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26 aprile 2019

Invito alla lettura: Il veleno dell’oleandro di Simonetta Agnello Hornby





Dopo avere letto la trilogia La Mennulara, Boccamurata e La zia Marchesa, “Il Veleno dell'oleandro” non si scosta nello stile e nelle tematiche sempre riproposte dalla nostra autrice. Una scrittura sapientemente resa scorrevole con le colorite descrizione di personaggi e luoghi di una Sicilia immaginaria. Luoghi immaginari ma che emergono reali alla mente di ogni siciliano che se ne è allontanato e le rivive con nostalgia.
Una scrittura sempre elegante anche nei piccoli dettagli descrittivi che danno forma e piacevolezza ai suoi romanzi.
Il racconto “Il veleno dell’oleandro” è ancora la narrazione drammatica di una grande famiglia: i Carpinteri, che nel groviglio delle passioni morbose, delle rivalità, dei segreti gelosamente custoditi, degli amori clandestini l’autrice intreccia con la consueta maestria sentimenti e risentimenti, sapendo creare momenti di vera suspance.
Bede Lo Mondo, un giovane bellissimo, viene accolto nella sua adolescenza dalla famiglia benestante dei Carpinteri, che gli dà la possibilità di studiare e di crescere nella loro tenuta de Ceuta a Pedrara.
Bede rimarrà fedele tutta la vita ad Anna, la padrona della tenuta. Accudirà devotamente Anna, ormai vecchia e malata di una forma di demenza fino alla sua morte. Un rapporto ambiguo ha legato Anna e il molto più giovane Bede.
L’incontro con i figli Luigi, Giulia, Mara e i parenti, accorsi al capezzale di Anna accende vecchi rancori famigliari, vecchi amori, storie di tesori nascosti, passaggi segreti. Anche i rapporti con la famiglia di Bede: i Lo Mondo, e una setta segreta, vedono il ritorno dei padroni come un ostacolo allo svolgimento delle loro attività illegali. Tanti misteri si svolgono nella villa e troppi personaggi entrano nella trama del romanzo.
Simonetta Agnello Hornby, in questo romanzo, introduce “parentesi” su numerosi soggetti solo accennati, una fotografia ridondante e non sempre nitida di personaggi e situazioni inverosimili: l'anoressia, la violenza familiare sulle donne, la bisessualità, l’omosessualità, l’associazione mafiosa, lo sfruttamento degli immigrati di colore.
Veramente troppo per non dare, in certi momenti, poca credibilità alle storie complicate della famiglia Carpinteri. La scrittrice non ha voluto fare una narrazione che avrebbe appesantito il romanzo su temi troppo scontati. Forse consapevolmente si è limitata ad accennarli, mettendo così il lettore nella condizione di immaginare e riflettere su argomenti della nostra attualità


Lina Viola



Il libro Il veleno dell’oleandro di Simonetta Agnello Hornby  è disponibile in biblioteca.  Puoi prenotarlo cliccando qui



04 aprile 2019

IL NOME DELLA ROSA VISTO DAI LETTORI



Il Nome della Rosa (romanzo, 1980) è un’opera scritta dal noto autore piemontese Umberto Eco, eclettico in tutte le sue passioni, filosofo, medievalista, giornalista. Il romanzo è un’opera che abbraccia diversi ambiti della cultura del medioevo e fonde contenuti di carattere filosofico, teologico, storico; utilizzando tuttavia termini comprensibili a tutti.
Gli Amici della Biblioteca di Pietraperzia, in occasione della messa in onda della fiction trasmessa su Rai 1, hanno approfondito la lettura del romanzo attraverso un Cenacolo Letterario, analizzando le divergenze e le convergenze tra l’opera scritta e la serie. Abbiamo considerato che è difficile riproporre simili capolavori, avendo anche assistito al primo film de “Il Nome della Rosa” (1986) di eccellente spessore.
La nostra opinione considera che l’opera scritta è più avvincente, apre una visione più ricca di intrecci. Il romanzo de Il Nome della Rosa è il risultato di una vita dedicata allo studio di questo libro. La figura del regista, al centro di simili tessiture d’intrecci, non può raggiungere tale ampia visione.
La visione moderna di alcuni personaggi ha reso l’ambientazione povera di dettagli ancora più reali, che sono poveri e spietati; un realismo crudo che Eco fedelmente riporta, ma che nello sceneggiato vengono addolciti.
Nel complesso, la fiction è affascinante, i paesaggi suggestivi. A nostro modesto parere, il regista Giacomo Battiato poteva osare di più, senza tralasciare quelle “imperfezioni” che rendono fedele e veritiera una realtà insicura, superstiziosa e chiusa in se stessa quale era il medioevo.

Amici della Biblioteca - Pietraperzia



11 gennaio 2019

Invito alla lettura: "Verso la Foce" di Gianni Celati



Il libro di Celati è fatto di quattro diari di viaggio. La raccolta è in tre
tranche: maggio 1983 (divisa in due diari), maggio 1984, maggio 1986. Sono pubblicati dall'ultimo al primo. Il viaggio è un lento andare che documenta ciò che si lascia dietro. Si tratta di un camminamento nella Pianura Padana che si trasforma, nel diario dell’83, in un viaggio “sapienziale” alle foci del Po. Il percorso è disorganizzato. È intessuto di quotidiano e non vi sono immagini degne di nota. È un viaggio di recupero di una visione normale, sulle cose e sul mondo. Si diffida, nel diario, delle cose straordinarie, fuori dall’ordinarietà che è lecito che ancora appartenga ad un luogo.

Il libro di Celati è anche il resoconto di un frammento di territorio e di umanità della pianura Padana. Su di essa grava il presentimento di stare per essere spazzata via, così com'è, forse da un evento di portata storica e inesorabile. Quale sia l’evento, se climatico, ambientale, economico, sociale, antropologico, se ci sia stato, si sa e non si sa. Questo non viene detto, ma aleggia una malinconia che vi allude possibilmente. La prima sezione del libro (Un paesaggio con centrale nucleare) è del 1989: lo scoppio della centrale di Černobyl. Lo scrittore fa un’inchiesta, seria nelle intenzioni ma a tratti estemporanea, chiede alle persone che incontra quanto ne pensano riguardo all’esposizione del Nord Italia alle radiazioni, registra le paure di un paese alla frase d’una barista: “Guarda che se non fa il bravo le dò latte contaminato, eh?”.

Questo sentimento di un mutamento che stravolge il volto della Pianura Padana non si esime da un resoconto particolareggiato di ciò che sembra destinato a svanire. Con occhio zelante, quando anche disattento, penetrante ma da lontano, Celati spiega la natura di quelle zone e chi le abita. Grossi stabilimenti industriali, un benzinaio grasso in ciabatte che si volta dall’altra parte mentre riempie serbatoi di benzina.
I luoghi descritti si trovano spesso nel punto di tensione fra un’offerta sentimentale del loro paesaggio naturale e lo squallore di elementi inquinanti che li hanno turbati. È l’inquinamento dei rifiuti delle industrie. Ma è anche una mutazione antropologica: i negozi dalle luccicanti vetrine delle grandi città sono riprodotti uguali nei cuori mutati dei piccoli borghi. Lo scrittore prende nota, cammina oltre, per “raggiungere una foce dove tutte le apparizioni si eclissano ridiventando detriti”.
Celati ricompone un’immagine cara al Novecento letterario: i detriti. Ma ricerca i relitti della realtà da un luogo metaforico ad un paesaggio ambientale: le foci del Po.
Questo diario è anche, se mi si passa l’espressione, un pamphlet di sapore profetico sulla fine del mondo. Si veda la quarta sezione (Verso la foce): quando il protagonista si trova a Scardovari, un paese nei pressi del Po di Gnocca, sta giocando ad un flipper in un bar semivuoto. Il gioco del flipper si basa sulla missione di due astronauti, Voltan e Vanda. Nel flipper, i due astronauti si devono allontanare dall’Empire State Building e dalla Statua della Libertà di New York per arrivare all’astronave che li salverà. Da che cosa? Dalla fine del mondo.
Celati non sale sull’astronave, né vuole farlo. Forse non può, e la navicella potrà prelevare le persone di una generazione successiva alla sua. Celati, col suo libro, si è fermato a fissare i resti del mondo, prima di una fine che non conosce.

Lo stile è quello di un libro fatto sorgere sulle frasi spezzate dagli appunti presi su un taccuino durante il viaggio. Talvolta, scritti mentre camminava, per cogliere l’essenza normale, diretta delle cose che vedeva. Oppure, lo scrittore è abile a fare risalire lungo questo filo, quello di una composizione immediata. Celati fa una prosa descrittiva, dura e senza sbavature, ma nutrita di lontananze e riflessioni su sé stessa. È asciutta, anche quando è tenuemente paesaggistica; quando è apocalittica, assegna alle parole un peso specifico.

Il personaggio Celati è solo un occhio che osserva. Questa è la visione copernicana in cui anche un altro scrittore, che sembra opposto a lui, ha impegnato la sua opera: Italo Calvino. Ma ogni occhio rimanda linee che attraversano spazi diversi, assegna vettori portatori di significati distinti.
Lo scrittore si abbandona agli spazi, ma si dà l’imperativo di evocarli a parole. Non sta pensando di descriverli: perché “anche le parole sono richiami, non definiscono niente, chiamano qualcosa perché resti con noi. E quello che possiamo fare è chiamare le cose, invocarle perché vengano a noi con i loro racconti”. È una singolare sconfessione della forza cognitiva della scrittura, pronunciata da un professore universitario di Lettere.

Celati, con la parola, richiama un mondo. Il mondo resta fisso, ma, ugualmente, sfugge dalle mani e svanisce. Celati diviene un personaggio inconsistente del suo libro. Teme di perdere la sua identità, ha dubbi, è attaccato morbosamente a qualcosa che fugge, gli importa di carpire qualcosa che accade fuori di lui, in un luogo che, perché non cambia, è a rischio. Celati è un fantasma che cammina su una terra che scompare se la nomina.
Nell’ultima sezione del libro, si annota la presenza di un ponte di ferro. Celati è a destinazione del viaggio: zona di Porto Tolle, all’imboccatura del Po di Gnocca. I piloni del ponte sono immersi nell’acqua alta del fiume. Attorno ad essi, la corrente fa gorghi d’acqua. Fuori da essi, una lattina è rigettata a dai cerchi dei mulinelli, li insegue mentre si spostano, e si rigetta nel loro occhio. Poi ricomincia.
Il libro di Celati – l’occhio di Celati - è fra l’osservazione emozionale dei mulinelli d’acqua e la focalizzazione della lattina inquinante, inquietante che rigettano.

Alessia Borriello





10 dicembre 2018

Invito alla lettura: "Pastorale americana" di Philip Roth




Non avevo letto Philip Roth, ma l’eco suscitato dai mass media dopo la sua scomparsa, mi ha incuriosito e spinta a leggere Pastorale americana, uno dei suoi romanzi più noti.
La voce narrante è quella di Nathan Zuckerman uno scrittore appartenente alla comunità ebraica di New York che narra la vicenda personale e famigliare di Seymour Levov, detto lo Svedese, suo compagno al liceo e fratello maggiore di un suo compagno di classe. Soprannominato lo Svedese per il suo aspetto fisico e per la sua carnagione chiara. Un uomo generoso, bello, con un forte senso morale e grandi doti sportive, era stato l’idolo degli studenti.
Il romanzo racconta della famiglia ebrea dei Levov, emigrata negli Stati Uniti alla fine dell’800. Tre generazioni con gli stessi obiettivi di benessere e prosperità. Il nonno di Seymour che aveva fatto lo scarnatore di pelli in una conceria, il figlio Lou, padre dello Svedese, a 14 anni aveva lasciato la scuola ed era entrato a lavorare nella stessa conceria. Con enormi sacrifici e lavorando duramente si arricchirà creando una fabbrica di guanti per donna. Adesso Seymour Levov, lo Svedese, è subentrato al padre e la dirige con successo.
Lo Svedese sposa la cattolica Dawn Dwyer ex Miss New Jersey.
Bellissima coppia ricca e apparentemente felice. Una classica e invidiabile famiglia americana. Dal matrimonio hanno una figlia, Merry, con un difetto, la balbuzie e problemi di personalità che preoccupano il padre e rendono infelice la madre. Per correggere la balbuzie, Merry è seguita da specialisti; ma Merry, nonostante tutto, peggiorerà.
Il dramma che sconvolgerà la normale quotidianità dello Svedese e che farà crollare gli equilibri della sua vita è quando Merry, ormai adolescente, inizia la ribellione verso i genitori, criticando i loro valori e il loro stile di vita, e con il rifiuto delle convenzioni borghesi. Comincia a partecipare alle manifestazioni di protesta contro la guerra del Vietnam e alle lotte per i diritti civili delle minoranze. Sono gli anni della contestazione giovanile che la porteranno a unirsi a un gruppo di estrema sinistra, e a compiere un attentato. La conseguenza sarà la morte di una persona che la costringe alla latitanza.
Seymour Levov non accetta la figlia terrorista che ha distrutto la vita di persone innocenti. Il romanzo è permeato dalla disperazione di un padre per la perdita della figlia e sempre alla sua ricerca; l’impossibilità di comprendere i motivi che l’hanno allontanata dalla famiglia, e l’odio che l’hanno portata a compiere atti terroristici. Triste e commovente, quando anni dopo, ritrova la figlia che aveva creduto morta. Irriconoscibile nell'aspetto, vive come una senzacasa, in condizioni di estrema povertà, provata psicologicamente. Incapace di riportare la figlia a casa e toglierla dal letame nel quale vive una vita disperata, riconosce tutta la sua impotenza di fronte alle scelte distruttive della figlia.
La vita familiare di Seymour Levov è ormai definitivamente sconvolta. La moglie Dawn, dopo un lungo periodo di depressione comincia a riprendersi la sua vita; la scopre che ha una relazione con l’architetto che ha ristrutturato la loro villa.
Il romanzo è un lungo viaggio nel dolore, il racconto di come la precarietà dei sentimenti può distruggere una famiglia. Seymour Levov aveva costruito la sua vita e la sua famiglia secondo la “pastorale americana” della classe medio-alta del New Jersey, senza però aver saputo salvare la figlia dai rivolgimenti giovanili di quegli anni sessanta e il suo matrimonio dal subbuglio dei tempi moderni.
Consiglio la lettura del romanzo, un racconto potente dal quale un paio di anni fa è stato tratto un film

Lina Viola


Pastorale americana di Philip Roth è disponibile in biblioteca. 
Puoi anche prenotarlo cliccando qui








03 dicembre 2018

Invito alla lettura: Accabadora di Michela Murgia





Michela Murgia in
Accabadora fa intrecciare due usanze sarde. Si tratta di due pratiche dalle origini remote; ma le loro tracce non si perdono nella leggenda. Ne sopravvivono testimonianze fino agli anni Sessanta, in alcune regioni sarde.

La prima: una donna benestante adotta il figlio di troppo d'una madre povera. La donna non avrebbe figli, in altro modo; ella diviene sua madre, agli occhi della comunità. Il figlio, "generato due volte", è suo "fillus de anima"; è frutto della sterilità della donna da cui è stato scelto. E' stato scartato dalla sua prima madre ed è stato eletto dalla seconda.
La seconda pratica, invece, è un rudimento di paese dell’eutanasia. E’ una vecchia a svolgerla. La vecchia s’aggira silenziosamente, non vista, di notte. Mentre cammina, la sua gonna nera e lunga svolazza fra le case. Si veste di nero, e si muove di notte, perché la comunità di Soreni non deve vedere ciò che esula dalla sua morale. Ma anche gli abitanti di Soreni, in un anfratto senza regole (quello del mondo notturno, ma anche della femminilità più mistica e leggendaria) contempla la figura dell’Accabadora. Acabar: terminare, in spagnolo. L’Accabadora si reca, discreta nella notte, al capezzale dei morenti, cui manca il suo solo colpo finale per essere finalmente morti. Li finisce, con un colpo di bastone dove sa lei, con una pressione del cuscino; fa loro respirare polveri che stordiscono. L’Accabadora è l’ultima madre in cui a qualcuno è dato d'imbattersi. L'ultimo volto materno in cui specchiarsi. L’ultima madre cui qualcuno si accompagna nel congedo dalla vita, per alleviare il dolore prima del trapasso. Perché “non c’è nessun vivo che arrivi al suo giorno senza avere avuto padri e madri a ogni angolo di strada”. L’Accabadora è una madre esecutrice priva di figli.

La protagonista del romanzo è Maria Listru, ultima figlia di troppo della popolosa, ma povera, famiglia Listru. La vedova Listru, madre di Maria, accetta l’offerta d’una ricca vedova senza figli, che la adotta. Maria è “fillus de anima, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai.”. Non rimpiangerà la madre precedente; Bonaria Urrai, la vedova adottiva, ha molto da insegnare a quella bambina selvatica: come cucire le asole, prepararsi alle guerre del futuro, come accogliere la vita e la morte. L’aveva scelta fin da un pomeriggio in bottega, quando s’era accorta dei furti inosservati che la bambina compiva. Era stato il rossore delle ciliegie appena rubate a tradire la piccola Maria: la refurtiva si vedeva da una macchia rossa sulla tasca bianca del suo abitino. Bonaria l’aveva vista, “nei peccati senza complici dei bambini soli.” L’aveva adottata.

La piccola Maria è legata a Tzia Bonaria, insieme alla quale, senza che il lettore trovi il tempo d'accorgersene, diviene donna. Ma Maria non sa ancora che l’Accabadora s’addentra silenziosa per le strade, di notte, invisibile perfino ai vivi, avvolta nel suo scialle nero. Va a porre fine alle vite con le quali la stessa Maria è venuta a contatto, nella piccola Soreni. Ogni tentativo operato dai personaggi del romanzo per ristabilire un ordine, seppure precario, agli avvenimenti più precari della vita, è sventato dalla figura dell’Accabadora, puntuale come la morte, l'evento che porta con sé.
Tanto remissiva alle sue colpe, nei momenti di debolezza, l'Accabadora è tuttavia altrettanto risoluta quando sia giunto il tempo di commetterle.

Queste due pratiche raccontate nel romanzo conferiscono all’Accabadora una lontananza storica; ma che non si perde troppo lontano, nella storia. Ed una distanza antropologica, ma che si trattiene, fra le tante punte liriche del romanzo della Murgia, nei confini etici dell’umano. Ed è proprio il dibattito sull’umano, su cosa sia giusto e cosa sia soltanto morale, ad intrecciarsi nei dialoghi dei protagonisti. Tale dibattito è tenuto in ragione della distanza fra ciò che essi credono e il modo in cui le loro azioni sono accolte dagli abitanti di Soreni. Ma non solo quelli di Soreni: il dialogo di questi personaggi si inserisce nel dibattito oggi attuale sui temi di eutanasia e adozione. Lo affronta da una certa distanza, lo pone sotto la luce di una Sardegna tradizionalista, quasi atavica.

Una lontananza spaziale e temporale conferisce all’Accabadora, nei termini di ambientazione e d'atmosfera narrativa, un sentore di isolamento che ricorda qualcosa dei luoghi più sperduti della letteratura. Il parente più illustre della Soreni della Murgia è forse la Macondo di Marquez. Questi luoghi traggono specificità dalla loro dimenticanza d’un mondo civilizzato. In questi luoghi, è possibile che gli zingari si spingano ai confini del mondo a far conoscere il ghiaccio (Marquez, Cent’anni di solitudine). Ma in questi luoghi prende forma anche la Sardegna delle tradizioni che Michela Murgia ci ha raccontato magistralmente nell’Accabadora.


Alessia Borriello









14 novembre 2018

Invito alla lettura: Il bordo vertiginoso delle cose




Nel romanzo di Gianrico Carofiglio mi ha incuriosito questa frase: “da bambino avevo paura di tutto”. Queste parole mi hanno riportato alla mia infanzia. Le mie paure erano le stesse che lo scrittore evoca nel suo romanzo. Alcuni incubi, sempre gli stessi, che mi svegliavano la notte chiamando la mamma per essere rassicurata da lei. Le paure poi con le quali tutti conviviamo tutta la vita, le ansie che ci tormentano e a volte ci paralizzano e ci impediscono di portare a termine un’attività, un lavoro. È quello che accade nel romanzo ad Enrico, Il protagonista del racconto, dopo il suo primo libro di successo non ha idee per scriverne un secondo, quello in cui potrà avere la conferma del suo talento letterario, ma non rinuncia e si rifugia con apparente rassegnazione nel ruolo di Ghostwriter, scrivendo libri per altri scrittori.
Mentre leggo il romanzo che si può definire “romanzo psicologico”, ho come una immedesimazione col protagonista, la sensazione di stargli fianco a fianco. Ascoltare le sue lunghe digressioni, il racconto delle lezioni di filosofia che spiega come farebbe un insegnante con i suoi allievi. I ricordi della sua adolescenza nella sua città di origine, Bari, mi riporta alla mia adolescenza e alla mia prima giovinezza e a tutte le mie difficoltà che, come per il protagonista, fanno fuggire da una realtà che sembra non dare un futuro accettabile.
A Firenze, dove Enrico vive da anni, gli capita di leggere casualmente una notizia di giornale che lo travolge psicologicamente. Un suo ex amico e compagno di Liceo, Salvatore, da poco uscito di galera, durante una rapina, è stato ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri.
Enrico decide tornare a Bari e affrontare quei fantasmi del passato dai quali è scappato. Inizia così in un racconto dove l’autore alterna capitoli che riguardano gli avvenimenti della sua adolescenza e altri dove racconta della varia umanità che incontra nella visita alla sua città di origine, personaggi del suo passato e personaggi incontrati casualmente.
Enrico è stato un adolescente insicuro, ma tutto inizia a cambiare con l’arrivo nel suo liceo di una supplente di filosofia. Celeste è la giovane professoressa, libera e disinibita, della quale Enrico s’innamora, che ha saputo fargli amare e fare amare a tutta la classe la sue lezioni di filosofia. Un altro incontro importante che lo cambierà profondamente è l’amicizia tra lui e Salvatore, un suo compagno più grande di lui e più volte ripetente. Salvatore è un attivista della sinistra extraparlamentare, come venivano definiti allora certi movimenti di sinistra formati perlopiù da studenti. Dopo una rissa violenta con alcuni ragazzi Salvatore gli insegna le tecniche di lotta facendolo allenare alle arti marziali e all’uso delle armi. Enrico si farà coinvolgere in piccole rapine e persino in un attentato a un avversario politico. La fine della supplenza di Celeste, la scoperta di una relazione sentimentale tre lei e il suo amico Salvatore, e il carcere di questi per rapina lo allontaneranno per sempre da lui.
Il romanzo di Gianrico Carofiglio, alle prime pagine, mi aveva scoraggiato nel continuare a leggerlo; ma dopo un avvio faticoso ho iniziato ad apprezzarlo sia per i temi che per l’abilità narrativa di Carofiglio.
Trovarsi nel "bordo vertiginoso delle cose" può capitare a chiunque, il racconto ci dice che dobbiamo lottare e non farci trascinare "nell’abisso", conta non cedere alle grandi delusioni che la vita immancabilmente ci riserva e che non spingersi oltre quel "bordo"può offrire nuove possibilità di futuro.

Lina Viola


Il libro Il bordo vertiginoso delle cose di Gianrico Carofiglio
è disponibile in biblioteca. Puoi anche prenotarlo cliccando qui
 






01 novembre 2018

Il prequel di “The Game”: Il saggio “I barbari” di Alessandro Baricco



Alessandro Baricco, I barbari


Nel saggio I barbari, Baricco scorre prima di tutto il filo di una metafora. È questa l’abilità dello scrittore che si presta come saggista. Prima di attorcigliarsi in ogni tecnicismo, che, forse, non gli compete fino in fondo. Prima di farlo, lo scrittore svolge il filo di questa metafora, da cui si fa guidare.

Ma occorre, in una recensione, spiegare prima l'argomento canonico scelto per il suo saggio. Il libro di Baricco illustra alcune delle più significative mutazioni che ci ha portato in consegna il nostro mondo contemporaneo della rivoluzione digitale (quello contemporaneo alla scrittura del libro: 2006). Baricco illustra il nuovo volto di alcuni ambiti della nostra vita: i libri, la musica. Ma anche: il vino, il calcio. Le melodie che fischietta un postino camminando per strada, nel consegnare la posta.

Ma, insieme al saggio di Baricco, dobbiamo smottare fino al livello metaforico, scelto dallo scrittore per raccontare il suo argomento. Si tratta della metafora dell’invasione della nostra civiltà da parte di sconosciuti barbari. I barbari sono le nuove generazioni a partire dagli anni ’60 – ’70. L’ultimo capitolo si conclude con il resoconto del loro assalto alla Grande Muraglia Cinese. Nella sua visione, ci sono ingegneri che stanno innalzando il Grande Muro. Ne sono preposti alla manutenzione.

Intanto, i barbari lo hanno già valicato da tempo. Non solo perché per loro non c’è confine che tenga: ma per loro quel confine non esiste. La ragione d’essere dei civili è quella di edificare un muro che tuttavia sussiste solo nel momento in cui lo si vuole difendere. E a nessuno che venga in mente di navigare la corrente della mutazione. Il flusso portato dai barbari.

Barbaròs in greco significa esattamente barbaro, nella sua corrispondenza di significato e significante: e cioè significa proprio “bar bar”. I greci, colti e civili, usavano questo termine per riprodurre con un termine onomatopeico e canzonatorio il modo di parlare di questi incivili. Costoro non conoscevano il greco, ma parlavano un’altra lingua, e sembrava che barbagliassero. “bar bar”: era ciò che i Greci sentivano. Ma altro e di più era ciò che i barbari dicevano, se si stava ad ascoltarli. Un giorno, nel II sec. a.C, i barbari furono i Romani. I Greci civili furono conquistati dai barbari incivili, che diedero inizio ad una civiltà più grande della loro. In quella novità, la Grecia era una provincia. Il suo modo per salvarsi fu quello d’abbandonarsi all’impero, di divulgare una cultura, le proprie scoperte, il significato che aveva estirpato dal mondo prima di decadere dolcemente.

Baricco, nella sua metafora, vuole dirci anche questo, evocando proprio il termine: barbari; certo, insieme ad una compresenza di altre implicazioni. È questa la natura propria della metafora, lo strumento più provocatorio che Baricco avrebbe potuto usare per un saggio, che trascina con sé molte implicazioni attorno ad un oggetto preposto come indagine specifica.

Eppure, anche la provocazione di Baricco è da “barbaro”. E questo Baricco lo sa. Ne fa uso consapevole.

I barbari sono le mutazioni della società digitale, gli attori e i pionieri che le hanno apportate. La civiltà è, in antitesi, l’assetto antropologico e culturale precedente.

Un’altra metafora: la civiltà è un animale. I barbari sono un pesce. Il segno di una mutazione può essere letto solo alla luce di questa scoperta. Perché l’evoluzione non sia letta come degenerazione. Perché l’inizio di una branchia non sia considerato come la malattia d’una zampa. Ma solo l’inizio di un pesce.

Ed è così che, in una cauta spirale di metafore, Baricco procede ad illustrare le tappe fondamentali che hanno condotto alla trasformazione della società borghese consegnata in eredità dalla cultura ottocentesca. Google, cinema, fotografia. Commercializzazione spinta: di vino, di calcio, di libri, di musica.

Baricco dimostra grande apertura mentale e scarsa tendenza all’apocalisse. Il modo più sfrontato che ha per farlo è paragonare questa incompresa mutazione di oggi a grandi, già riconosciuti cambiamenti epocali del passato. Baricco trova molte similitudini fra l’allargamento dell’odierno pubblico editoriale e la mutazione di prospettive che il romanzo abbracciò in pieno Ottocento, quando scelse di rivolgersi a tutto il mondo borghese. Nel farlo, Baricco dimette ogni giudizio di qualità sull’odierna mutazione, preponendosi di valutarne solo la direzione. Poi, traccia la fisionomia dei barbari. È questo ciò che più gli preme: il loro volto. Lo disegna seguendo il filo della mutazione, la traccia di un cambiamento.

Per questo, fra le sue epigrafi, non può mancare Walter Benjamin. La sua voce si fa sentire lungo l’intero corso del libro. L’eclettico studioso tedesco di XX secolo, prima che per la sua erudizione, viene evocato per la sua maestria nell’arte di riconoscere i cambiamenti e di intravvederne la direzione. Di dedicarsi a diversi aspetti della realtà, congiungerne i tasselli, ricostruirne la fisionomia. Maestro, insomma, nell’arte di fiutare la direzione del presente verso il futuro.

I barbari, dunque, è un saggio sulle mutazioni della civiltà e del mondo del libro. È un saggio sull'arrivo dei barbari. Il saggio-romanzo, nella sua struttura esplicita, fornisce dapprima una mappatura per comprendere il loro saccheggio. Poi, un tracciato del loro volto. Infine, l'invito a comprendere la loro strategia. E la proposta d’una soluzione ragionevole: abbandonare il senso dell'apocalisse, osservare il disegno della mutazione.

Alessia Borriello
@Alessia Borriel5



31 ottobre 2018

Invito alla lettura: La variante di Lüneburg di Paolo Maurensig




Frisch, un ricco tedesco, viene trovato morto nella sua villa, per un colpo d'arma da fuoco. Sembra si tratti d'un suicidio, ma non ci sono messaggi. Solo una scacchiera di pezza, sul suo tavolo da lavoro, con una posizione di gioco già sviluppata. La variante di Lüneburg è, all'inizio, un giallo da risolvere.
Ma al giallo, in breve spazio, segue il racconto biografico: tempo prima del fattaccio, Frisch e il suo collega Baum, nel treno da Monaco a Vienna, incontrano Hans. Egli è un misterioso ragazzo, che prende a raccontare la sua lunga storia. Racconta di una serie di partite a scacchi. Con il racconto di Hans, La variante di Lüneburg è, prima di tutto, un libro di partite a scacchi.

Le partite, le più importanti, sono quattro: una fra un ragazzo ebreo e uno nazista, nella scalata per aggiudicarsi il titolo di campione mondiale di scacchi; siamo qualche notte prima della Kristallnacht. La seconda è la partita giocata da quei due ragazzi divenuti uomini. Il primo è un ebreo rinchiuso nel lager di Bergen-Belsen, nella landa di Lüneburg; il secondo è un sottufficiale nazista di quel campo. La partita si gioca al tavolo della sua scrivania, l’ebreo viene assolto dai lavori pesanti del lager perché sia garantita la sua lucidità al gioco. La terza è la partita delle loro due vite, una sfida, a partire dalla gioventù, ad intimidire l’altro, a non farsi circuire. La quarta è la seconda guerra mondiale.

Il rapporto fra queste partite è un giocoforza che ha la tragicità delle piccole vicende che si misurano con i grandi eventi della storia. Vince chi vince gli scacchi, o chi vince la guerra? C'è il pericolo che la sconfitta storica determini l'esito della partita a scacchi. Così, la sfida fra due vite diventa una tensione strategica allo scacco per l’altro. Non c’è più solo la bravura tecnica: lo sa il tedesco, che fin da ragazzino vuole intimidire il suo avversario. Si presenta quindici minuti in ritardo alla partita, per prendersene gioco.

Col racconto di Hans, il romanzo diviene un racconto a cornice, dove basta il tempo d’un viaggio in treno perché i rapporti fra vite trascorse siano incastrati per sempre. Per cui, la fine del romanzo sarà la chiave di lettura della mossa iniziale: quella del suicidio di Frisch. E così, tutto il romanzo è una partita ripercorsa all’indietro (la terza: quella della vita). Procedendo, se ne incontrano le vittime o pedine.

Ci si accorge allora che la variante di Lüneburg è stata applicata alla vita. Non il libro: ma la mossa di scacchi. Perché il titolo del romanzo prende il nome da una mossa di scacchi: quella inventata dall’ebreo nella landa di Lüneburg. Essa consiste nel sacrificio d’un cavallo, in ragione del bottino di due pedoni. Alla fine del romanzo, poi, si capisce chi sia il cavallo, si comprende la natura dei pedoni.

Alessia Borriello​


La variante di Lüneburg di Paolo Maurensig è disponibile in biblioteca. 





14 settembre 2018

Invito alla lettura: Boccamurata di Simonetta Agnello Hornby


“Boccamurata” è il terzo romanzo della cosiddetta trilogia, come l’autrice stessa l’ha definita. Una trilogia, per la verità, senza punti in comune con i romanzi precedenti: “La Mennulara” e “La zia marchesa”. Ma trilogia la dobbiamo chiamare. Pur diversi per personaggi, ambienti sociali, situazioni ma così simili per le passioni, la sensualità prepotente degli “attori” che Simonetta Agnello Hornby mette in scena, costruiti con la solita e riconoscibilissima maestria, la “parlata siciliana”, i paesaggi sempre descritti da suscitare nostalgia ai siciliani che ne sono lontani.
Toccante per me lo sguardo su un peschereccio che si osserva da lontano "navigava orizzontale, come una foglia trasportata dalla corrente".
Il romanzo si apre con una tranquilla e tradizionale riunione familiare: il compleanno del nonno Tito attorniato da figli e nipoti. Mariola, la moglie, che imbandisce la tavola con tutti i suoi piatti preferiti.
Un quadretto famigliare perfetto; Tito soddisfatto, osserva divertito da patriarca autorevole. Chiama figli e nipoti con i nomignoli che ha dato a ognuno di loro: capellini, rigatoni, spaghetti... nomignoli, che senza nessuna fantasia, affibbia loro per essere il proprietario del grande pastificio ereditato dal padre. Ma il personaggio sulla quale s’innerverà il racconto è la zia Rachele.
Custode attenta della casa, è per Tito, da sempre, un punto di riferimento imprescindibile. Tito che non ha conosciuto la madre è stato cresciuto ed educato da questa zia, che ancora adesso lo guida e lo consiglia sulle decisioni importanti che riguardano la famiglia e il pastificio.
Questo rassicurante interno famigliare è solo apparente, nasconde invidie e tradimenti. Lo stesso Tito vive un grande dolore, il tormento di non avere conosciuto la madre.
Nel clima sereno della festa il nipote Titino, il preferito, per un compito assegnatogli a scuola gli chiede di aiutarlo a fare la "La ricostruzione dell'albero genealogico della sua famiglia".
Questa richiesta riapre la grande ferita, riportandolo al suo difficile passato. Alle sofferenze e alle difficoltà vissute nell'infanzia e poi nella sua adolescenza. Quello che lui sa è quello che il padre, Gaspare, gli aveva sempre raccontato. Di essere il frutto di un amore con una donna sposata e che da questa relazione clandestina, per salvare l’onore della donna amata, l’aveva cresciuto nella sua casa e affidato alle cure della sorella, la zia Rachele.
La scrittrice ricostruisce lungo tutto il romanzo la personalità di Tito della sua complicata famiglia è di sua “zia” Rachele che aveva rinunciato a sposarsi e dedicarsi completamente all'educazione di Tito.
La spasmodica ricerca della verità sulle sue origini, che scoprirà cinquant'anni dopo, con l'incontro di Dante, figlio di una ex compagna di scuola di Rachele. Tito viene in possesso di un pacco di lettere scambiate da Rachele con la mamma di Dante che gli riveleranno quello che non avrebbe mai sospettato. Le lettere dell’allora giovane Rachele gli sveleranno una verità sconvolgente.
Un tabù che lo porta a riconsiderare la figura di Rachele. Una rivelazione che gli da finalmente la serenità cercata tutta la vita e che gli farà dire di Rachele “la donna più trasgressiva che abbia mai conosciuto".
La zia è sempre vissuta con “la bocca murata” custode del suo segreto e del destino di Tito.
Un romanzo che ho apprezzato per l’apparente facilità di scrittura e che mi ha turbato per la scabrosa vicenda di Rachele. Consigliatissimo.

Lina Viola




07 settembre 2018

IL BANDITO TESTALONGA. LA RESISTENZA DI UN VINTO.


Un libro di ANNA MAROTTA, 
Giambra Editori,
prima edizione giugno 2018.


Come dimostrano i dati del mercato editoriale italiano degli ultimi anni, i piccoli e medi editori crescono dimostrando serietà e vivacità culturale, certamente salutari in un panorama spesso viziato dal conformismo. E proprio da questi editori coraggiosi ci arrivano autentiche perle come questo libro di Anna Marotta dedicato al famoso bandito
Testalonga. Il saggio nasce come Tesi di laurea dal titolo "Il bandito Antonino di Blasi alias Testalonga" (1728-1767), a conclusione del corso di laurea in Filologia Moderna, conseguito nel 2016 con il massimo dei voti e la lode presso l'Università degli Studi di Catania. Il valore aggiunto del libro consiste nell'aver coniugato il rigore delle fonti con lo stile narrativo. Lo storico/detective dovrà dipanare un'intricata matassa, dove non solo storia e leggenda sono intimamente intrecciati, ma dove il confine tra legge e fuorilegge risulta, come vedremo, assai labile.
Per prima cosa, l'Autrice descrive il contesto storico, politico e sociale nel quale il protagonista, anzi, i protagonisti si trovarono a vivere ed operare: il bandito Testalonga, il suo "antagonista", il viceré Fogliani, i nobili, il popolo e colui che nel libro viene chiamato "l'alter ego" del bandito, che "nel tormentato inseguimento tra guardia e ladro , si scontrò con qualcosa più grande di lui che non avrebbe mai immaginato", il principe di Trabia Don Giuseppe Lanza, nominato Vicario dal viceré con l'incarico di catturare Antonino di Blasi e la sua banda.
Nella Sicilia del Settecento si susseguono ben quattro dominazioni: quella spagnola, sabauda, austriaca e infine borbonica, ma per i siciliani cambiava poco o nulla essendo semplici pedine nelle mani dei potenti e succubi di un sistema dove imperavano i privilegi e gli abusi nobiliari e l'oppressione tributaria e dove anche la natura faceva la sua parte con catastrofi, epidemie e carestie di raccolti, come la crisi del grano del 1763. Sono proprio gli anni in cui il di Blasi si diede alla macchia. Intanto, una precisazione terminologica e storica: banditismo e brigantaggio sono due fenomeni diversi, anche se spesso vengono confusi. Tra il Cinquecento e il Settecento venivano chiamati "banditi" coloro che erano colpiti dal bando, cioè da un decreto di espulsione dalla comunità; il brigantaggio fu fenomeno successivo e più complesso, che interessò migliaia di persone che non possono essere sbrigativamente e sommariamente liquidate come "delinquenti", ma che ebbe il carattere di una vera "insorgenza", dapprima contro i francesi e il giacobinismo e che esplose soprattutto dopo il 1860 contro uno Stato che evidentemente in troppi percepivano come oppressore e invasore. Contro banditi e briganti il potere rispose con una repressione cieca e selvaggia, fatta di torture, esecuzioni sommarie, teste mozzate e corpi smembrati. Una triste pagina di storia che solo di recente è stata raccontata anche "dalla parte dei vinti". L'altra faccia di questa feroce repressione era rappresentata dal compromesso, dallo scendere a patti con i malviventi da parte di molti settori "altolocati" della società.
Antonino di Blasi nacque il 19 febbraio 1728 a Pietraperzia. Ultimo di sette figli, crebbe in un ambiente povero e privo d'istruzione. A soli 15 anni sposò Antonia Anzaldo che di anni ne aveva addirittura undici. Non sappiamo esattamente che lavoro facesse il giovane sposo, comunque per un certo tempo cercò di sbarcare il lunario. Poeti, romanzieri e cantastorie hanno tramandato il momento in cui Antonino si diede alla macchia. Lo fece dopo aver ucciso il bargello (nome con il quale si indicava il capitano militare addetto all'ordine), perché questo gli aveva assassinato la madre. Una "romantica leggenda" come la definisce Anna Marotta, che non trova riscontri oggettivi poiché si è potuto appurare dall'archivio della Chiesa Madre di Pietraperzia che la madre morì quando Antonino aveva tra i tre e i quattro anni. L'idealizzazione del bandito come una specie di Robin Hood che rubava ai ricchi per dare ai poveri, anche se priva di prove che ne dimostrino la veridicità, risponde pienamente all'anima di un popolo assetato di riscatto e di giustizia. "La leggenda - scrive Marotta - diventa uno specchio riflettente di quei difficili anni, anche perché i bargelli, così come i gabelloti e i campieri, rappresentavano gli emissari dei "nobili" feudatari e loro erano i fautori delle peggiori barbarie a danno del popolo" Plausibile è la notizia secondo cui Antonino di Blasi scontò tre anni di carcere ad Agrigento per aver rubato un bue. Rimesso in libertà incrociò il suo destino con quello dei compagni di (s)ventura Giovanni Guarnaccia di Pietraperzia e Antonio Romano di Barrafranca. Insieme organizzarono una temibile e numerosa banda i cui primi movimenti sono attestati, come si evince dal fondo Trabia presso l'archivio di Stato di Palermo, a partire dal 1766. Il primo luglio di quell'anno l'Avv. Fiscale Don Giuseppe Iurato scrive al viceré Fogliani mettendolo in guardia sulle malefatte della banda ed invocando i necessari provvedimenti. Viene subito promulgato un bando con cui si mette una taglia di cento onze sui tre principali capi della banda: Testalonga, Guarnaccia e Romano. Da questo momento non sono più semplici ladri, ma "abbanniati", banditi. L'attività principale della banda consisteva nell'assaltare le masserie ed estorcere ai benestanti il denaro con cui Testalonga creò una fitta rete di complicità, anche ad alti livelli, tanto da dimorare tranquillamente presso nobili ed ecclesiastici. Alla banda viene attribuito un solo omicidio, quello del Tenente dei barrigelli di Butera, ma non imputabile al Testalonga. In seguito al bando, il Guarnaccia si separò dal resto della banda seguito da tre compagni, ma nel mese di ottobre vennero catturati a Regalbuto e il 10 novembre furono impiccati a Palermo nella Piazza della Marina. Testalonga, Romano e gli altri, per nulla intimoriti, continuarono le proprie scorribande assaltando feudi e masserie. Ed ecco entrare in scena Don Giuseppe Lanza Principe di Trabia che, come abbiamo già detto, viene nominato Vicario Generale Viceregio. Una volta ricevuto l'incarico dal vicerè, egli organizzò il suo quartier generale a Mussomeli e promulgò subito un bando nel quale si fissava la taglia per ciascun bandito. Deciso a stroncare l'attività della banda, il Vicario inviò corpi armati a perlustrare campagne e grotte e non esitò ad assumere come spie e capitani elementi della malavita. Dai suoi informatori e dalle numerose lettere anonime ricevute, Don Giuseppe Lanza compilò una lista dei complici e protettori del Testalonga, ai quali intimò di consegnare il bandito vivo o morto. Siamo all'epilogo della storia. Il 18 febbraio 1767 Testalonga e il suo fedele compagno Romano, in seguito ad un conflitto a fuoco, vennero catturati in una grotta nei pressi di Castrogiovanni (l'attuale Enna), traditi proprio dai principali protettori, i baroni fratelli Trigona di Piazza. Di Blasi e Romano, insieme ad altri componenti della banda, vennero portati a Mussomeli, torturati e condannati alla forca, sentenza eseguita il 7 marzo 1767. L'indomani i corpi vennero squartati e le teste tagliate, quella del di Blasi portata come trofeo a Palermo, la testa di Romano venne esposta a Barrafranca. Un potere corrotto a tutti i livelli si accanisce in modo barbaro sui cadaveri, ma nessuno dei numerosi protettori, prima additati dal Vicario, venne punito, anzi, intascarono riconoscimenti e ricompense. E allora, la domanda che più volte emerge scorrendo le pagine del volume, risulta pienamente legittima:" CHI SONO I VERI BANDITI?".
Anna Marotta ha compiuto un lavoro straordinario, da vera storica/detective ha consultato le carte con pazienza certosina (un intero capitolo è dedicato agli Archivi) restituendoci nella sua interezza la figura del bandito Testalonga e la sua epoca. Un libro che non può mancare nella biblioteca di ogni studioso o semplice appassionato della nostra storia.

Salvatore Marotta



02 settembre 2018

Invito alla lettura: Il fossile vivente e la donna dai capelli color mogano

Fabiola Gravina

Gregorio Servetti è un quarantenne reduce da storie sentimentali fallite, un personaggio con rigorosi principi etici, con valori di altri tempi, "un fossile" come lui stesso si definisce, per il suo mancato adeguamento ai tempi moderni, come fosse una reliquia di generazione passata. Pur consapevole di quanto le regole di correttezza morale siano un fastidioso bagaglio, non intende rinunciarvi e la sua reazione di fronte alla volgarità è assimilabile all’infelicità, certo che gli uomini possano  aspirare a qualcosa di più nobile. Soffre per la mancanza di una famiglia propria e la necessità di sentirsi amato lo stimola alla ricerca ostinata di una persona affine che possa colmare il vuoto  avvertito nell' intimo. In questa ricerca trova l'aiuto e la complicità della barista Gina, l'accidentale destinataria delle sue confidenze.
 Tutte le mattine, nel tempo di un cappuccino, Gina ascolta perplessa le dissertazioni esistenziali dell'amico in piena crisi di mezza età, bisognoso di dare un senso all'esistenza e proprio nel bar avviene il  fatale incontro con la donna  dai capelli color mogano,  che si siede ogni Martedì al tavolo d’angolo, con lo sguardo gonfio di malinconia.
L'intesa è immediata, perché l’inquietudine del viso di lei altro non è che una sorta di specchio dell’anima di Gregorio. La donna però scompare senza che ci sia stato il tempo di scambiare una parola e a nulla valgono le strategie inventate dall’amica barista per rintracciarla e restituire il sorriso al fedele amico sull'orlo del tracollo. La vicenda cambia registro quando la donna dai capelli color mogano e dagli occhi nocciola si presenta nuovamente nel bar, ma a sentir Gina è soltanto una copia venuta male. Sono dunque due, le donne dai capelli color mogano?  Il mistero si infittisce con il ritorno di  Manlio, amico del cuore di Gregorio.

La sua decisione di rientrare in Italia e lasciare di punto in bianco una carriera e un lavoro ben remunerato, ha forse a che fare con le due donne? Altri  personaggi arricchiscono la vicenda: la dolce Viola in cerca di un potenziale padre per i suoi figli; l'ambigua Giada che calpesta i cuori degli uomini che s’impigliano nella sua infida rete; l'opportunista Marco, emblema della disonestà e dei facili guadagni; la scaltra Katia, che impartisce lezioni su come gestire al meglio una relazione amorosa; l'eterea Estella, vecchio amore impossibile da dimenticare; lo sventurato Aquiletti, studente lacunoso alla ricerca dell'agognata promozione. Una serie di singolari eventi  porteranno il subbuglio nella monotona vita del protagonista e lo costringeranno a mettere in gioco ogni carta per portare a termine il suo piano sentimentale.  Gregorio Servetti sperimenterà sulla propria pelle la bellezza dell’innamoramento negli anni della maturità, il valore dell’onestà e della rettitudine, il dono prezioso dell’amicizia e il sapore amaro dell’inganno. Leggetelo, non vi deluderà.

Fabiola Gravina