poi corse nel salotto e si buttò sfinito sul divano, e restò a guardare il quadro sopra il caminetto e lo fissò così a lungo che le Muse e Apollo cominciarono ad ondeggiare come se le vedesse dietro una fiamma.
Leopoldo aveva rimandato quanto più a lungo possibile la visita alle sue terre. Ma non poteva continuare a farlo. Aveva giurato al padre morente, e il giuramento fatto sul letto di morte è due volte sacro: don Fumagalli glielo aveva spiegato molto chiaramente. Poi glielo aveva ricordato anche sottovoce, durante la confessione.
Il conte Leopoldo Pellegrinetti arrivò dunque al suo podere Spadone nella tarda mattinata del 22 maggio 1900.
Scese dal calesse e subito il fattore Morini gli andò incontro. Il conte si asciugava il sudore sfregando irosamente il fazzoletto sulla nuca, sul mento, sulla bocca, sulla fronte. Diceva:
-Ma che caldo! Che caldo maledetto! Se sapevo che era così caldo, rimandavo questa gita all'autunno!-
Morini fece un inchino e, indicando con un grand'arco del braccio i contadini allineati, attaccò il discorso di benvenuto:
-Signor conte eccellenza, i contadini che hanno l'onore di lavorare per voi la vostra terra vi porgono il saluto della gratitudine e della riconoscenza.-
Queste poche solenni parole le aveva ideate don Fumagalli, che se le assaporava nella bocca chiusa mentre Morini le declamava affannato.
Il conte si passò ancora due tre volte il fazzoletto sulla faccia, guardò stupefatto Morini come se gli fosse apparso in quell'istante emerso dal suolo e fece:
-Eh?-
Morini riprese:
-Signor conte eccellenza, i contadini che hanno l'onore...-
Pellegrinetti lo interruppe:
-Sì sì. Grazie. Ho capito. Cosa dobbiamo fare adesso? Avete un po' d'acqua fresca?-
Il fattore fu terrorizzato: non aveva pensato alla sete del conte. Restò senza parole, con la bocca semiaperta a guardare la faccia lustra di sudore del conte, il quale domandò ancora:
-Si può bere?-
Morini si rivolse ad una donna della fila:
-Vai a prendere dell'acqua fresca per il signor conte!-
La donna, si chiamava Ada Canestri, chiese timorosa:
-L'acqua del pozzo?-
-No!- urlò il conte -Che pozzo? No! Non voglio mica prendermi il tifo! No! Niente pozzo!-
-Noi abbiamo solo l'acqua del pozzo.- rispose la donna, confusa, abbattuta, come ammettesse una colpa.
Il conte disse duramente:
-Berrò dopo, a casa mia. Vediamo di far presto.-
-Volete parlare con i contadini, signor conte?- gli domandò il fattore.
-Ma...non so... sì sì...parlo con i contadini...-
Morini e il prete avevano selezionato le persone da presentare al conte. Avevano lasciato in casa, e che non si facessero vedere, i vecchi, i malati, gli sciancati e i bambini più piccoli.
C'era una dozzina di contadini, donne e uomini, che stavano allineati sull'aia. Avevano i vestiti della domenica, ma era comunque roba che parlava di miseria e di fatica.
Il conte Pellegrinetti, abbigliato alla cacciatora, li guardava e teneva sulle labbra un sorriso che pareva ormai una contrazione incontrollabile dei muscoli della faccia.
Guardava quella gente e sorrideva, ma non c'era niente di lieto in quell'incontro a cui lo aveva obbligato il padre morente. Li guardava e, in verità, gli sembravano grosse scimmie su due zampe: erano tutti un po' curvi, con la pelle scura e opaca come cuoio, gli occhi piccoli, affossati sotto la fronte bassa e schiacciati dagli zigomi alti. Avevano occhi sperduti.
Gli sembravano veramente una specie diversa di umanità. Le mani, soprattutto, erano strane e diverse: erano grosse, anche quelle delle donne, con le dita ripiegate verso il palmo, come non potessero distenderle del tutto, con le unghie larghe.
-Come state?- domandò ad Ada Canestri.
Lei rispose:
-Bene, signor conte.-
-E cosa fate?-
-Faccio le cose in casa. Pulisco. Tengo i bambini e preparo da mangiare.-

Poi il conte si rivolse all'uomo accanto a lei:
-Cosa fate?-
L'uomo trattenne il respiro come se si preparasse ad un salto, poi rispose:
-Io lavoro la terra del signor conte.-
-E come fate?-
-Faccio...lavoro la terra... la semina, il raccolto, l'aratura, tutto...il campo e l'orto...-

A Leopoldo parve di essersi interessato abbastanza. Si rivolse al fattore e disse:
-Tutto a posto i conti? Rende bene questo podere?-
Morini si affrettò a rispondere:
-Sì signor conte eccellenza. Se volete entrare un attimo a guardare i libri.-
Il conte annuì. Soprattutto voleva andare un po' al fresco.
Quando furono dentro casa, Morini gli aprì diversi registri grandissimi, aperti coprivano tutto il tavolo. Il conte guardò un po' le righe delle cifre, che gli parvero file di formiche. Si stancò presto e, mentre Morini si atteggiava ad amministratore fedele e devoto, iniziò a guardare fuori dalla finestra.
I contadini erano ancora là allineati, perché nessuno gli aveva detto di andarsene. Pellegrinetti vide che stavano fermi, in attesa, sospesi e incerti. Sembravano tristi.
-Quanto lavorano al giorno?- domandò Pellegrinetti.
Morini fece:
-Come scusi?-
-Quante ore lavorano tutti i giorni?-
-Dipende dalle stagioni. Anche tredici quattordici ore, delle volte.-
-E come fanno?-

Morini non sapeva che dire. Poi:
-E' il lavoro. Il loro lavoro è fatto così.-
Il conte guardò la terra che si perdeva fino alla linea dell'orizzonte: era come un mare calmo denso verde e brillante. La terra era gigantesca, teneva su la volta del cielo, e certamente quei piccoli uomini dovevano sudare sangue per avere dalla terra la ricchezza morale e materiale che diceva il vecchio conte Urbano.
La terra era infinita; anche il vento più veloce non poteva percorrerla tutta. E quelle povere figurine nere si spaccavano la schiena sotto il sole per chiedere alla terra che nutrisse la gente.
Confusamente, il conte Leopoldo pensò di cominciare a capire cosa intendeva dire suo padre. Non sapeva bene come esprimerlo, ma sentiva che la terra era davvero la madre, che poteva fare ogni cosa, buona o cattiva, e che i contadini lavoravano tanto per farsela amica, per chiederle -in cambio di tanta fatica- il pane e il vino.
E quella gente, pensava disordinatamente, non erano povere bestie, come sembravano, ma erano nati come tutti, rosa e teneri, e poi erano cambiati diventando parte della terra a cui davano la loro vita. Solo adesso, vedendo i loro occhi fermi, comprendeva che quegli uomini e quelle donne, che pure lo ringraziavano, avevano una dura dignità solenne e dolorosa.
Forse, lui avrebbe dovuto ringraziare loro: non solo perché lavoravano tredici ore al giorno e facevano ricco lui, ma anche perché loro custodivano e curavano e celebravano il dono immenso eterno della grande terra portatrice di frutti. Questo pensava, assorto, quasi stranito, osservando la terra che rifletteva la luminosità del sole così intensa e piena che pareva essa fare luce.
(Quello stesso giorno, dieci ore più tardi, il conte Leopoldo Pellegrinetti era a letto con la cantante Aurora Frou Frou, che era la prima attrazione del Gran Café de Paris di Bologna, e le promise che con il ricavato della vendita del podere Spadone le avrebbe regalato l'appartamentino in Via Saragozza).




I libri di Paolo Cortesi






14 dicembre 2018

Udienze Scolastiche. Un Racconto di Paolo Cortesi

Un Racconto surreale di Paolo Cortesi. Un futuro al contrario in un paese che non legge, dove i libri sono un pericoloso strumento di conoscenza e ai bambini si regalano smartphone e videogiochi per tenerli lontani dai libri.

per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html



Domani, in Italia…

Si sistemò i capelli, un ciuffo rotondo al lato della fronte, e il gesto sembrò in qualche modo legato a quello che disse subito dopo:
-Io capisco... vi capisco bene... però, voi capite...-
La donna si affrettò a rispondere alla professoressa:
-Sì sì sì, ma certo-, poi dopo questo lampo di parole, imprevisto come un accesso di tosse, la donna tacque e restò in attesa e mostrò di aver fatto tutto quello che si poteva aspettare da lei.
La professoressa Siliani Giuliana toccò ancora il ciuffo dei capelli; era evidentemente il gesto che ripeteva quand'era imbarazzata. Disse:
-A un certo punto, il consiglio dei docenti ha creduto giusto, direi doveroso, avvertire voi genitori.-
La mamma di Carlo fece sì con la testa e guardò la punta delle dita della professoressa. Il babbo di Carlo non aveva ancora detto niente, solo buongiorno quand'era entrato nella sala insegnanti, dieci minuti prima.
Il padre di Carlo aveva un'autofficina; era piuttosto ricco, ma il suo aspetto era quello di un lavoratore povero che usava muscoli e tenaglie; aveva le mani grosse, le dita quasi gonfie, curve, con tanti taglietti scuri sui polpastrelli, sul dorso e sulle nocche; aveva le macchie del grasso e della morchia che, anche dopo il lavaggio col sapone speciale, lasciavano un alone scuro, come di ustioni.
La professoressa non si aspettava che lui intervenisse nella conversazione; pensava che la moglie se lo fosse portato dietro perché finalmente si occupasse un po' pure lui del figlio. Nei suoi vent'anni di scuola, ne aveva visti tanti di padri così, che dei figli sanno poco e non ci vogliono perdere tanto tempo. Non sono cattivi, ma sono pigri e rassegnati; i figli sono loro estranei quanto un condomino con cui si scambiano appena i saluti.
Così, il babbo di Carlo (si chiamava Ennio) stava seduto e con la pancia pareva reggere la scrivania a cui sedeva, dall'altro lato, la professoressa; accanto a lui, la moglie Anna occupava poco spazio, perché era magrolina e raccolta e si vedeva che non era a suo agio.
-Carlo è un ragazzino bravo.- iniziò a dire la professoressa -È intelligente e ben relazionato in classe.-
Anna sorrise.
-Non si distrae spesso e partecipa alle lezioni con contributi personali.- continuava la Siliani. Anna pensava che diceva tutte queste cose belle per prepararli alla botta finale.
Ennio intervenne:
-Se va così bene, perché ci ha chiamato qua?- domandò senza staccare le manone che teneva intrecciate, sulla scrivania.
Anna gli toccò un braccio e disse, guardando la professoressa:
-Stai buono. Lascia parlare la signora.-
La Siliani fece un mezzo sorriso e disse in un soffio:
-No per carità, dica pure.- e bastò questo perché Ennio tacesse.
-Carlo non è un ragazzino difficile, problematico.- continuò la professoressa -Per questo abbiamo pensato opportuno intervenire subito, prima che sia un po' tardi...-
-Tardi?- mormorò Anna. La botta era arrivata.
-Sì, perché il comportamento di Carlo... cioè, noi abbiamo capito che è un ragazzino capace, ma può prendere una.... eh...-
Ennio fece, con gli occhi spalancati, come aggredito:
-Una brutta strada?-
-Non volevo dire così, però... insomma... ecco... come dire?...-
Ennio restava incerto e immobile, guardava la moglie e aspettava di uniformarsi alla sua reazione. Anna, però, sembrava inerte: fissava la professoressa e teneva sulla faccia un sorriso piccolo, sommesso, quasi involontario. La professoressa Siliani capì che non era il caso di tirarla tanto lunga; i due genitori che le stavano davanti non sembravano capaci di partecipare in modo costruttivo alla chiacchierata. Doveva dire tutto chiaro e tondo. Loro non volevano altro. Anche se la faccenda si faceva, per lei, più faticosa.
-Vede, signora, noi lasciamo ai ragazzi una certa libertà, perché se no la scuola sarebbe...sarebbe...sarebbe una galera, una caserma...eh?- disse la professoressa, con tono conciliante.
-Sì sì.- Anche Ennio disse:
-.-
Siliani annuì e continuò:
-Però bisogna che ci sia il controllo da parte nostra, da parte degli educatori. Così noi cerchiamo di stare vicino ai ragazzini soprattutto quando vediamo che c'è qualcosa che non va... che non va bene... qualcosa che noi abituati a conoscerli e a vivere con loro tutti i giorni...-
-Ma cos'ha fatto Carlo?- esclamò Ennio e mise tutta la sua anima nelle parole, dette a voce più alta e piena, senza muoversi, con le due mani posate sul bordo della scrivania.
-È un'età delicata. È adesso che si formano per il domani.- rispose la professoressa e pareva che non avesse neppure ascoltato l'uomo.
-Allora?- incalzò Anna, supplichevole.
La Siliani aprì un cassetto della scrivania, estrasse un libro e lo posò davanti ai due genitori, che lo fissarono come se non fosse un libro, ma un pezzo di carne appena tagliata dal corpo del figlio.
Era "Le avventure di Huckleberry Finn" di Mark Twain; un piccolo libro che aveva un disegno colorato in copertina.
Il babbo ebbe un rantolo sofferto:
-E questo?...-
La professoressa disse:
-Gliel'ho sequestrato due giorni fa. Prima ancora gli avevo preso questo. Non vi avevo detto niente. Volevo aspettare. Volevo capire.-
Posò accanto al libro un altro volumetto: l'Odissea in una versione per ragazzi. Entrambi i libri erano vecchi, con le copertine opache per un velo appiccicaticcio di sporcizia e polvere. Gli angoli delle pagine avevano pieghette e tagli.
Ennio fece:
-Madonna...- e alzò un po' la testa, come per allontanarsi dagli oggetti che sembravano due cadaverini sul tavolo.
La mamma Anna domandò con apprensione:
-Ma è sicura che li avesse Carlo? Non poteva averli un suo compagno? Magari glieli hanno messi sotto al banco e lui non sapeva niente.-
La professoressa fece un sorriso bonario, mosse un po' la testa per negare, rispose con la dolcezza che si usa coi malati:
-Mi dispiace, ma li aveva Carlo. Li stava leggendo.-
Anna si portò le mani alla bocca. Ennio strinse i pugni furiosamente, emise un gemito, poi:
-Li leggeva lui? Lei lo ha visto che li leggeva?-
La Siliani disse sì con un filo di voce, appena udibile, come se volesse avvicinarsi quanto più possibile al silenzio.
Per la prima volta, i due genitori si guardarono l'un l'altra. Anna abbassò subito gli occhi, ed Ennio si mordicchiò l'unghia nera del pollice.
-Leggeva i libri.- sussurrò.
La professoressa cominciava a pentirsi di non aver voluto la psicologa di classe accanto a sé. Aveva sottovalutato il dolore dei genitori.
-Ma lui cosa dice?- domandò Ennio, con la voce incontrollata con cui si rivolgeva ai suoi lavoranti.
-Sì. Gli ha parlato? Ne avete parlato?- domandò Anna.
-Dice che gli piace leggere.- rispose in fretta la Siliani.
Ennio chiuse gli occhi. Restò così per un minuto. Poi fece un gran respiro e prese fiato come se stesse per alzare un grosso peso e disse inarrestabile:
-Io non lo so. Non lo so. Ci siamo stati attenti a quel bambino. Magari io ero spesso al lavoro e non stavo tanto a casa. Ma lei capisce. Chi porta i soldi a casa, se no? E come si campa senza soldi? Ma mia moglie è sempre stata brava. Gli è sempre stata attenta. Fin da piccolo piccolo che andava all'asilo gli abbiamo comprato tutti i film che uscivano, poi le musiche. Tutte le canzoni. Tutte. Guardava sempre la tv. Ma mi creda: sempre. Entrava a casa, lo mettevamo davanti alla tv e ci stava per sette otto ore. A due anni già conosceva tutti i gruppi, i solisti. Perfino gli svedesi. Cantava le canzoni senza sbagliare una parola. Poi lo abbiamo iscritto subito a balletto e poi al corso di comico con specializzazione cabaret. Abbiamo speso un sacco di soldi. Eh Anna? Poi cosa abbiamo fatto? Ah sì! A sei anni, a sette non mi ricordo, lo abbiamo iscritto a un corso di ipod. Il suo primo smartphone gliel'abbiamo regalato quando gli è spuntato il primo dentino. Era piccolino e conosceva tutti i nomi dei suv dei fuoristrada delle macchine sportive. Lo portavo con me sempre alla partita sempre sempre. Pensi che è stato per un paio d'anni la mascotte ufficiale del mio gruppo di ultras. Gli volevano tutti bene. Cantava le canzoni della tifoseria e ne sapeva tante a memoria. Eh Anna? ti ricordi? Allo stadio una volta ha anche avuto il microfono e cantava e tutti tutti in cinquantamila gli hanno battuto le mani. Mi è venuta la pelle d'oca, giuro. Guardi, in casa non c'è mai stato un libro ma mai mai; pensi che una volta..."
Anna tentò di placare la foga affannata del marito:
-Ennio, la professoressa non...-
-Ma un minuto! Solo un minuto!- gridò lui, perché si doveva capire bene che non aveva colpa -Pensi che una volta, in tv, vide una scena d'un vecchio film dove c'era un libro. Era una scena in prima serata che era scappata alla censura. Mi chiese: babbo cos'è? e io: ma niente, una roba vecchia brutta schifosa puzzolente che non c'è più. Lui voleva sapere cos'era a cosa serviva, ma io dissi subito: no no non devi interessarti di quella roba che fa male che rovina la gente.-
Ennio si arrestò, esausto, disorientato. Aveva la faccia di chi è arrivato correndo in un posto che non conosce.
La moglie Anna, dopo una breve pausa in cui tutti stavano in attesa, intervenne cauta:
-Guardi che noi ci siamo stati sempre attenti, al bambino. Pensi che una volta lui trovò un libro vecchio rotto in casa della nonna...-
-Tua mamma.- esclamò Ennio, assorto.
-Sì. Appena gli ho visto quella cosa tra le mani gliel'ho presa, gliel'ho buttata via.-
La professoressa intervenne:
-Ma forse era meglio se non dava peso, se glielo portava via dolcemente. Così forse ha fatto nascere in lui un interesse morboso, una curiosità che altrimenti non avrebbe avuto.-
-Eh dice bene lei.- rispose Anna, risentita, che si sentiva accusata -Ma quando ho visto quella cosa nelle sue manine... guardi, mi si è gelato il sangue nelle vene... avrei voluto vedere lei...-
Poi Anna tacque, perché non voleva irritare la professoressa. Esiste sempre un limite che chi non ha potere non valica mai.
La Siliani sorrise e abbassò lo sguardo, e guardando le mani grosse di Ennio disse:
-Adesso dobbiamo solo pensare al bene di Carlo. Il consiglio docenti gli ha affiancato un sostegno per il corso di analfabetismo.-
-Il sostegno.- mormorò Anna e guardò appena il marito, che sembrava non essere più in grado di parlare, dopo quella tirata fitta di prima.
-Sì, ma non vuol dire niente, non si preoccupi. È solo un aiuto, un sostegno. Non pensi male.-
-Il sostegno.- ripeté Anna, e nella sua voce perduta la parola suonava come il nome di una malattia.
La Siliani aveva già visto altre volte certe facce, certi occhi. Stava per dire le solite cose per consolare i genitori sconvolti. Si vergognava un po', dopo tanti anni, a recitare sempre la stessa parte e dire le stesse cose. Era stanca di vedere le facce patite e dolenti dei genitori che scoprivano figli diversi da quelli che credevano di avere in casa.
-Non vi preoccupate troppo.- iniziò a dire e ripeté quasi esattamente ciò che aveva detto la settimana prima a genitori convocati perché la figlia sapeva a memoria L'infinito che aveva detto ad un'amica di nascosto -Con un corso intensivo di un paio di mesi, Carlo diventerà analfabeta irreversibile. Qui seguiamo il corso psicodidattico di Khek Zalovic. E fra poco il vostro bambino avrà tanto orrore dei libri che non vorrà neppure vederne uno.-
-È colpa di quei porci che spacciano libri ai bambini!- esclamò Ennio, che misteriosamente puntò il grosso indice verso la faccia della professoressa e lo tenne così finché quella non sembrò annuire -La pena di morte ci vorrebbe, per quei delinquenti maledetti che rovinano i bambini! La pena di morte ci vorrebbe.-
Tacquero. La Siliani stava per iniziare la lenta goffa fase dei saluti, quando Ennio, fissandosi il dito, disse a voce bassa, parlando al suo dolore:
-Ma se ne prendo uno......-



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