Non semplici
dimore di campagna ma strutture ben più complesse che dovevano rispondere alle necessità
abitative, lavorative e di convivenza di tutto quel microcosmo sociale che ruotava
attorno, nei nostri territori, al sistema agricolo del latifondo.
Dunque insieme,
abitazione, azienda agricola, magazzino, ricovero per uomini, raccolto, attrezzi
ed animali.
Collocata al
centro del feudo, distante dai centri abitati, nella masseria convivevano più
famiglie, si organizzava il loro lavoro e si svolgeva anche tanta parte della
vita di relazione di quelle comunità. Numerose le figure che ne animavano la
vita svolgendovi la loro attività e molto rigidi erano i principi e le
gerarchie che ne regolavano i rapporti.
I nobili proprietari,
solo raramente si occupavano della conduzione del feudo preferendo piuttosto darlo
in gabella e godersi le rendite nelle splendide residenze e nella vita sfarzosa
di città.
Sicché,
generalmente, è Il gabellotto il dominus di quella comunità e ad esso risponde
il massaro che è la figura che
sovrintende alla conduzione ed amministrazione del fondo e di tutta l’attività
della masseria. Conduzione nella quale è affiancato dai campieri: gente di
stretta fiducia che garantiva il mantenimento dell’ordine e del controllo padronale
sulla vita e sulle attività del feudo. La forza lavoro era composta dai
contadini che vi prestavano la loro opera a vario titolo: mezzadri, salariati
fissi, stagionali, misaluri, jurnatari. Fondamentale la presenza delle figure
femminili che non solo disimpegnavano le tante incombenze domestiche essenziali
per la vita nella masseria, ma spesso condividevano anche la fatica del lavoro
nei campi.
La vita nella
masseria seguiva la stagionalità del ciclo produttivo della campagna e delle
sue attività, animandosi e popolandosi, in particolare, nei periodi della
raccolta.
All’insieme di
queste attività che vi si svolgevano e di figure che in essa operavano e
convivevano, corrispondeva una peculiare conformazione costruttiva della
masseria che, nella sua struttura più tipica, contemplava generalmente un ampio
caseggiato chiuso verso, l’esterno da un alto muro perimetrale che delimitava
un cortile interno centrale sul quale si affacciavano gli edifici adibiti ad
abitazione, a magazzini per i prodotti, gli attrezzi e le stalle. In qualche
caso, un secondo piano di costruzione ospitava le abitazioni del proprietario o
del gabellotto che, tuttavia, solo occasionalmente, in genere nei periodi di
raccolta, dimoravano in masseria.
La vita e le
attività nella masseria siciliana sono state narrate magistralmente dalla grande
letteratura siciliana del XIX secolo; per tutte, la Masseria di Margitello e la
sua tenuta che furono lo scenario delle malefatte del Marchese di Roccaverdina fino
al loro tragico epilogo o la masseria di Mangalavite, pupilla degli occhi di
mastro don Gesualdo che vi riparò famiglia e parentado per sottrarli all’epidemia
di colera che imperversò in Sicilia nel 1837.
In una masseria, Il
poeta e scrittore pietrino Giovanni Giarrizzo ambientò il suo dramma Un coccio di verità. In essa si
consumano le vicende narrate dall’autore e si muovono quegli stessi personaggi che,
così come nella realtà, animano la vita della masseria: i proprietari, i massari,
i contadini e le loro famiglie.
Uno degli episodi
più significativi del romanzo Piccola pretura (di Giuseppe Guido Lo Schiavo che fu Pretore a Barrafranca tra il
1921 ed il 1922) si svolge nella Masseria
del Conte che l’autore colloca in una contrada non discosta dai centri di Barrafranca
e Pietraperzia e così ne descrive la struttura “era una specie di fortilizio in mezzo alla bonifica: un alto muro di
cinta, grosso e spesso come un bastione, cingeva il vasto cortile. A levante si
apriva la porta, enorme, rinforzata da bande ferrate e da puntelli: unico
accesso controllato all’edificio. Agli altri tre lati erano addossati i
magazzini, la casa padronale, gli appartamenti dei guardiani, le scuderie, le
stalle. Feritoie occhieggiavano in alto, esternamente, dal chiuso recinto”.
La crisi del
modello produttivo del latifondo, al quale la masseria era intimamente legata, è
tra le cause del suo progressivo, inesorabile decadimento. Alcune di quelle
strutture, nel tempo, si sono convertite a
nuova vita adattandosi a ruoli e utilizzazioni differenti; più spesso hanno
subito l’onta del degrado e dell’abbandono.
In giro per il
nostro territorio ci si può imbattere in queste imponenti costruzioni; giganti
del passato, spesso malamente sopravvissuti ma pur sempre testimoni potenti e custodi
della nostra identità. A questa realtà le tavole disegnate da Armando Laurella vogliono
restituire il fascino della memoria e mostrarne una intensità di vita che solo
l’arte può sottrarre alla inesorabile usura del tempo.
Salvatore Di Gregorio