Quando
anche l'Italia divenne campo di battaglia e, nell'imminenza dello sbarco degli
alleati in Sicilia, le incursioni aeree si fecero più frequenti e intense,
moltissima gente lasciò il paese per cercare rifugi più sicuri nelle campagne,
anche chiedendo ospitalità presso conoscenti o parenti. Allora, a li Minniti, ci raggiunse la zia Lucietta
con tutta la sua famiglia. Con l'arrivo dei nuovi sfollati raddoppiò il numero
delle persone e, di conseguenza, il fabbisogno di generi alimentari per sfamare
tante bocche.
Per
maggior sicurezza avevamo abbandonato la casa colonica e ci eravamo rifugiati
nelle grotte, tra le rocce dove avevamo sistemato materassi e pagliericci vari.
La
bisnonna Francesca non aveva voluto
seguirci: più rischioso sarebbe stato per lei muoversi tra i sassi e salire sino
alle grotte che restare nella casa. Durante quei terribili mesi di paura la
bisnonna non perse la sua serenità continuando a badare alle galline, a
raccogliere le uova, a preparare la cagliata con il latte della capra. Gli
adulti andavano e venivano dalla casa per accudire agli animali e provvedere a tutte le esigenze della numerosa compagnia;
noi bambini, invece, quasi mai ci allontanavamo dalle grotte. La cosa che
maggiormente ci metteva paura era il rombo degli aerei: appena li sentivamo
arrivare correvamo velocemente ai rifugi, se ce ne eravamo allontanati di
qualche metro. Ancora tempo dopo la guerra gli stessi tuoni durante i temporali
ci facevano tremare dallo spavento.
Niente
successe a nessuno di noi, per fortuna, ma spesso assistemmo a bombardamenti su
Caltanissetta: sentivamo il frastuono delle esplosioni e notavamo le grosse
nuvole di polvere dalla parte del cimitero della città. Una bomba sola cadde a
metà strada tra la nostra casa colonica e la
rrobba di li Minniti, che probabilmente avevano voluto colpire. Noi
sentimmo il fortissimo boato e il rumore dei vetri andati in frantumi. Grande
fu lo spavento di mamma e di zia Mariuccia che, all'interno della casa, in quel
momento stavano scaldando il forno per cuocere il pane.
Nonna
trascorse quella giornata in grande agitazione: zio Biagio, partito il mattino
presto per andare al mulino per macinare del grano, tardava a tornare. La paura
della nonna era che avessero bombardato anche il mulino e che allo zio fosse
capitata qualcosa di grave. Si tranquillizzò la sera tardi quando lo zio tornò
con il suo carico di farina. Noi bambini fummo i primi a dirgli della bomba.
Solo dopo qualche giorno gli uomini andarono a vedere il grosso cratere che
l'ordigno aveva provocato.
Ruderi del mulino di Marcatobianco - Pietraperzia |
Non
passarono più di due settimane dalla caduta della bomba che osservammo
sbalorditi, da una purtedda all'altra
del tratto di strada che vedevamo dalla casa (circa un chilometro o poco più),
i soldati anglo-americani provenienti da Caltanissetta avanzare in una fila
interminabile verso Pietraperzia, con le divise di colori diversi, cachi, color
petrolio, grigio-verde, e notammo le piccole jeep americane che sembrava
dovessero capovolgersi da un momento all'altro da come si muovevano veloci,
quasi saltellando sui sassi della strada.
Dopo
alcuni giorni tornò papà: era arrivato a piedi; ce lo vedemmo comparire
improvvisamente dalla parte della piana del Salso. Scoprimmo che durante un
bombardamento era stato ferito alla gamba e al braccio sinistro, dove aveva
ancora una scheggia conficcata che si sentiva toccandolo. Niente di ciò ci
aveva fatto sapere prima. Aveva portato con sé un commilitone, un certo
Palazzetti, marchigiano, che aveva preferito restare ancora in Sicilia e
accettare l'ospitalità che papà gli aveva offerto piuttosto che avventurarsi in
un pericoloso ritorno a casa.
Truppe Anglo-Americane nella provincia di Enna |
Infatti
i tedeschi opponevano una forte resistenza all'avanzata degli alleati in
Italia. Notammo che papà e Palazzetti erano stati seguiti da un grosso cane dal
pelo fulvo, che essi chiamavano Churchill (non avevamo ancora le conoscenze
necessarie per capire il motivo dell'attribuzione al cane di tale nome).
Palazzetti rimase a li Minniti alcuni
mesi, aiutando nei lavori della campagna e della stalla, poi decise di partire;
di lui non sapemmo più niente. Il cane rimase con noi a far la guardia alla
casa colonica.
Tornati
in paese, conoscenti, ci raccontarono che erano cadute parecchie bombe e che
avevano distrutto delle case. Per diversi anni dopo la guerra restarono ancora
i ruderi di una casa in piazza Vittorio Emanuele col tetto sfondato, fino a quando
la Società Militari in Congedo non acquistò il locale e vi costruì la propria
sede sociale. Qualche tempo dopo sapemmo anche della disgrazia che aveva
colpito la famiglia Culmone: una bomba a mano inesplosa, che bambini tante
volte avevano preso in mano e si erano lanciata per gioco, questa volta era
scoppiata vicinissimo a Salvatore, figlio di don Rusariu Ddoca e della maestra Torrenti, e ne aveva provocato la
morte.(1)
Maria e Salvatore Giordano
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(1)
Il tragico evento è ricordato da Giovanni
Culmone in Pietraperzia anni '40-Reminiscenze, 1996, p.10. Lo stesso, in ibidem, pp.31-38, racconta le giornate di
luglio 1943, a Pietraperzia, attraverso una serie di testimonianze.
tratto da: PIETRAPERZIA n° 3 Anno V Luglio/Settembre 2008