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13 dicembre 2021

ANTONIETTA, UN RACCONTO TRA MODICA E PIETRAPERZIA - 2^ parte

 

La prima parte della giornata e le ore che precedevano e seguivano l'imbrunire erano i momenti che Antonietta prediligeva, quelli giusti da dedicare ad una attività che  amava: mettere ordine nelle cose e nei pensieri. Pietro, metodico e razionale, le aveva trasmesso questa abitudine che lei coltivava avendone sperimentato la virtù di procurarle forza e calma.

   Lui l'aveva condotta nella nuova vita con la saggezza dell'uomo maturo e la disinvoltura con cui l'aveva conquistata.

   Tutto era meravigliosamente nuovo ed eccitante : esperienze, luoghi, persone, viaggi, feste...;  le piacevano gli amici di Pietro che non nascondevano il loro incanto di fronte alla giovane venuta dal centro della Sicilia.

   Lui sapeva che la grazia naturale e la fresca bellezza di Antonietta avrebbero esercitato una seduzione irresistibile su tutti nel momento stesso in cui lei si fosse mostrata su un palco del Teatro Garibaldi o fosse entrata in una sala del Circolo Unione durante una delle serate danzanti che quel prestigioso Circolo organizzava.

E ne era segretamente compiaciuto.

   Pietro le aveva presentato i componenti della famiglia, per l'occasione riuniti nel salotto buono della grande casa. Solo figure maschili, dall'abbigliamento e modi di eleganza antica che, come le era stato anticipato , vivevano vite autonome e coltivavano interessi diversi pur vivendo tutti nello stesso palazzo di famiglia. Mantenevano tuttavia  la consuetudine della cena comune preparata e servita da domestici dall'apparente loro stessa età. 

   La ricchezza polverosa del mobilio, l'opulenza delle argenterie e la raffinatezza di parati e tappeti le facevano pensare che quella casa aveva conosciuto tempi felici   che accadimenti successivi avevano incupito. C'erano vuoti e misteri nella storia di quella famiglia su cui la mente curiosa di Antonietta avrebbe  voluto far luce.

   Era nei momenti di intimità che lei interrogava Pietro sulla sua famiglia; lui allora iniziava a raccontare delle vicende e delle circostanze che ne avevano determinato le sorti e le fortune.

Conosceva bene quelle storie per averle lette da adolescente su un libricino di memorie opera dello zio Ciccio, storico e letterato.

   Lei lo ascoltava rapita e il diletto era completo quando il teatro di quei momenti era il terrazzo della casa a mare che si affacciava sullo splendido litorale di   Sampieri .

Continua

Armando Laurella




16 settembre 2021

LA PESTE NERA


La PESTE NERA del XIV° secolo ispirò l'affresco noto come "IL TRIONFO della MORTE", esposto alla Galleria Regionale di Palazzo Abatellis a Palermo, uno straordinario dipinto tardogotico risalente ai primi decenni del '400.

Protagonista spaventosa del dipinto è la Morte che in groppa ad un altrettanto inquietante cavallo irrompe tra nobiluomini e nobildonne, vescovi e papi, menestrelli e popolani, portando scompiglio e morte.

La peste nera precipitò sia l'Europa che il mondo islamico in un incubo senza fine, durato quasi cento anni con ondate continue di focolai che si portarono via un numero impressionante di persone. Si stima che perse la vita più della metà della popolazione europea. La Sicilia perse il 60 per cento dei suoi abitanti passando da 850 mila a 350 mila persone. Fonti dell'epoca documentano che il morbo si presentava sottoforma di patologia polmonare, si trasmetteva con il respiro e presto portava alla morte.

Tutto cominciò nel 1347 con una nave genovese in fuga dalla città commerciale di Caffa in Crimea, assediata dalle truppe mongole che vi avevano portato il morbo (sempre dall'oriente). La nave sbarcò a Messina, insieme alle mercanzie, alcuni clandestini, i topi, annidatisi nelle balle di stoffa ammassate nella stiva, che portavano le pulci della peste.

L'umanità, nel corso dei secoli, ha molte volte vissuto l'incubo delle pandemie come quella del '300 e come questa che ci è toccato vivere nei nostri anni. Ma noi, a differenza del passato, viviamo in un'epoca di grandi conquiste della scienza che ci ha messo a disposizione vaccini in grado di fronteggiare e sconfiggere il morbo.

Armando Laurella




11 settembre 2021

ANTONIETTA, UN RACCONTO TRA MODICA E PIETRAPERZIA - 1^ parte

 


In quei lunghi pomeriggi di un settembre ancora ostinatamente caldo, trovava quiete cullandosi sulla sedia a dondolo che, amorevolmente, il marito le aveva sistemato sulla grande terrazza che dominava la piatta e ordinata campagna modicana, così diversa da quella aspra e gibbosa dei luoghi dove aveva vissuto gli anni felici dell'infanzia e dell'adolescenza.

Le procurava piacere riandare a quei giorni, la famiglia e la grande casa con gli alti magazzini al piano terreno ricolmi di grano, il suo paese nel cuore della Sicilia.

Il padre, commerciante benestante, grossista di grano e mandorle, che per lei, la piccola arrivata dopo i maschi, nutriva un’autentica predilezione che non si preoccupava di nascondere.

Don Rosario

Lei era affascinata da quel padre, austero con tutti tranne che con lei, alto, bello, autorevole, elegante, con i pollici sempre nei taschini del panciotto, don Rusà (Rosario). Lo ricorda con lo sguardo severo e vigile quando, proprio sul finire dell'estate, organizzava il lavoro dei mezzadri per la raccolta e la successiva lavorazione delle mandorle. Il lavoro che consisteva nel liberare il frutto dal guscio per ottenere la ndrita, avveniva intorno ad una lunga tavolata all'ombra del grande noce al centro del cortile nel casale di campagna. A lei che partecipava con i cuginetti, fino al calare del sole, sembrava un grande gioco. Ricordava la soddisfazione del padre nel prendersi cura della vigna e conservava nelle narici il profumo dolce del succo dell'uva appena spremuta con la pressa che aveva spedito da Roma lo zio ufficiale dell'esercito.

La mamma, discreta e frugale, che entrava in ansia quando arrivavano i telegrammi dell'agente di Catania che comunicava le oscillazioni dei valori di mercato della ndrita, le mandorle sgusciate, al punto che il marito la invitò con fermezza a non leggerli.

I fratelli che delusero le attese del padre per la precoce indisponibilità a proseguire negli studi, ma che rivelarono talenti diversi da quelli auspicati che li portarono presto lontani da casa.

Giuliano, il grande, aveva frequentato da piccolo la sartoria di un lontano parente mostrando vera passione per quell'arte al punto che il fratello del padre, l'ufficiale, lo portò con sé a Roma dove intraprese una fortunata carriera di sarto alla moda. La sua sartoria era frequentata da esponenti della buona società romana e da qualche importante gerarca dell'allora regime fascista. Tutti gli anni, al cambiare delle stagioni, arrivavano da Roma per il padre paltò e vestiti.

Il piccolo, Emilio, spirito guascone, refrattario ad ogni disciplina, si rese protagonista, insieme ad un suo compare, di scherzi feroci ai danni di malcapitati, che a quanto pare li meritavano, e che furono a lungo argomento spassoso nelle chiacchiere dei paesani. Ancora minorenne scappò da casa per andare a combattere come volontario in qualcuna delle guerre di Mussolini in Africa, lasciando nella costernazione la madre.

E poi arrivò lui, da un'altra parte della Sicilia, veniva per contrattare con il padre l'acquisto di una importante partita di grano o qualcosa del genere.

Se Rosario avesse immaginato lo scompiglio che l'arrivo di quel giovane dinoccolato modicano avrebbe prodotto nella famiglia, avrebbe evitato di invitarlo a cena e presentargli Antonietta.

Fu amore, come si dice, a prima vista e quando, dopo solo qualche settimana, il commerciante tornò per dichiarare le proprie intenzioni all'esterrefatto don Rosario, facendo seguire il consistente elenco dei beni di cui disponeva nella, poi non così lontana, Modica, l'adesione della giovanissima Antonietta fu entusiasta ed immediata.

Andò a vivere in quella casa grande e bella con quel terrazzo che si affacciava su una campagna piatta e ordinata, così diversa da quella aspra e gibbosa della sua terra natale, ma in fondo altrettanto bella.

Armando Laurella





10 aprile 2021

Le ville della Principessa Deliella

   
 Bella e opulenta la fattoria di Kamitrici fu testimone delle sfortunate vicende vissute dalla signora che fu "Domina" di quelle terre. 
 Nela mia ricostruzione grafica una delle tre giovani donne che passeggiano nel cortile del grande edificio è Lei: Annetta (o Anita) Brigida Filippa Drogo, nata a Pietraperzia il 4 ottobre del 1875, ignara, ancora, della sorte sfortunata a cui la destinò l'ambizione del padre.
 Lui Rocco Drogo, uno dei più ricchi proprietari terrieri della Sicilia - possedeva sette feudi -, come il don Calogero Sedara del "Gattopardo" di Tomasi di Lampedusa, per amore del titolo nobiliare diede in sposa la sua unica figlia Anita ad un principe di antichissimo lignaggio, Nicolò Lanza di Scalea. 
 Costui, consumate le nozze, riprese le sue abitudini di individuo vizioso e privo di scrupoli e condusse la sua vita lontano dalla moglie che continuò a mantenerlo con un generoso appannaggio.
 Anita, poco più che ventenne, rimase sola e ricchissima, viaggiò molto e fece molte opere caritatevoli in particolare in favore di giovani orfane. Il suo nome resta legato ad una vicenda di miserabile speculazione edilizia che portò alla distruzione di un gioiello architettonico voluto e realizzato a Palermo dalla Principessa.
 La Palermo di fine '800 stava vivendo la sua “Belle Époque”, la Palermo Felix dei Florio, capace di organizzare una memorabile Esposizione Nazionale nel 1891, la prima del sud Italia, grazie ad una borghesia ricca e colta che costruiva le sue residenze lungo il Viale della Libertà, allora il più bel viale d'Europa, secondo il gusto elegante e raffinato dell'epoca, lo stile Liberty.
 La gemma più preziosa di quel viale la realizzò Lei, la principessa Deliella.
  Villa Deliella a Palermo, fu progettata nel 1898 da Ernesto Basile (l'architetto del Teatro Massimo), costruita da Salvatore Rutelli ed arredata dallo studio Ducrot, quello che arredava le dimore dello Zar. I lavori vennero completati nel 1907. 
 Di quella perla in piazza Francesco Crispi, unica per grazia ed equilibrio di forme, rimangono solo vecchie fotografie che vidi negli anni dei miei studi di architettura a Palermo e che ritraggono anche gli interni degni di una dimora reale. 
 Nel 1959 - Anita era morta da dieci anni di leucemia - con lo  sciagurato accordo dell'ultimo proprietario Franco Lanza di Scalea, l'immobile venne abbattuto in una sola notte.
 Erano gli anni del "sacco di Palermo", l'oltraggio del malaffare alla città dei Ciancimino, Lima e mafiosi vari.
 La Sovrintendenza arrivò, tardi, e bloccò la costruzione di un altro vile condominio, ma il danno era stato consumato, la bellezza perduta per sempre. 
 Oggi a piazza Croci rimane un vuoto osceno, un parcheggio con annesso lavaggio, il Nulla.
 Non ebbe fortuna, la principessa, neanche con i suoi compaesani che la definirono con epiteto cinico "la principessa villana". 
  Eppure Deliella, tornata nel suo mondo rurale dopo gli anni della mondanità palermitana, si mostrò generosa con la sua comunità. Le sue volontà testamentarie furono munifiche in particolare con le istituzioni religiose. 
 Dotò la Chiesa Madre di un cospicuo lascito di terre dopo averne finanziata l'illuminazione elettrica. Alle Ancella Riparatrici, che aveva invitato a Pietraperzia perché si occupassero delle orfanelle, lasciò il grande edificio di via Castello (oggi via Principessa Deliella), dotandolo anch'esso di terre per il sostentamento, perché divenisse sede del loro istituto. 
 La piazza Vittorio Emanuele deve gran parte del suo decoro al bel palazzo gentile che Deliella fece costruire sui disegni di equilibrata ispirazione classica dell'architetto Ernesto Basile, lo stesso che aveva progettato la sfortunata villa di Palermo. 
 Sarebbe interessante una rivisitazione storica della figura di Annita Drogo che staccatasi dal marito, dopo una dolorosa esperienza di vita coniugale fatta di infedeltà e contrasti, scelse di vivere da sola lontano dalla mondanità palermitana nella sua Pietraperzia.

Armando Laurella




12 marzo 2021

LA CRUCI DI SAN FRANCÌ di Armando Laurella

Chiesetta di San Francesco a Pietraperzia

Ogni comunità ha i propri luoghi sacri, di sacralità sia spirituale sia laica. 

Luoghi nei quali le comunità si riconoscono, dove si materializza la continuità tra le generazioni e si alimenta il senso di appartenenza.

Il mio disegno racconta uno di questi posti, dove svetta la grande croce di pietra sulla chiesetta di San Francesco, fra le più antiche di Pietraperzia.

Secondo studi condotti dal dottore Salvatore Palascino, presidente della Pro Loco, croci come questa venivano collocate in luoghi, generalmente periferici, fin dai primi anni del '700, da religiosi della Congregazione della Passione di Gesù Cristo. I Passionisti erano dei predicatori itineranti che nelle missioni popolari usavano radunare i fedeli, per divulgare la passione di Cristo e farla rivivere come in un film quando ancora quest’arte non era stata inventata.

 Secondo studi condotti dal dottore Salvatore Palascino, presidente della Pro Loco, croci come questa venivano collocate in luoghi, generalmente periferici, dove i religiosi della Congregazione della Passione di Gesù Cristo, fin da i primi anni del '700. Il momento colto è quello della predicazione quaresimale. I passionisti nelle missioni popolari di predicatori itineranti usavano radunare i fedeli per divulgare la passione di Cristo e farla rivivere come in un film quando ancora questa arte non era stata inventata.

Naturalmente di questi luoghi (riconoscibili per il fascino immediato che trasmettono) una comunità deve prendersi cura, conservare con interventi di manutenzione quando se ne ravveda la necessità. Quando le condizioni sono di degrado irrimediabile, l'intervento tenderà al recupero della funzione identitaria nel rispetto di forma e posizione sia pure con l'utilizzo di tecniche costruttive e materiali moderni. Non sono tollerabili interventi tesi al cambiamento della destinazione d'uso nel caso di manufatti, né l'inquinamento dei luoghi (nel caso di ambienti), con l'inserimento di elementi estranei o con l' alterazione di terre e spazi circostanti.

Queste operazioni, ahimè, sono avvenute in tempi anche recenti ai danni di manufatti e luoghi compreso quello del disegno.

Armando Laurella




04 marzo 2021

IL PALAZZO CALABRESE-DI MARTINO A MODICA

L'elegante prospettiva del corso principale della città di Modica è interrotta a sud dalla mole compatta e monumentale di un edificio che fa da elemento regolatore dello sviluppo urbano che seguì alla copertura dell'alveo del torrente e all'utilizzo, a scopo edificatorio, dei terreni liberati dagli orti.

Il palazzo, i cui lavori di edificazione iniziarono a fine '800 per concludersi nel 1903, ha la veste classica e la rigorosa simmetria dell'eclettismo architettonico Umbertino ottocentesco.

Il Pronao con la Serliana al piano nobile e l'apparato decorativo, non banale, conferiscono all'architettura l'impressione complessiva di equilibrio tra le parti e il tutto. Un’architettura decorosa e in linea con la mirabile unità di stile ed il carattere monumentale di molti degli edifici che si affacciano sul corso lungo tutto il suo percorso.

Un’autentica impresa la costruzione del palazzo, sostenuta da un considerevole impiego di risorse finanziarie ma anche da notevole dose di ambizione senza la quale imprese come queste sono impossibili.

Protagonisti dell'impresa i Calabrese, famiglia di costruttori arrivati a Modica dalla Calabria (da cui il cognome), a seguito del terremoto del 1693, attratti dalle grandi occasioni di lavoro offerte dalla ricostruzione.

Successivamente i Calabrese imparentatisi con la ricca famiglia di imprenditori Di Martino, approderanno con merito e fortuna ad una condizione di ragguardevole prosperità economica e prestigio sociale che vorranno rendere evidente con la fabbrica del palazzo di famiglia.

I Calabrese si distingueranno nel corso del secolo scorso per aver avuto fra i propri componenti uomini di autentico valore. Il letterato professore Salvatore, cultore di studi classici Greci e Latini, che insegnò nel Liceo Classico di Modica tra la fine dell'800 ed i primi anni trenta, formando generazioni di studenti provenienti anche da altre parti dell'isola richiamati dalla sua fama. I suoi figli, Francesco dall'ingegno brillante, lauree in Farmacia, Agraria e Veterinaria, che resse anche l'amministrazione cittadina come Podestà, e Luigi medico chirurgo dalle straordinarie competenze.

Quel grande edificio, posto nel cuore della città, concorrerà ancora a lungo con la sua solida eleganza alla qualità del decoro urbano di cui è ricca la città di Modica.

La mia ricostruzione grafica coglie l'edificio e gli spazi circostanti in epoca antica e precedente alle sistemazioni recenti, nel tentativo di restituire la suggestione che proviene dalle vecchie foto di edifici e delle loro storie dimenticate.

Armando Laurella