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09 gennaio 2021

Le masserie nel territorio di Pietraperzia - Salvatore Di Gregorio

 



Le masserie raccontano una pagina importante della nostra storia ed ancora segnano, con la loro presenza, il paesaggio rurale siciliano.

Non semplici dimore di campagna ma strutture ben più complesse che dovevano rispondere alle necessità abitative, lavorative e di convivenza di tutto quel microcosmo sociale che ruotava attorno, nei nostri territori, al sistema agricolo del latifondo.

Dunque insieme, abitazione, azienda agricola, magazzino, ricovero per uomini, raccolto, attrezzi ed animali.

Collocata al centro del feudo, distante dai centri abitati, nella masseria convivevano più famiglie, si organizzava il loro lavoro e si svolgeva anche tanta parte della vita di relazione di quelle comunità. Numerose le figure che ne animavano la vita svolgendovi la loro attività e molto rigidi erano i principi e le gerarchie che ne regolavano i rapporti.

I nobili proprietari, solo raramente si occupavano della conduzione del feudo preferendo piuttosto darlo in gabella e godersi le rendite nelle splendide residenze e nella vita sfarzosa di città.

Sicché, generalmente, è Il gabellotto il dominus di quella comunità e ad esso risponde il massaro che è la figura che sovrintende alla conduzione ed amministrazione del fondo e di tutta l’attività della masseria. Conduzione nella quale è affiancato dai campieri: gente di stretta fiducia che garantiva il mantenimento dell’ordine e del controllo padronale sulla vita e sulle attività del feudo. La forza lavoro era composta dai contadini che vi prestavano la loro opera a vario titolo: mezzadri, salariati fissi, stagionali,  misaluri, jurnatari. Fondamentale la presenza delle figure femminili che non solo disimpegnavano le tante incombenze domestiche essenziali per la vita nella masseria, ma spesso condividevano anche la fatica del lavoro nei campi.

La vita nella masseria seguiva la stagionalità del ciclo produttivo della campagna e delle sue attività, animandosi e popolandosi, in particolare, nei periodi della raccolta.

All’insieme di queste attività che vi si svolgevano e di figure che in essa operavano e convivevano, corrispondeva una peculiare conformazione costruttiva della masseria che, nella sua struttura più tipica, contemplava generalmente un ampio caseggiato chiuso verso, l’esterno da un alto muro perimetrale che delimitava un cortile interno centrale sul quale si affacciavano gli edifici adibiti ad abitazione, a magazzini per i prodotti, gli attrezzi e le stalle. In qualche caso, un secondo piano di costruzione ospitava le abitazioni del proprietario o del gabellotto che, tuttavia, solo occasionalmente, in genere nei periodi di raccolta, dimoravano in masseria.

La vita e le attività nella masseria siciliana sono state narrate magistralmente dalla grande letteratura siciliana del XIX secolo; per tutte, la Masseria di Margitello e la sua tenuta che furono lo scenario delle malefatte del Marchese di Roccaverdina fino al loro tragico epilogo o la masseria di Mangalavite, pupilla degli occhi di mastro don Gesualdo che vi riparò famiglia e parentado per sottrarli all’epidemia di colera che imperversò in Sicilia nel 1837.

In una masseria, Il poeta e scrittore pietrino Giovanni Giarrizzo ambientò il suo dramma Un coccio di verità. In essa si consumano le vicende narrate dall’autore e si muovono quegli stessi personaggi che, così come nella realtà, animano la vita della masseria: i proprietari, i massari, i contadini e le loro famiglie.

Uno degli episodi più significativi del romanzo Piccola pretura (di Giuseppe Guido Lo Schiavo che fu Pretore a Barrafranca tra il 1921 ed il 1922) si svolge nella Masseria del Conte che l’autore colloca in una contrada non discosta dai centri di Barrafranca e Pietraperzia e così ne descrive la struttura “era una specie di fortilizio in mezzo alla bonifica: un alto muro di cinta, grosso e spesso come un bastione, cingeva il vasto cortile. A levante si apriva la porta, enorme, rinforzata da bande ferrate e da puntelli: unico accesso controllato all’edificio. Agli altri tre lati erano addossati i magazzini, la casa padronale, gli appartamenti dei guardiani, le scuderie, le stalle. Feritoie occhieggiavano in alto, esternamente, dal chiuso recinto”.

La crisi del modello produttivo del latifondo, al quale la masseria era intimamente legata, è tra le cause del suo progressivo, inesorabile decadimento. Alcune di quelle strutture, nel tempo, si sono convertite a nuova vita adattandosi a ruoli e utilizzazioni differenti; più spesso hanno subito l’onta del degrado e dell’abbandono.



In giro per il nostro territorio ci si può imbattere in queste imponenti costruzioni; giganti del passato, spesso malamente sopravvissuti ma pur sempre testimoni potenti e custodi della nostra identità. A questa realtà le tavole disegnate da Armando Laurella vogliono restituire il fascino della memoria e mostrarne una intensità di vita che solo l’arte può sottrarre alla inesorabile usura del tempo.

Salvatore Di Gregorio



 

06 maggio 2019

Via 4 Novembre e dintorni: La famiglia Rabita - 3^ Parte




Tra tutti i nostri vicini di casa ai quali si è accennato, la persona con cui la mamma si trovò più in sintonia fu la signora Giuseppina Aiesi, moglie di don Filippo Rabita. Tra lei e la signora Giuseppina fu subito simpatia reciproca; nel tempo si stabilì tra di loro una perfetta intesa che si consolidò in rapporto di stretta e duratura amicizia che coinvolse entrambe le famiglie. Nella signora Aiesi Rabita, di lei più anziana, la mamma, giovane sposa e già mamma poco più che ventenne, trovò una consigliera e un’interlocutrice ideale. La signora sua omonima trovò nella mamma un’allieva intelligente e intuitiva. Non erano necessarie fra le due molte parole per intendersi, si comprendevano con lo sguardo. Persone entrambe schiette, genuine e disponibili alla collaborazione, davano ai rapporti e alle cose peso e valore appropriati; dotate di una certa giovialità e senso dell’umorismo, sapevano cogliere l’aspetto comico delle situazioni. «La signora Rabita fu la prima ad apprendere della mia nascita», racconta Maria, «la mattina della domenica di quel 29 giugno, quando alla signora Aiesi, affacciatasi alla sua finestra di via Rosolino Pilo per chiamare mamma - si erano intese il giorno prima per andare insieme a messa - la nonna Maria Cava comunicò che, nella notte, ero nata io». Don Filippo Rabita aveva il suo laboratorio dietro la chiesa del Rosario, in via Fenice (ora Don Minzoni); vi esercitava l’arte assieme al fratello Liborio e ai propri due figli. Appena svoltato l’angolo, da piazza Matteotti, già si sentiva il rumore degli attrezzi in funzione e si avvertiva l’odore della polvere del legno, sempre più penetrante man mano che ci si avvicinava. All’interno del locale, si notavano, appoggiate alla parete di fronte all’entrata, assi di legno di vario tipo e di diverso spessore che toccavano quasi il soffitto; rastrelliere piene di attrezzi, righe e squadre pendevano dalla parete di destra, per lo più occupata da pezzi di mobili in costruzione. Addossate alla parete di sinistra e sostenute, su tre piani, da robusti spuntoni sporgenti, si intravedevano, benché fossero coperte da un telone grigio, casse dalla forma inquietante. Tra le casse e l’angolo sinistro di fondo stava il tornio. Due solidi banconi, con ampi incavi sui piani da lavoro e terminanti con grosse morse, erano sistemati perpendicolarmente alla parete di fondo. I Rabita costruivano ogni genere di mobile; seri e puntuali, godevano di un vasto numero di clienti. «Io però mi ci recavo», dice Salvatore, «soprattutto per farmi costruire
li rrummula: appena venivo in possesso del tronchetto di ulivo, correvo da don Filippo, sicuro e fiducioso, e lo osservavo mentre, tra una pausa e l’altra di lavori più seri, sistemato al tornio il pezzo di legno, lo sgrossava da una parte e dall’altra e lo rifiniva per dare all’oggetto la grandezza e la forma desiderata. Grazie a lui si potevano infatti ottenere, passione di tutti noi ragazzi, trottole personalizzate, della fattura che si voleva, tornite ed eleganti, dei veri prodotti artistici, ben diverse dalla rozze e grossolane trottole, tutte uguali, che si compravano alle bancarelle del mercato o al negozio di Magliocca. Peccato non averne conservata neppure una. Alla sua bravura nel lavorare il legno», prosegue Salvatore, «don Filippo univa molta bontà e pazienza; parlava sempre in modo calmo e pacato; mi spiegava, rispondendo a certe domande che, incoraggiato dalla conoscenza, osavo rivolgergli, che il bancone da lavoro del suo laboratorio era costruito con un legno americano, «forti cumu lu firru, lu piscipagnu» (pitch-pine), che il rumore lacerante che si sentiva mentre veniva segato era il lamento del legno, perché «anchi lu lignu soffri, cumu li cristiani».

«Impossibile per me», dice Maria, «dimenticare la figura di don Filippo Rabita. Me la ricorda costantemente un piccolo mobile che, posto in bella vista, adorna tra gli altri l’entrata della mia casa a Torino. Si tratta di un comò in miniatura stile ‘800, che don Filippo mi regalò quando ero ancora bambina. È un modellino alto 45 cm per cm 38 di larghezza, con i piedini a cipolla, le colonnine laterali tornite a bottiglietta, cinque cassettini estraibili, due piccoli superiori e tre grandi inferiori. Lu cantaraniddu, posto in un angolo del laboratorio e coperto di polvere, aveva attirato la mia attenzione una volta che, per caso, avevo accompagnato papà alla falegnameria Rabita, e me ne ero innamorata. A lungo lo avevo ammirato e desiderato! Quando mi capitava di transitare dalle parti di Piazza Matteotti, mi avvicinavo al laboratorio, entravo, mi accostavo al mobiletto, lo spolveravo, lo fissavo, uscivo col piccolo comò che mi ballava davanti agli occhi. Don Filippo intuiva il mio desiderio, ma restava apparentemente indifferente: mi fece patire un po’, forse il mobiletto gli ricordava suo padre, l’artefice, e non voleva separarsene. Ma “il miracolo” avvenne. Il giorno in cui si compì, don Filippo mi disse: “Maria, eccolo, è tuo, ma, mi raccomando, tienilo bene”! In quel momento il cuore mi batteva forte dalla gioia! A casa lo tenni sempre vicino a me. Un giorno a scuola ne decantai i pregi e le bellezze in un componimento che la maestra ci aveva assegnato:”Parla di un oggetto a te caro”. Quando mi sposai e dovetti trasferirmi a Torino lo lasciai in paese sicura che sarebbe stato ben custodito, ma col pensiero di fargli attraversare lo stretto il prima possibile. A qualche aspirante la mamma ripeteva “è di Maria, non si tocca!”. Dovevano passare diversi anni prima di avere il mobiletto di nuovo con me. Accadde quando mia sorella Michela, venduta la bella casa di via Principessa Deliella, portò su i mobili che costituivano per noi oggetti di maggior pregio, soprattutto dal punto di vista affettivo, alcuni dei quali portavano i segni di nostri interventi impropri. Tra essi, accuratamente impacchettato, il mio “giocattolo” finalmente partì da Pietraperzia per la sua nuova dimora. Giunto a Torino fu portato da un restauratore che, con una modesta spesa, ridiede al mobiletto il suo originale splendore. Ora il piccolo comò, posto in bella vista, adorna tra gli altri mobili l’entrata della mia casa; lo sposto secondo l’inclinazione del momento, ma sempre negli angoli più in vista. Passa il tempo e inesorabile lascia su tutti noi le sue tracce, ma lui, lu cantaraniddu, non registra il fenomeno: sempre più bello, lui sì è sempre come fosse appena nato».

L’amicizia tra le due famiglie si consolidò col tempo e continuò, senza mai uno screzio o una semplice incomprensione, anche quando i Rabita lasciarono la casa di via 4 Novembre e si trasferirono in Via San Giuseppe. Scomparsi don Filippo e donna Giuseppina, l’amicizia è proseguita soprattutto con Giuseppe Rabita, che ci aveva visto nascere e fatto giocare nei nostri primi anni di vita. «Nel mio album delle fotografie», dice Maria, «una ne conservo, scattata nell’occasione del passaggio di un fotografo ambulante dalla via 4 Novembre: sono seduta su un tavolo ricoperto da un tappeto di ciniglia; accanto al tavolo, sul cavallino a dondolo, mio fratello con il boccolo ben ordinato. Tutte le volte che ci incontriamo, Peppino non manca di ricordarmi quell’episodio: egli, nascosto dietro il tappeto, mi sostenne con una mano per paura che cadessi all’indietro. Non avevo ancora un anno, mio fratello ne aveva circa tre». Peppino ha continuato ad esercitare l’arte del padre, con le stesse competenza e abilità, sino alla pensione. Era una sua specialità la costruzione delle persiane con le gelosie movibili, cosa che richiede precisione e pazienza. Il nostro rapporto è stato, ed è, caratterizzato dagli stessi sentimenti di sincerità, schiettezza e di stima reciproca oltre che da vicendevole aiuto in momenti di difficoltà, come capita a tutti nella vita. Per noi è rimasto “cumpari Pippinu”, come erano soliti chiamarsi con papà e mamma, così come “Cummari Maria” mamma chiamò sempre la sua signora (Maria Marotta) quando Peppino si sposò. Fu lui che ci accolse per primo in Piazza Vittorio Emanuele, il 18 agosto del 2005, quando tornammo in Sicilia dopo venticinque anni di assenza, con la stessa premura con cui accoglieva mamma e Michela, quando, quasi ogni anno, d’estate, tornavano al paese. Assieme a lui facemmo il giro del cimitero, fermandoci, dopo la visita ai nostri cari, a ricordare, davanti alle loro tombe, parenti, conoscenti e amici scomparsi. Per tutta la mattinata visitammo i luoghi del paese, ricordandoci vicendevolmente gli eventi e i momenti che avevano visto vicine le nostre famiglie.

Alla sua abilità di artigiano del legno, Peppino Rabita associava una grande passione per il ballo, una passione incontenibile: dotato di grande sensibilità musicale e di una naturale attitudine, non c’era musica che non sapesse immediatamente, e senza alcuna difficoltà, ispirargli i passi da compiere e le figurazioni da assumere. Ballare lo appagava, niente gli dava maggiore soddisfazione. Di sentimenti romantici ed animo di poeta, esprimeva nel ballo l’autenticità della sua natura. Amava ballare il valzer, il tango, la polka e tutti i balli classici della tradizione, ma ballava anche, con la massima disinvoltura, i nuovi balli, latino-americani, afro-cubani, man mano che venivano importati nel nostro paese; il ritmo del bughi-bughi (Boogie-Woogie), del samba, del charleston gli mettevano addosso una forte carica di entusiasmo. Il periodo dell’anno che preferiva era quello del carnevale, durante il quale poteva dare sfogo alla sua passione dominante. Assieme alla sorella Piera, anch’essa abile ballerina, giravano per le vie del paese, vestiti in maschera, chiedendo un ballo nelle case dove si tenevano serate danzanti. Vederli ballare faceva pensare a Fred Astaire e Ginger Rogers, la celebre coppia di ballerini americani. Erano subito riconosciuti perché era nota in paese questa loro predilezione; sempre applauditi e invitati a restare, accettavano di fare un altro ballo, ma raramente si fermavano. Era come se avessero una missione da compiere: essere i testimonial della danza. Anche il fratello Vincenzo era portato per la musica, suonava ottimamente la fisarmonica ed era un bravo ballerino: quando si sposò con Anita Cutaia, figlia di don Arfonziju Cutaija, impiegato comunale, le coppie diventarono due. Fu questa attitudine che portò i due fratelli ad unirsi ad un gruppo di altri valenti suonatori e a fondare un complesso, il “Gempen”, in cui Peppino fu apprezzato batterista. L’orchestrina riscosse grande successo tra i pietrini e per molti anni allietò trattenimenti matrimoniali, feste di battesimo, serate danzanti. Quanto alla intitolazione del complesso, ”Gempen”, il significato resta un mistero, noto forse solo a qualcuno dei componenti del gruppo.

Lunga vita, compare Peppino, e grazie di questa amicizia!  

Maria e Salvatore Giordano





29 marzo 2019




Mentre riguardo sul blog di don Pino Carà “ Amici d’infanzia alla Cava”, penso agli altri momenti che hanno segnato intimamente questa mia immersione totale nel “grembo della madre”. Immancabile fu la visita, là dove riposano per sempre, alle persone care che ci avevano dato la vita, l’esempio e spianata la strada per il nostro cammino. Lo facemmo assieme con Filippo Viola, Saro e il nipote Franco nella mattinata fredda e piovosa di quel venerdì 13 aprile. La sera prima avevo salutato zia Maria Giordano e il cugino Franco, in partenza per Roma, che mi avevano aspettato per darmi le chiavi della loro casa a cui però avevo rinunciato. Con Saro Siciliano, vicini per problemi organizzativo-logistici e disponibilità di tempo, decisi a non mancare all’appuntamento, eravamo riusciti a ritagliarci sei giorni tutti per noi. Casa Siciliano ci avrebbe ospitati per quella settimana. In certi periodi della nostra giovinezza c’erano stati, tra Saro e me, momenti che “nni spartiva sulu lu sunnu di la notti,”ci divideva solo il sonno della notte; questa volta neanche quello. Ma la circostanza era segnata da un elemento di tristezza: più volte don Pino mi aveva invitato a casa sua e adesso che avevo accettato l’invito, don Pino non c’era più. Tutto però parlava di lui in quella casa, dai libri sulla scrivania e sugli scaffali, ai quadri alle pareti, al ritratto di Giovanni Paolo II in una cornice dorata, ad ogni cosa che toccavamo e usavamo: la sua caffettiera , le sue tazze, le sue posate, le sedie su cui ci sedevamo e il tavolo a cui ci accostavamo per fare colazione. Di lui ci parlavano anche i due ex ragazzi della parrocchia, Pino Carà e Giovanni Serio (che dovevo scoprire essere stato mio alunno, inizi anni ’60, durante una supplenza) che vennero a trovarci con le loro famiglie e che ci invitarono a pranzo. Spesso Saro, suo “fratello gemello” (così li chiamavano), prendeva in mano gli album (ce n’erano una decina) delle fotografie, dei fratelli , dei nipoti, delle gite parrocchiali… , che don Pino aveva con pazienza ordinato, e me le mostrava: ”questa è quando è venuto a Santena l’anno del cinquantesimo di sacerdozio…”; “ qui è quando è venuto in Italia nostro cugino dall’America…”..” Questa casa - aggiungeva - sarebbe stato desiderio di mio fratello restaurarla e metterla a disposizione dei nipoti tutti per quando avessero voluto venire a trascorrere qualche giorno al paese dei loro avi…, mi piacerebbe realizzare quel sogno”. Don Pino ricorreva continuamente nei nostri discorsi; era come se fosse con noi.
All’aeroporto di Catania, ci accolse Franco Siciliano, Ciccino, col sorriso che ha conservato sin da quando bambino raggiungeva il suo papà, da casa sua di fronte, al Circolo di cultura “V. Guarnaccia”, e ci salutava. Amico per disposizione d’animo (da tutti conosciuto, non ci sono persone in paese che egli non conosca a sua volta), Franco, benché fosse ancora lontano da li tri bbintini e ddeci, che quasi tutti della comitiva abbiamo superato, fece parte del gruppo degli “amici di sempre” - “amici per sempre” e per tutto il periodo del soggiorno fu il nostro angelo custode: ci lasciavamo la sera per ritrovarci il mattino quando lui arrivava in Via Nazario Sauro, dalla sua casa di Piazza V.E., e noi l’aspettavamo per il caffè. In tre ci muovevamo come un corpo solo e lui ne era il motore, non solo metaforicamente: sicuro e prudente nella guida, sempre pronto e premuroso, con la sua Opel stagionata risolvette ogni esigenza di spostamento dentro e fuori Pietraperzia.
Fin dalla sera del nostro arrivo al paese fummo ospiti a cena  della famiglia di Lillo e Giannina Maddalena. L’invito si estese ai giorni successivi e tutto avvenne all’insegna della più autentica sicilianità. Benché non avessimo avuto tante occasioni di frequentazione fui accolto nella loro casa e alla loro tavola come uno della famiglia e la loro ospitalità fu così immediata e serena che io mi sentii leggero, e senza disagio od imbarazzo, accettai le loro premure, come fossi a casa di fratelli. Alla gentilezza e finezza di modi la signora unisce grande perizia culinaria e furono primizie genuine e piatti tipici, preparati con gusto, quelli che ci offriva ogni giorno diversi: oltre ai tradizionali primi piatti, Pasta ccu li finucchjiddi rizzi e la muddica, anellini ccu la ricotta frisca, frittate di mazzareddi …, tutto quello che la cucina nostrana ha di meglio e di particolare, fino alla mousse di ficodindia, una specialità. Ascoltare Lillo che ci parlava con pacatezza e chiarezza era come ascoltare i discorsi di lu zi’ Peppi Maddalena, tanto il suo tono di voce e il ritmo richiamano la parlata di suo padre. Lillo, mentre ci riempiva i calici di Nero d’Avola, vantava la qualità del pane siciliano, pane di semola fatto di farina di grano duro e , ad una nostra richiesta circa il pane integrale oggi molto diffuso ci spiegava, da esperto, che dai filtri di diversa gradazione usati nella molitura del grano si ottiene la farina per il pane integrale e non dalla mescolanza di farine con crusca come è, spesso, quello in commercio. Di fronte alla coppia così affiatata, spontanea mi veniva in mente quella pillola di saggezza degli antichi “Nuddu si piglia si nun s’assumiglia.
I momenti in cui mi allontanai dal gruppo fu per rispondere ad altre esigenze affettive che mi chiamavano. Parenti stretti, altri amici, i miei figliocci. La dolcezza e l’amabilità di quegli incontri conservo nel mio petto. Una capatina in solitaria, non potei esimermi dal fare in via 4 novembre, (ma la curiosità mi spinse anche nelle adiacenti “vie dell’infanzia”) che attraversai per tutta la sua lunghezza dalla via La Masa all’incrocio con la discesa Rosolino Pilo; unico e solo passante con i miei pensieri le attraversai quel pomeriggio. Fu grazie a Biagio Messina (da quando ci siamo ritrovati, nel 2005, considero Biagio e la sua sposa Filippina miei figli adottivi e mia nipotina la piccola Sara), che riuscii, dopo il pranzo di San Vincenzo, ad andare a trovare, ad Enna, don Filippo Marotta, nella sua Parrocchia di San Tommaso Apostolo, che ancora non conoscevo. Lo ringrazio pubblicamente per l’interessante “Antologia delle tradizioni popolari, degli usi e dei costumi, delle espressioni dialettali e degli autori di opere in vernacolo di Pietraperzia” che ci ha regalato.
La mattina di martedì 17 aprile, pronti per ripartire, mentre Franco al furgoncino di un ortolano che sostava all’incrocio di via Stefano Di Blasi con via Sabotino, stava comprando mazzareddi e cicoria di campagna da portare alla sua mamma a Catania, avemmo la fortunata occasione di salutare ancora una volta i coniugi Maddalena che tornavano già dalla campagna e Peppino Rabita che invece vi si stava recando. All'aeroporto di Catania, l’aereo della Wind-jet che da Torino ci aveva fatto partire dopo due ore e più dall’ora prevista, questa volta fu puntualissimo. Un ritardo analogo sarebbe stato oltremodo gradito.




Ritorno nel grembo materno

(dedicata ai coniugi Giannina e Lillo Maddalena

Maestoso
si erge Mongibello
e spande sulla piana riflessi azzurrini.
Balsamo al mio cuore
attorno si diffonde
l’aroma di zagara e di eucalipto
di questa terra di miti.
Mi accoglie
con l’abbraccio di vecchia nutrice
la puntara di li Minniti;
vigile mi sorride la rocca di Petra.

Le strade che percorro
ancora conservano impronte.
che non ignoro,
facile si aprono un varco
e prendono corpo
echi di ricordi lontani.
Rivivono atmosfere passate
nelle oneste premure degli ospiti
e in queste nostrane primizie
con cui fanno tutt’uno:
frutto di avita cultura.





13 marzo 2019

Una grande rimpatriata



Mentre dal trenino della linea Lanzo- Ciriè-Torino, che mi riporta a casa dall'aeroporto di Caselle dopo il soggiorno a Pietraperzia, vedo in lontananza la famosa Basilica che si erge sulla collina di Superga, ho la sensazione di non avere mai fatto questo viaggio. Eppure, anche se per lo spazio di un più lungo week-end, ero stato al mio paese, rivisto gli amici e i luoghi dei primi affetti. Pochi giorni volati come un lampo, ma ne ritornavo gratificato e arricchito. Com'è strano, pensavo: quando eravamo bambini e non vedevamo l’ora che arrivasse il giorno della realizzazione di una promessa fattaci, ci sembrava che il tempo non passasse mai; ora abbiamo l’impressione che una cosa, un progetto, un evento l’hai appena immaginati che sono già realizzati e passati… e la cosa ti lascia l’amaro in bocca. “Presto giunge e passa il dì festivo”. Man mano che gli anni avanzano ci si rende conto che nel troppo breve spazio di tempo che ci è concesso dobbiamo cercare di concentrare un ampio spazio di aspettativa e di speranza: vivere intensamente in una settimana la vita di un anno. Così è stato per questa grande rimpatriata. Programmata e organizzata da Giovanni Culmone l’idea era stata accolta con entusiasmo da tutti, quanti parecchi anni addietro eravamo stati compagni di giochi, di scuola, di collegio o di istituto scolastico, colleghi, …legati comunque da amicizia. Tutti avvertivamo il bisogno di rivederci, più volte ce l’eravamo detto nelle ricorrenti telefonate, aspettavamo che qualcuno di noi prendesse un’iniziativa stringente. Così quando ci arrivò la email o la telefonata di Giovanni l’invito suonò come una “proposta che non si poteva rifiutare”. L’adesione fu immediata in qualunque posto d’Italia ci trovassimo, nelle più vicine città della Sicilia, in Lombardia, in Piemonte o a Cividale del Friuli. Arrivammo alla spicciolata. Alcuni, considerando che la data programmata per l’incontro capitava pochi giorni dopo le feste pasquali, giunsero al paese prima del venerdì santo per partecipare alla processione di “Lu Signuri di li fasci” e alle altre, non meno suggestive, che completano le solenni celebrazioni della Pasqua pietrina; altri il giorno prima della data prevista, altri ancora lo stesso giorno per trascorrere anche solo poche ore con gli amici e ritornare la sera stessa al luogo di residenza; con alcuni, dei quali le circostanze non furono favorevoli alla partenza, condividemmo la delusione di rimandare ad altra occasione il piacere di rivederci.
“L’adunata generale” era prevista sul sagrato del Santuario della Madonna della Cava ma a causa del pomeriggio freddo e ventoso gli incontri avvennero per lo più all'interno del santuario e in sacrestia. Gaetano Milino, mano a mano che entravamo in chiesa, andava registrando i nostri nomi sul suo taccuino di reporter. Fu affettuoso ed emozionante l’abbraccio tra chi non si vedeva da più di cinquant'anni. In qualche caso il riconoscimento non fu immediato ma, superato il dubbio grazie all'accenno di un minimo indizio, fu motivo di un ulteriore più sentito abbraccio. La lontananza e il tempo se avevano in parte modificato qualche tratto del viso non avevano affievolito, anzi rinforzato, il reciproco affetto. La Santa Messa, celebrata da monsignore G. Bongiovanni, anche lui uno di noi, fu seguita con raccoglimento e partecipazione. Letta per tutti da Giovanni Culmone, con grande commozione facemmo nostra la preghiera alla Madonna della Cava, del compianto Angelo Giadone, in cui non mancava il ricordo degli amici che ci hanno preceduto nella casa del Signore. Attraverso la strada tra gli uliveti raggiungemmo, dopo la Messa, la villa di Lillo Speciale dove, a gruppetti intercambiabili, proseguivano tra gli “amici di sempre” i racconti vicendevoli di eventi della vita e la presentazione delle signore di alcune delle quali se ne erano, molti anni prima, conosciuti i nomi dai biglietti di partecipazione al matrimonio. Mentre i padroni di casa si prodigavano a servire stuzzichini, tartine, brut dolci e strasecchi, aperitivi vari e grappe invecchiate, Filippo Viola ci divertiva raccontandoci episodi curiosi del tipico ambiente popolare palermitano che trasformava in vere e proprie barzellette. Filippo ci ricordava anche che cu veni a lu pajisi e nun-parla pirzisi, cci perdi la facci e cci appizza li spisi”. Lasciata Villa Speciale la compagnia si trasferì al Belvedere, nella parte alta del paese dove un ampio spazio, una volta sede di sterpaglie e dirupi, era stato trasformato in passeggiata panoramica che amplia e valorizza l’area turistica del Castello. Il Belvedere si affaccia, infatti, sulla Riserva Naturale della Valle dell’Imera (territori di Caltanissetta Enna e Pietraperzia) tra le più importanti della Sicilia, e ne consente una splendida vista. Il freddo qui era più intenso che nella Pietraperzia Bassa. Solo un’occhiata rapida potemmo rivolgere verso le luci accese di Caltanissetta per rifugiarci all'interno del locale ristorante dove eravamo attesi per la cena conviviale. Per il gruppo della storica rimpatriata il menu appositamente preparato prevedeva pietanze delle tradizioni culinarie pietrine; sensazioni di tempi passati evocavano soprattutto i primi piatti: cavati ccu li finucchjiddi rizzi e la ricotta frisca, pasta ccu li favi nuveddi…   Il vento nordico che spirava all'esterno non era avvertito all'interno dove il calore della gioia di stare insieme era palpabile. Nel corso della cena Gino Palascino volle informarci su come, durante uno dei suoi mandati di sindaco, era sorto il Belvedere. Interpretando, con una certa forzatura, come larvata disponibilità al finanziamento alcune parole del ministro dei LLPP dell’epoca, Prandini, in visita a Pietraperzia, egli era riuscito ad ottenerne una esplicita promessa, poi mantenuta, che aveva consentito la realizzazione dell’opera. Gianni Culmone, entusiasta per la riuscita della sua iniziativa, ringraziava tutti e per rimarcare il carattere di piena “pirzisità” dell’evento invitava gli autori, Filippo Viola e Salvatore Giordano, a recitare le due poesie in dialetto “Lu torcicuddu” e “Littra a lu me pajisi”. Ci si salutò all'interno del locale, alcuni dovevano fare ritorno in serata al luogo di residenza, Catania, Enna, Caltanissetta, tra tutti la promessa di non far trascorrere più tanto tempo al prossimo incontro. 


Salvatore Giordano





I nomi dei partecipanti alla rimpatriata :
Giuseppe Bonaffini, Antonino Calì, Rosaria Candolfo, Francesca Cilano, Giovanni Culmone, Diego Di Marco, Filippina Emma, Giuseppe Fallica, Filippo Falzone (alias Alberto Adamo), Totò Falzone, Maurizio Fiandaca, Lilia Filetto, Concetta Giglio,
Salvatore Giordano, Gisella Lamia, Antonietta Lipani, Costanza Messina, Filippo Messina, Enzo Paci, Vincenzo Paci, Luigino Palascino, Isabella Panevino, Ciccino Siciliano, Rosario Siciliano, Lillo Speciale, Filippo Viola, Pino Viola, Vincenzo Viola, Francesco Zappulla, Maria Zappulla, Salvatore Zappulla.
Il ringraziamento di Culmone agli amici è stato esteso “come se fossero presenti”, ai cappuccini:
Padre Gaudenzio, Padre Celestino e Padre Cosimo.




01 marzo 2019

PIETRAPERZIA NEL PALLONE


Non esisteva altro che il calcio: "LU PALLUNI". Il termine calcio non aveva ancora passato lo stretto, non c'era la TV e la radio si ascoltava poco. Parlo di fine anni 50. A quei tempi, la domenica, come tanti, andavo con mio padre a vedere la partita. Molti andavano al cinema. Il campo sportivo non era chiuso, non c'era la tribuna e non c'erano nemmeno gli spogliatoi.


Tutti i calciatori, si spogliavano sotto la tettoia d'ingresso “di lu consorziu", attuale Giaconia. L'arbitro con un fischio serrato, guidava le due formazioni al centro del campo. Non essendo recintato, uomini, donne e bambini, formavano un cordone a bordo campo si può dire che delimitavano il campo stesso. L'immancabile presenza dei carabinieri assicurava giocatori e spettatori da eventuali risse. Spesso, dentro e fuori dal campo, l'agonismo e il protagonismo sfociavano in risse furibonde, che a me, bambino incutevano paura. C'erano  anche momenti che si rideva molto, specialmente quando qualcuno non colpiva bene la palla o quando in molti ruzzolavano a terra in una mischia.
Pronti ... via. Ha inizio l'incontro... Ricordo bene, in mezzo agli altri, un giocatore dalla stazza fisica particolare. Non alto, non snello, anzi! Giocava titolare, nel ruolo di terzino destro, allora ogni giocatore aveva un RUOLO, oggi si gioca a ZONA... bbuhh!
Una volta iniziato l'incontro, il suo diretto avversario, che allora si definiva "ala sinistra", si può dire "ca nu si vidiva cchiú lustru ". Veniva braccato per tutto il tempo, tipo sorvegliato speciale, giocava d'anticipo e la cosa più impressionante, che stupiva tutti, era l'elevazione da terra quando colpiva di testa. Tirava più forte di testa che con i piedi. Parlo di Vincenzo Romano, "lu Villiri", che purtroppo non c'è più. Dopo anni ho avuto modo di conoscerlo meglio. Vincenzo Romano era un signore dentro e fuori dal campo.


Le cose della vita sono strane, anni fa, sono venuto in possesso di queste foto in cui è possibile vederlo in azione proprio mentre salta di testa, in posa con la squadra e col portiere Gaspare Celesti. Agile e preciso si stacca da terra e...


Enrico Tummino








16 febbraio 2019

Via 4 Novembre e dintorni: La casa – 2^ Parte


La casa di Via 4 Novembre                                                                           
La posizione della nostra casa ci offriva anche la possibilità di un altro tipo di spettacolo: dalla finestra che dava sulla discesa Rosolino Pilo, dopo fortissimi temporali vedevamo scendere, sbalorditi, grossissime piene di acqua sporca accompagnate da un rumore assordante. La piena che, partita da via Ville, si ingrossava man mano che scendeva verso il basso, ricevendo altra acqua e altra sporcizia dalle strade laterali come un fiume dai suoi affluenti, all’altezza del nostro incrocio copriva, alta una spanna, tutta la larghezza della discesa e proseguiva, ingrossandosi ancora, sino a lu Vaddùni dove, in questi casi, alcune abitazioni venivano allagate. La grossa fiumara nella sua furia trascinava a valle non solo lo sporco delle strade ma anche cufinati di ogni genere di immondizia che la gente, lungo il percorso, affidava alla piena: era abitudine diffusa, infatti, in quelle occasioni, ripulire stalle e paglialori. Di temporali se ne scatenavano di molto violenti, con lampi e tuoni da scuotere le ossa e da essere motivo di serie preoccupazioni, specie se nei periodi di raccolto. Allora vedevamo la mamma prendere la corona del rosario e recitare, con molta partecipazione, tra le altre, la preghiera che chiamava “Lu Verbu”:

Lu Verbu sacciu e lu Verbu haju a ddiri
Lu Verbu ca nni lassà nostru Signuri
Quannu acchjanà la cruci ppi muriri
ppi sarvari a nuantri piccatura.
O piccatura, o piccatrici
viditi quant’è ranni chista cruci
ca teni un vrazzu ‘n cilu e nantru ‘n terra
sinu a la vadda di Giosafat
picciddi e ranni amma essiri ddà
Scinni la Matri SSanta ccu lu libbru a li manu e chi dirà?
«Figliu li pirdunasti li Jiudija
Accussi ha ppirdunari li figliuli mija»
«Matri ji nu li puzzu pirdunari
Ca sunu tutti piccatura assai,
sanu lu Verbu e nu lu vunu diri
ntre li vampi e la pici han ‘a –ccadiri»
Cu nu lu sapi si lu fa’ nsignari.
Cu lu dici tri- bboti ‘n capizzu
Je scanzatu di trimulizzu;
Cu lu dici tri-bboti la notti
Je scanzatu di mala morti;
cu lu dici tri-bboti  a la via
l’accuppagna la Vergini Maria;
cu lu dici tri-bboti ‘n campu
je scanzatu di trona e di lampu.

Ma era spettacolo altrettanto bello, dopo la calata di la chjina, vedere l’acciottolato lucido della discesa brillare sotto il sole improvvisamente comparso. Per alcuni giorni la strada appariva pulita, ma restavano evidenti i segni del suo passaggio: sterpi, paglie, stracci appiccicati  alle grate dei dammusa e ai muri delle case.
Il crocevia Rosolino Pilo/via 4 Novembre era però compreso nell’itinerario della via di li Santi, e questo fatto, secondo la nostra percezione, gli conferiva una certa importanza. Da qui passavano tutte le processioni delle feste religiose, qui sostava, per alcuni minuti, lu Signuri di li fasci, la processione del Venerdì Santo, la più suggestiva, sentita ed emozionante del nostro paese, dopo che, svoltata da via Garibaldi, aveva percorso quel centinaio di metri di discesa sdrucciolevole prima di raggiungere il Corso Umberto[1]


A la Strataranni il percorso diventava pianeggiante e lineare, allora l’imponente corteo si snodava in tutta la sua lunghezza e si potevano contemplare in un’unica visione i tre simulacri: il colle imbiancato del calvario, lu Cravaniu, sormontato dal Crocefisso sul globo policromo, Cristo morto nell’urna e la Madonna Addolorata piangente, avvolta nel suo manto nero, portata a spalle dalle donne cattoliche, ciascuno preceduto dai devoti incappucciati delle confraternite, seguiti da bande musicali e da una moltitudine di persone in preghiera, comprese quelle delle famiglie di recente lutto.
Per il passaggio di Lu Signuri di li fasci si rendeva necessario rimuovere li curdìni, quei fili tesi da un balcone all’altro delle case di fronte, utilizzati per stendere il bucato. Era incombenza di papà slegare, qualche giorno prima del venerdì, il filo che univa trasversalmente il nostro balcone a quello di casa Nicoletti, situati ai due angoli opposti dell’incrocio; arrotolato a mo’ di grosso bracciale restava attaccato al balcone di donna Caterina per circa quindici giorni. La curdìna veniva ripristinata dopo il passaggio della processione della festa di San Vincenzo Ferreri, che veniva celebrata una settimana dopo Pasqua.
La giornata del Venerdì santo, fulcro della settimana santa, veniva vissuta a Pietraperzia secondo le tradizioni tramandateci dai nostri avi, che prevedevano il divieto di usare forbici e attrezzi taglienti, martelli e di piantare chiodi, e caratterizzata da pratiche di penitenza e mortificazione. Era consuetudine della nostra famiglia, e ad essa fummo abituati fin da bambini, osservare quel giorno il digiuno come quella di compiere, la sera del giovedì santo, il giro delle cinque chiese per la visita a li Sapurca, assieme ai nostri genitori. Ma i comportamenti di tutta la settimana erano ispirati da parte dei credenti pietrini ad una profonda mestizia, come sottolineavano le stesse preghiere di la Simana santa, che invitavano a meditare sul mistero della Passione di Cristo; preghiere che la mamma ci intonava invitandoci ad ascoltare e a ripetere con lei:

Accuminzammu di lu Santu luni,
na jurnatedda benigna e murtali.
L’armuzzi santi stanu a nghinucchiuni
prigannu nostru Ddì celestiali.
………           ………..
Si vu’ lu Paradisu o piccaturi,
ti cci’ ha addurari li so cincu chiaghi.
….   ….    ….
Di venniri murì nostru Signuri
Ntre un trunculu di crucci assai pinnenti
Tri chiova furu li primi dulura
E la cruna di spini trapungenti.[2]

Con il ritorno in paese ebbero fine le vacanze in campagna e con esse i giochi all’aria aperta: rincorrere le farfalle, stanare le lucertole, fare la marmellata schiacciando i fichi sulla mattonella, preparare i biscotti pasticciando con la farina, partecipare all’impastata del pane per farci fare da zia Mariù la fuata a ffacci di vecchia.  Cessarono le esplorazioni attorno a la puntara  in cerca di cchiappari e origano, le  arrampicate sugli alberi, la ricerca dei nidi, il perdersi nell’ammirare meravigliati, nelle ore più calde della giornata, lo spettacolo dei falchi che, libratisi nell’aria volteggiavano leggeri sullo sfondo della volta azzurrissima del cielo o si lasciavano cullare dal vento, simili ad aquiloni tenuti da un filo invisibile. Finirono anche le entusiasmanti escursioni al Salso, tutte le volte che lo zio Biagio ci portava con sé a raccogliere li pumadoru, li milinciani, li pipi e li muluna di χiauru che coltivavamo nell’orto della piana. L’invito era accolto con grida di gioia perché potevamo avvicinarci al fiume vedere l’acqua scorrere lenta pulita e trasparente, sperare di vedere sgusciare veloce qualche anguilla. Al fiume ci piaceva giocare coi grossi ciottoli neri e levigati; lucentissimi mentre erano ancora bagnati, tolti dall’acqua presto si asciugavano perdendo la loro brillantezza, e apparivano opachi e coperti da una polverina bianca. Noi ne prendevamo alcuni di varia grandezza e ce li portavamo a casa, ci attraeva la loro forma rotonda e liscia; li usavamo per schiacciare le mandorle.
Era però altrettanto appagante, in paese, andare a trovare i nonni. Tutti i pomeriggi, salvo imprevisti, eseguiti i compiti scolastici, ci trovavamo tutti a casa loro in Via Ville Superiori. Lì trovavamo le cugine Antonietta e Rocca, Totò, Maria e Vincenzina, figlie della zia Lucietta, le cui abitazioni sorgevano a poca distanza da quella dei nonni. Nonna Nina, che attendeva il nostro arrivo, aveva predisposto le tasche della sua lunga gonna nera riempiendole di leccornie, come biscottini a forma di animaletti, i famosi nnicchinnà: con gesto improvviso, che chiamava l’ammuccata, ce li cacciava in bocca al momento di salutarla; li muscardini sicchi, dolcissimi, che sgranocchiavamo con avidità. Canestrate intere di moscardini freschi e morbidi non mancavano comunque mai a casa della nonna, che ne era abilissima confezionatrice. Nelle capienti tasche del suo grembiule trovavano posto anche i ceci tostati, li ciciri callijati, che lei stessa preparava, di cui eravamo pure molto ghiotti. In una grossa padella posta sul fuoco, contenente già della sabbia di fiume, metteva i ceci sbollentati che, a contatto con la sabbia sempre più calda, man mano che la nonna li rigirava con un lungo cucchiaio di legno, prendevano quel colore tipico tra il bianco e l’avana. Quando, a suo parere, i ceci avevano preso la giusta tonalità, versava il contenuto della padella in un setaccio e, fatta cadere la sabbia, restavano i ceci tostati, coloriti e friabili, che travasava in un panierino di paglia intrecciata, con il fondo ormai sfilacciato e bruciacchiato. I ceci ci piacevano anche verdi; grosse bracciate di piante con i semi attaccati ne portava tante volte lo zio Francesco dalla campagna. Ceci tostati venivano venduti sulle bancarelle della frutta secca, soprattutto nel periodo natalizio, ma non avevano niente a che vedere con la friabilità, la freschezza e la bontà di quelli preparati dalla nonna. Ancora oggi i ceci tostati si trovano anche nei mercati rionali di Torino, in sacchetti o sfusi venduti a peso: «Quando vado al mercato» dice Maria «mi lascio attirare e ne prendo qualche bustina, li offro alle mie sorelle e agli amici che vengono a trovarmi e che volentieri li accettano come occasione di ritorno a vecchie sensazioni e ad allegri e nostalgici commenti».
Andando dalla nonna conoscemmo molte persone che non sapevamo fossero nostri parenti. Di parenti i nonni ne avevano tanti, sparsi nei diversi quartieri del paese; in molti venivano a trovarli di proposito o passavano a salutarli trovandosi nei dintorni di via Ville Superiori per i loro affari. Se ci fosse stato un dubbio su qualche persona di cui si stava parlando, la nonna lo risolveva subito: la persona in causa era ma cuscina Giuannina o ma niputi Cuncittina o ma cummari Filippa. E se uscivamo con lei era la stessa cosa, tutte le persone che incontravamo la salutavano: bongiornu cuscina Nì o  ssa bbanadica zi’ Nì, se era una persona giovane; e magari si fermavano a raccontarsi le ultime reciproche vicende familiari. Ed io spesso, continua Maria:
- «Ma mamma Nì, cu jera ssa fimmina ca t’ha ssalutato ora ora?»
- «Bbi’ Mariuzzè,… ma figliozza Catarina, figlia di ma cummari Maracava la Campanedda». (continua)

Maria e Salvatore Giordano




[1] Cf.  Filippo Marotta, La Settimana Santa e la Pasqua a Pietraperzia, p. 94: nella fotografia, “lu Signori di li fasci” in processione nella discesa Rosolino Pilo, di epoca successiva ai nostri ricordi, il corteo ha raggiunto proprio il nostro incrocio. I balconi che si vedono sulla sinistra appartengono alla casa, ristrutturata, che era stata della signora Ada Callari; sulla destra i muri prospicienti il corso Umberto della casa che fu di donna Caterina Nicoletti.
La foto di Antonio Caffo in questo articolo non è la foto citata dagli autori.

[2] Quelle preghiere troviamo ora in La Settimana Santa cit., p. 131




09 febbraio 2019

La Chiesa Madre e la Cateva di Pietraperzia

Questo articolo è tratto da "Escursione Archeologica a Pietraperzia" stampato nel 1914.
L'autore, Michele Alesso, è stato uno storiografo nisseno esperto di costumi e tradizioni popolari locali. Il volume è conservato nella biblioteca Scarabelli di Caltanissetta.

ESCURSIONE ARCHEOLOGICA
A
PIETRAPERZIA


MICHELE ALESSO



La Madrice
Nella parte più elevata di Pietraperzia, in prossimità del Castello Barresio, e rivolta a mezzogiorno, sorge la chiesa madre, la cui erezione sembra rimontare alla prima metà del secolo XVI. Da una epigrafe, graffita nelle imposte, si sa che questo tempio, dedicato a Maria della Stella, fu costruito a spese del marchese Matteo Barresi, benefico signore di quella città.È abbastanza ampio e completo.




L'interno, a tre navate, nulla offre di notevole. Degno di nota v'ha il grande quadro posto sull'altare maggiore, di squisita fattura, dovuto al pennello del pittore fiorentino Filippo Paladino.
Nella tela è raffigurata l’Assunzione della Vergine, ed è probabile che sia stata dipinta fra il 1614 e il 1616(1).
Nella parte superiore della tela, in delicato atteggiamento, stanno la Vergine col Bambino, fra due vezzosi puttini, che graziosamente sorreggono una corona. Più in alto, fra un artistico intreccio di nuvole, scorgesi la figura dell'Eterno Padre.
Ai due lati della Madonna, in vaghe e gentili mosse, fan corona gruppi di angeli che suonano delicati ed armoniosi strumenti musicali, violino, arpa, mandola, mentre altri par che intonino inni di gloria e armoniosi concerti in onore della Gran Madre.
In basso, dal lato destro, si notano le figure di due Vergini Martiri: S. Agata e Santa Lucia; a sinistra stanno S. Pietro e S. Paolo. Fra le prime e le seconde figure spicca un paesaggio di sfondo.
________________
(1)  Altri quadri consimili, dello stesso pittore, si ammiravano un tempo in Caltanissetta, uno nella chiesa di S. Maria degli Angeli, rappresentante anch'esso l'Assunzione di Maria, e l' altro nella chiesa di S. Domenico, che raffigura la Vergine del Rosario. In questi ultimo leggiamo la firma dell'autore e l' anno 1615.

Di notevole Importanza, vanno ricordati alcuni frammenti architettonici con sculture, gaginiani, che si osservano, ora, appoggiati, qua o là, alle basi delle colonne di sostegno degli archi che dividono le tre navate.(1)
Questi frammenti architettonici, nel 1912, vennero osservati dall'Ufficio di Conservazione dei Monumenti, che, constatatone il valore artistico, li dichiarò d'importante interesse: per cui ora sono sottoposti alle disposizioni contenute nella legge 20 giugno 1909, n.364.
Si vuole che tali frammenti di marmo bianco costituissero, un tempo, gli architravi con le cornici e i pilastri, destinati ad adornare le tre porte d'ingresso che si aprono nel prospetto principale della Madrice, dalla parte di mezzogiorno.
Il disegno dei tre architravi risulta di un grazioso intreccio a fogliame, misto con frutti. Ciascuno di essi ha, nel centro, lo stemma barresio, spiccante fra il complesso degli adorni. Nei pilastri, sul fondo uniforme, spiccano, a bassorilievo, trofei di armi degli antichi romani: elmi, corazze, coturni, flauti, trombe, archi, mazze ferrate, guanti, lance, alabarde e fasci di verghe, che, armonizzando tra loro, nell'insieme si alternano con mazzolini di foglie e frutti, sostenuti ed intrecciati capricciosamente con un nastro serpeggiante per tutta l'estensione del pilastro.
Gli architravi misurano, ciascuno, m. 2,59 in lunghezza per m. 0,50 in larghezza. Le cornici, che sono due, hanno le dimensioni: una di m. 2,67 e l'altra di m. 1,66 in lunghezza; entrambe di m. 0,15 in larghezza.
Di pilastri completi, aventi, cioè, il capitello e la base, ve ne sono due solamente, ciascuno delle dimensioni di m. 2,80 per m. 0,30. Altri frammenti di pilastri mancano o del capitello o della base.
Monumento di relativa importanza è il sarcofago marmoreo che s'erge appoggiato alla parete, a sinistra della porta di centro. Questo sarcofago, eretto nel 1582, che chiude le spoglie di don Matteo, di donna Eleonora, madre dello stesso, e delle figlie(2), dimostra chiaramente la nobiltà e la grandezza della famiglia dominante allora in Pietraperzia.
_______________
(1) Dobbiamo alla squisita gentilezza del Can.co Salvatore Di Blasi e del Parroco can. Antonino Assennato la conoscenza di alcune notizie. A loro rendiamo sentitissime grazie.
(2) Amico V. Dizionario topografico della Sicilia, alla voce Pietraperzia.




Il sarcofago s'innalza su uno zoccolo di semplicissima architettura, senza adorni di sorta.
Su lo zoccolo poggiano le basi di quattro colonnine, alle quali stanno addossate quattro statuette, a bassorilievo, le cui figure par che rappresentino la medicina, la giustizia, la scienza e la beneficenza. La prima delle quattro statuette sorregge, nella destra, una coppa e, con la sinistra, stringe per il collo un serpente: la seconda impugna, con la destra, una spada e, nella sinistra, tiene il globo: la terza stringe, fra le braccia, una pergamena arrotolata; e la quarta, infine, versa, da un'anfora in un'altra, il liquido benefico della carità. Queste quattro figure simboleggiano, come ben si comprende, le doti di cui andavano orgogliosi i signori Barrese. Sui capitelli delle quattro colonnine, di stile dorico, poggia un'arma, adorna di ricchi bassorilievi a fiorami e disegni vari, di stile rinascimento, su cui spiccano mirabilmente due artistici serafini, che sostengono, dall'un lato e dall'altro, lo stemma inquartato delle famiglie Barrese e Valguarnera. Sulla copertura dell'urna, che fa da coperchio, si distende in posizione supina, come dormente, una figura di donna, forse donna Laura Sottile Cappello, moglie di Giovanni Antonio II, barone di Pietraperzia.
L'epigrafe, graffita nella fascia superiore dell' urna, ci fa sapere che detto sarcofago accoglie anche il corpo di donna Antonia Buxemar o Ademar, altrimenti intesa Santapau, moglie del marchese don Girolamo Barrese, e dei loro figliuoli; vi si conservano anche le spoglie dei figli di Beatrice Barrese, figlia di donna Laura, sorella di don Matteo, e sposa dl Giovanni Valguarnera, conte di Assoro. Questo ricordo marmoreo conserva altresì gli avanzi di donna Eleonora e dl donna Gerolama Barrese. In essa si legge:(1)

IVSSV ET FORTVSIS ILLVSTRIS HEROIS DON MACTHEI
BARRESII PRIMI HVIVS COGNOMINIS MARCHIONIS
EXTRVCTVM EST OPVS IN QVO CONDITVR HEROA
HEC LAVREA EIVS NATA ET EX BEATRICE
ASSORENSIVM DOMINA NATARVM ALTERA
NEPTES HIERONIMA ET LEONORA PVELLVLÆ
INSVPER ET ANTONINA BVXEMAR DNA
IPSIVS NVRVS.

________________
(1) Questa epigrafe è riportata dal PIRRO nelle Eccl. Sicil. Sacr. Cat. I lib. 3 e dal GUALTIERO nell' opera: De Antiquis Tabulis Sicilianis.

Parallelamente alla fascia superiore dell' urna, vi ha un'altra fascia inferiore, nella quale è graffita un'altra iscrizione, che ricorda il nome di donna Antonella Valguarnera, moglie di don Matteo Barrese, col quale procreò una figlia, di singolare bellezza, cui a battesimo fu dato il nome di Laura. In essa si legge:

LAVRE HIC BVSTA JACET BARRESE STIRPIS
ALVMNE. QVAM FATI INPIETAS SVBSTVLIT
ANTE DIEM. NON DAPHNIS LAVRO VATIS
NO LAVREA TVSCI. SIC CELEBRIS MAJVS
TERCIA NVMEN HABET. HEV DOLOR IN
LACRIMAS NE SOLVITE CORDA PARE(N)TES.
SI BREVIS ETERNAM CONTVLIT ARCA
DIEM BARRESIA HEC ILLVSTRIS
VIRAGO TENERIS SVB AN(N)IS ET
ADHVC VIRGO MIGRAS CONDITVR
HIC AN(N)O XPI ) MDXXXII
FORMA ET MORIBVS EGREGIIS

Chiude II sarcofago un grand'arco a sesto romano, poggiante su due mensole sostenute dai capitelli di due colonne di marmo bianco, che s' innalzano dalla base, per un'altezza di circa tre metri.
Il fronte dell'arco è adorno di fregi stile cinquecento. Sotto la volta dell'arco, che poggia alla parete, in ciascuno degli otto scomparti, (quattro da un lato e quattro dall'altro) fan risalto in bassorilievo le teste di otto cherubini, paffutelli, ed artisticamente modellati; nello scamparto di centro, anch'essa in bassorilievo, si vede una colomba raggiante, che simboleggia, probabilmente, lo Spirito Santo.
Sottostante all’arco, murato nella parete di fondo, spicca un bellissimo bassorilievo in marmo bianco, che ritrae l'effigie d'una Madonna col Bambino, cui fan bella corona un coro di nove cherubini, spiccanti fra un artistico intreccio di nuvole che li circondano.
Questo bassorilievo, che viene attribuito al Gagini, è tenuto in grande estimazione. Vi è chi asserisce che l' insieme del sarcofago sia pure opera del Gagini. Noi, invero, accettiamo tale asserzione col beneficio dell'inventario.



All'angolo della navata a sinistra, in prossimità della porta di ingresso, si scorge un elegantissimo e maestoso sarcofago in marmo verde, cosi detto cimiliano, simile a quelli che si ammirano nel duomo di Palermo.
L'urna massiccia, dal fondo ovale, poggia su le spalle di artistici leoni, dello stesso marmo, e richiama alla memoria i fasti e la grandezza della nobile benefica famiglia Barrese, salita in tanta rinomanza da meritarsi, giustamente, la benevolenza del popolo di Pietraperzia.
Il sarcofago fu eretto in memoria di donna Dorotea Barrese e Santapau, sorella dl don Pietro Barrese, che andò sposa a don Giovanni Branciforte, col quale generò un solo figlio, di nome Fabrizio; rimasta vedova, sposò il marchese don Vincenzo Barrese, ma questo matrimonio fu di breve durata, per la morte del marito. Una terza volta andò a nozze, perché fu chiesta od ottenuta in sposa dal viceré di Napoli Giovanni Zunica. Morta nel 1591 in Pietraperzia, ebbe, in quella chiesa madre, onorata sepoltura.
Una epigrafe, graffita in uno dei lati dell'urna, ricorda le virtù di questa principessa o viceregina di Napoli, che era nata dall'unione di Don Girolamo Barrese di Pietraperzia con donna Antonia Santapau, unica erede del principe di Butera.
Nell'iscrizione si dice:

D. O. M.
D. DOROTHEÆ BARRESIÆ, SANCTAPAV PRINCIPI
PETRAPERTIÆ H. PRINCIPI BUTERÆ HI VT QVÆ.
VIVENS ROMÆ ET NEAPOLI REGIAM PERSONAM
PRO DIGNITATE GESSIT, APVD REGEM REGII FILII
MOX PHILIPPI III DOMINI QVOD SVPREMVM
DECVS EST ALTERA VELVTI MATER MORIBVS ATQVE
EDVCATIONI PRÆFECTA EXCElSÆ MVNVS VIDEI
SVMMA EXPLEVIT FIDELITATE ET OBSEQVIO
MAGNOSQVE INTER HYSPANIARVM PROCERES.
NVMERATA. SVIS IDEM POSTERIS GLORIÆ,
CLARITATISQVE VESTIGIVM RELIQVIT.
MORTVA NVNC POST HONORVM TOT DECVRSUS
NEMINI SICVLORVM ANTEA COGNITOS SI NON
ILLVSTRI VT PAR HONESTO TAMEN SITA SIT
LOCO. FABRITIVS BRANCIFORTIVS, BARRESIVS,
SANCTAPAV TANTÆ MATRIS FILIVS VNICVS
PIETATIS, ET REVERENTIÆ P. ANNO MDXCI.
VIXIT. ANNIS LVIII.



Altro mausoleo di marmo a colori, in buonissimo stato di conservazione, si ammira appoggiato alla parete che vi ha tra la porta centrale e quella della navata destra. È di stile barocco, con diversi adorni di marmo a intarsiature.
Nella parete, in un quadretto anch'esso di marmo bianco, si osserva una Madonna in piedi col Bambino. La parte superiore del monumento è sormontata da un'artistica cimasa. Dall’un lato o dall'altro stanno due putti ignudi, sdraiati sulla cornice e in mesto atteggiamento, simboleggianti l'anima addolorata del popolo, che piange la morte di colui che in vita tanto bene gli aveva fatto. Nel centro si eleva uno scudo, in cui si intrecciano lo insegne delle case Valguarnera, Barrese e Moncada. La grande cornice è sostenuta da due sirene che poggiano per metà su mensole, aventi ciascuna un mascherone. Fra i due pilastrini, entro un'artistica incorniciatura, a disegni stile cinquecento, si legge la seguente iscrizione graffita sul marmo:

D. O. M.
PETRO BARRESIO PETRÆ
PERSIÆ PRINCIPI SUÆ TEMPES
TATIS EQVITVM VIRTVTIBVS
CVMVLATISSIMO EXACTIS
QVINQ, ET TRIGINTA SUÆ ÆTA
TIS ANNIS, FVLMINE DEMVM CÆ
LITVS FLAMMTO IVLLÆ. Q. MONCATÆ:
VXORI SVAVISSIMÆ TRIBVS CVMANNO
LVSTRIS POST XXXIJ SVI NATA
LIS ANNVM LVCTVOSIS
SIMÆ SUPERSTITI.

Don Pietro Barrese, ricordato dal Mongitore, dal Villabianca e dall'Amico, più che della nobiltà del suo casato, andava orgoglioso della sua cultura nelle scienze astronomiche e matematiche: e, qual benefico mecenate, proteggeva i letterati del suo tempo. Il re Filippo II, in ricompensa dei servigi da lui resi come capitano generale della milizia siciliana, gli conferì il titolo di primo principe di Pietraperzia. Mori nel 1571, e il suo corpo, dal castello ove fu sventuratamente colpito dal fulmine, fu trasportato nella chiesa madre, ove ebbe onorata sepoltura, insieme con le spoglie della moglie, donna Giulia Moncada, come ben si rileva dalla iscrizione graffita da Girolamo Mozzicato nel sarcofago di cui è parola. Cittadini e vassalli, per la morte di lui, portarono il lutto per parecchio tempo, memori dei benefici ricevuti e delle virtuose azioni di si nobile signore, che fu l'ultimo principe della sua famiglia.



La Cateva.
È una piccola chiesetta, anzi più che una chiesetta, può benissimo addimandarsi un oratorio o cappella, tenuta in pregio, perché d'antica costruzione. È attaccata, dal lato orientale, alla chiesa madre, ed ha l'ingresso dalla parte meridionale.
Probabilmente la sua costruzione si fa risalire ai primi del cinquecento. Alcuni ritengono ch'essa si sia eretta in epoca anteriore alla Madrice.
È pochissimo illuminata ed ha la volta a botte, bassissima; raggiunge un'altezza da tre a quattro metri.
Un tempo formava l'oratorio. Essa si apre al culto dei fedeli una volta all'anno, nel mese di maggio.
Tanto nella volta che nella parete di fondo, ove sta eretto un altarino, vi sono gli stucchi dorati a zecchino, grossolanamente modellati a linee incerte, di stile del cinquecento. Nel centro del secondo arco che divide l'abside dallo spazio destinato ai fedeli, in uno scomparto ottagonale, è la figura del Salvatore, dipinta su tela ed attaccata al muro.
Nella parete di fondo, di fronte all'altare, vi è un quadro raffigurante la Madonna della Stella, di rozza fattura del cinquecento.
Sull'altare si conserva alla venerazione dei fedeli un Cristo sulla croce, dipinto rozzamente su tela, e questa è attaccata alla tavola per tutta l'estensione della croce.
In mediocre stato di conservazione è un paliotto d'altare, in legno, con sculture a bassorilievo, dorate a zecchino, con figure di santi che spiccano negli spazi compresi tra le arcate che formano un insieme di colonnato alludente ai laterali del prospetto d'un gran tempio.