Quando
la vidi per la prima volta aveva gli occhi gialli. Era bassa in modo buffo, le
gambe piccole zampettavano ossesse e lasciavano intravvedere il loro movimento.
Ma spuntavano solo con le punte delle scarpine, dopo le onde di una gonna che sembrava
un mantello. La gonna la copriva dalle spalle ai piedi, ma non si capiva dove
iniziava. Si vedevano solo le scarpine finali. Il vestito assumeva una forma
sferica, nell’insieme. Come una palla divinatoria. Ma lei, quando si muoveva,
sembrava un astuto animale della fattoria. Andava dove trovava cibo.
Mi
guardava spesso.
La
prima volta che parlò disse cose che non capii. Non capivo perché mai fosse
sincera. Impiegai cinque anni a comprendere che, infatti, era retorica. Quella
retorica fu fondata in Grecia nel V secolo a.C. Vide in Gorgia il suo esponente
più convincente. Da allora nessuna arma più pericolosa fu mai sperimentata. Lei
la sapeva usare divinamente, nascostamente. Come quando muoveva le scarpine.
Diceva
cose buffe, come lei, a cui era buffo credere. Era questo il pericolo:
iniziarle a crederle, per gioco; finire col convincersi che quel che diceva era
bello.
Era
strana.
“Siete
ragionevolmente certi che quel che fate è completamente inutile?”
Ma
che buffa retorica.
Fu
così che iniziai cinque anni di liceo classico.
Ogni
giorno mi tuffavo in una stanza piena di luci e suoni distanti. Non voglio
parlarne. La ricordo con questa distanza, e mi scotta, mi scotta il cuore.
Parlare del liceo classico è impossibile, sadico. Ma anche il giorno allora era
vissuto come distante da sé stesso. Quella distanza era riempita continuamente
dalla sua voce, che diceva cose che nessuno avrebbe mai dovuto capire
veramente. Oggi la distanza che pongo rispetto a quei giorni è mediata ancora
da lei, dal suo ricordo, da ciò che ho capito di quella sua misteriosa figura,
che è riuscita a manovrare il mio rapporto con la realtà. Per gioco o per
magia. Che sono la stessa cosa.
Era
magica. Entrava in classe con un andamento irriproducibile, e fingeva di
entrare a casa sua. Dopo mezz’ora sembrava ridestarsi, ma la sua confidenza non
era cessata. Eppure, quella non era improvvisazione. Ogni sua parola era già
stata decretata molti anni prima, ma sembrava sempre sibillina e nuova.
Usava
schemi formulari. Ripeteva gruppi di parole. Quando ripeteva un certo gruppo,
lo studente poteva etichettare la situazione in cui si trovava. Ogni
avvenimento era catalogato con le parole che lei gli dava.
“Siete
ragionevolmente certi che…?” significava che stava per dire una cosa non del tutto
ovvia; ma che lo poteva sembrare. Che poteva essere resa semplice. Bisognava
seguire il suo ragionamento. Mi immaginavo sopra la sua testa un filo. Lei era
così bassa perché aveva bisogno dello spazio anche per quel filo. C’era
qualcuno a manovrarla. C’era qualcosa. Un segreto, un mistero.
Sapeva
quando stava per piovere. Lo sentiva nelle ossa. Sapeva quali autori sarebbero
stati sorteggiati per la versione scritta alla maturità. Sentiva anche loro
nelle ossa.
Immaginavo
le sue ossa come lunghi e tortuosi canali, pieni di buchi, annunciatori meteorologici, autori latini, che si aggrovigliavano sotto il suo vestito.
Era
una strega. Fumava sempre, e si muoveva nella nube del suo fumo. Fumava come
una turca e si vedeva dai denti, ma la voce, profonda, saliva dalla pancia, e
non era roca. Era morbida, stregata.
Alessia Borriello