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30 ottobre 2018

LA FESTA DEL GIORNO DEI MORTI




A Pietraperzia come in tutta la Sicilia “il giorno dei morti”, per i bambini, era un giorno atteso con trepidazione per i doni che nella notte i morticini avrebbero portato. Una tradizione che ormai è sempre meno sentita. Il maggiore benessere, l’introduzione nelle abitudini, ormai generalmente accettate, di consuetudini venute da fuori ci hanno privato della magia che ogni 2 novembre ci riportava alle nostre usanze. Il noto racconto di Andrea Camilleri che proponiamo ci riporta il profumo della frutta martorana e dei pupi di zucchero in  quella atmosfera incantata. I regali ricevuti da Camilleri bambino sono un'altra storia, lui era nato in una famiglia agiata, I suoi nonni erano stati proprietari di miniere e commercianti di zolfo.

Il giorno in cui i morti persero la strada

di Andrea Camilleri 

Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.
Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.
I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza. A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?».
Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo.
Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine. Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire.

(da Racconti quotidiani di Andrea Camilleri) – tratto da “Qua e là per l’Italia” – Alma Edizione, Firenze, 2008.



06 agosto 2018

Escursione Archeologica a "CUDDARU di CRASTU" Pietraperzia

Cuddaru di Crastu – Pietraperzia – Insediamento Siculo-Sicano (foto di Antonio Caffo)

Avevo sentito parlare di "Cuddaru di Crastu" ma non mi era mai capitata l'occasione di visitare questa località che si trova a sud-ovest dell'abitato di Pietraperzia. La prima volta che la potei visitare fu il 7 novembre 1974 assieme al signor Liborio Alletta ed un'altra persona di cui non ricordo più il nome e ne riportai una profonda impressione, tanto che negli anni successivi vi ritornai ancora per cercare di meglio approfondire le mie conoscenze.
A Milano, dove abito, andai in cerca di notizie sui primi abitatori della Sicilia ed in modo particolare sui Siculi e sui Sicani, perché secondo quanto poi pubblicato da Antonio Lalomia e Rosario Nicoletti, Cuddaru di Crastu non è altro che la Krastos Sicana che ancora oggi conserva importanti ed imponenti vestigia dopo 3000 anni. Le antiche fonti ci fanno conoscere le sedi di insediamento di queste popolazioni preelleniche della Sicilia, ma allo stato attuale gli storici e archeologi moderni non sembra siano giunti a conclusioni univoche. Non ci sono, o non si conoscono, documenti che dicano che "Cuddaru di Crastu" sia l’antica Krastos Sicula o Sicana che altri collocano a Castronovo di Sicilia o ancora tra Alcara Li Fusi e Longi.
I primitivi abitanti di Cuddaru di Crastu si fanno risalire al 1270 anni a.C. (sic).
Questi popoli ebbero le loro colonie, coltivarono la terra, ebbero le loro leggi e lentamente acquistarono una forma di civiltà prima dell'arrivo dei Greci. — Abitarono in villaggi fatti di capanne, di cui sono state rinvenuti molti resti, ogni villaggio aveva un suo capo e amministrava la giustizia ed era a capo di una milizia. Le loro abitazioni erano in prevalenza site sulle cime dei colli in modo da potersi difendere meglio dagli attacchi esterni. 

Cuddaru di Crastu – Pietraperzia (foto di Antonio Caffo)

Le zone dove essi abitavano erano in prevalenza boscose ed offrivano abbondante selvaggina, frutti e legna per le loro capanne, ma coltivavano anche la terra o almeno conoscevano il grano selvatico che cresceva spontaneo nelle nostre contrade.
La collina di "Cuddaru di Crastu" dove è ubicata la fortezza non è molto agevole da raggiungere. Dopo avere lasciato la macchina in fondo alla "trazzera" si prosegue a piedi in direzione Fastuchera. Il terreno, quando vi andai, era arato di fresco e si faceva molta fatica a salire, ma ci portò a scoprire moltissimi "cocci" di ceramica di varie epoche, specialmente greca con vari disegni illeggibili a causa della pezzatura minuta dei cocci. Assieme a questi trovammo diversi "raschiatoi litici", punte di frecce in selce ed una triangolare di bronzo. Prima di salire sulla sommità, mi fu mostrato un enorme masso che era rotolato, chissà in quale periodo, dalla fortezza e vi si scorgevano ancora dei gradini ritagliati nella roccia, che ritrovai poi uguali a mezza costa da dove s'era staccato il masso. Dopo d'esserci arrampicati fini lassù in cima, trovammo uno spiazzo abbastanza ampio dal quale si gode un panorama superbo ed incantevole. 

Monte Grande – Valle del Salso – Pietraperzia (foto di Antonio Caffo)

Da qui si scorge tutto il corso del fiume Salso da Capodarso fino al Canneto ed oltre. La scala ritagliata nella viva roccia non era l'unica opera di quei nostri lontani avi, ma vi erano molte celle abbastanza ben conservate. Altra opera era una specie di pozzetto, anche questo scavato nella roccia per la raccolta delle acque o altro.
Lo spettacolo è molto suggestivo, specialmente al tramonto del sole quando esso proietta gli ultimi suoi raggi e "Cuddaru di Crastu" assume l'aspetto in lontananza di un ariete coricato con la testa rivolta verso sud.
La toponomastica di questa contrada conserva ancora l'etimologia saracena, pertanto per chi voglia conoscere quale sia stato il nome originario del luogo rimane deluso.
Circa il toponimo di "Cuddaru di Crastu" per la prima volta si trova menzionato da Rosario Nicoletti e Antonio Lalomia in “Storia del territorio di Pietraperzia dalle origini agli Aragonesi” - Caltanissetta, 1982. Fra Dionigi parlando di questa località dice: "fra mezzogiorno e ponente, vi sono le vestigia di un fortissimo castello, quasi due miglia distante da Pietraperzia detto il Castellaccio, posto in cima ad una collina, in cui si saliva per una scala scolpita in viva pietra, come adesso si ammira vicino la Fastuchera ove si trova vari e diversi monumenti di antichità ..." (fra Dionigi, Relazione critico storia di M.SS. della Cava, Palermo 1776, pag. 32).

Monte Grande – Tombe a grotticella – Pietraperzia (foto di Antonio Caffo)

Per raggiungere "Cuddaru di Crastu" bisogna prendere la SS.191, la Pietraperzia Caltanissetta via Besaro e giunti in località "Iardiniddu" (giardinello), si svolta a sinistra in direzione Monte Grande (lu Muntiranni). Giunti in località Nagargia (dall'arabo al-Naggar falegname, carpentiere o ana-Hagar, spelonga, cavema), si prosegue in direzione Fastuchera (dall'arabo Fustaq, pistacchio). Questo triangolo tra Donna Ricca, Monte Cane, Fastuchera ha dato molti reperti archeologici della cultura di Castelluccio e vi si notano ancora molte tombe a grotticella.

Tramonto da Monte Grande (foto di Antonio Caffo)

Guardare queste colline verso il tramonto sembra che qualcuno di lassù scruti i nostri passi e cordialmente agita la mano in segno di un cordiale arrivederci.



Tratto da un articolo di Lino Guarnaccia in:
“L’informatore centro-siculo” Anno VI luglio 1990







18 giugno 2018

Eccidi Borbonici a Pietraperzia e Garibaldi nella casa della famiglia Di Blasi


A Pietraperzia il pensiero conservatore, configurato nella politica borbonica e appoggiato da una parte del clero istituzionale, si oppose alla cultura liberal-massonica di tipo progressista che fu prevalente nella seconda metà dell'Ottocento fino agli inizi del Novecento e che, tendenzialmente, era legata alle vicende storiche dell'unità d'Italia, soprattutto al garibaldinismo.
La mattina del 26 maggio 1860 la guarnigione borbonica, composta di 2000 uomini e comandata dal Maresciallo Afan de Rivera, arrivò a Pietraperzia. Essa proveniva da Caltanissetta ed era diretta a Catania. Quei soldati e i loro comandanti, esasperati probabilmente dalle notizie delle sconfitte che i loro commilitoni avevano subito a causa dei volontari garibaldini, che erano sbarcati a Marsala l'11 Maggio 1860, e vedendo come un dileggio l'accoglienza gioiosa dei pietrini - che imprudentemente avevano issato il tricolore sulla torre del castello - attaccarono la folla "con diverse scariche di fucile a punte di baionette", uccidendo quattro persone e ferendone molte (1). La gente attribuì alla Madonna della Cava il miracolo che le vittime fossero state soltanto quattro. L'esperienza dolorosa e tragica causata dai soldati borbonici convinse diversi volontari pietrini, assistiti economicamente da sponsor di Pietraperzia con 38 ducati raccolti, a recarsi a Palermo per stare agli ordini di Garibaldi. In un documento riportato dalla "Rivista Storica del Risorgimento" (Torino 1934) Luigi Enrico Pennacchini ci fa sapere che dal 21 luglio al 22 agosto 1860 si riunirono a Caltanissetta 72 giovani "anticipando tutte le spese necessarie di propria tasca" per formare il battaglione "Niederhausern". Dai cognomi riferiti sembrerebbe che alcuni siano di provenienza pietrina.
Le nuove idee liberaleggianti, che circolarono con la venuta di Garibaldi in Sicilia, influenzarono l'andamento politico della nostra contrada, dove per iniziativa del liberal-massone Filippo Perdicaro, fu istituita il 9 marzo 1862 una sezione della "Società Unitaria Nazionale" di ispirazione garibaldina, divenuta poco dopo "Associazione Emancipatrice Italiana". Essa aveva due scopi: appoggiare economicamente le campagne militari dei garibaldini e inviare dei volontari per liberare i territori di Roma e Venezia che ancora non facevano parte dell'Italia. In quella prima seduta del 9 marzo i soci nominarono Giuseppe Garibaldi Presidente onorario dell'Associazione e il "patriota Francesco Crispi" socio onorario.


Il 13 luglio 1862 la "Società Unitaria Emancipatrice di Pietraperzia", su proposta del suo presidente Filippo Perdicaro, invitò Garibaldi a venire a Pietraperzia. Garibaldi accolse quell'invito, tramite una delegazione di pietrini facoltosi che andarono a trovarlo a Caltanissetta. il poeta e cultore di cose patrie, Francesco Tortorici Cremona, in un interessante articolo intitolato "Notizie Storiche di Pietraperzia", scrisse: "nello scorcio dell'estate del 1862 Giuseppe Garibaldi con i suoi volontari fra le acclamazioni entusiastiche del popolo, entrava trionfalmente in Pietraperzia, dove la famiglia Di Blasi gli offerse generosa ospitalità quale si conveniva a tanto uomo. La marea della gente, accorsa in Via S. Francesco (attuale Via Principessa Deliella) per vederlo e sentirlo parlare, obbligò il duce ad affacciarsi al balcone da cui pronunziò parole inneggianti alla libertà conquistata a prezzo di sacrifici. Terminò il suo dire col grido "O ROMA O MORTE! " e l'eco si ripercosse in migliaia di petti e migliaia di voci ripeterono le fatidiche parole."


Fu ospitato in Via San Francesco (oggi via Principessa Deliella) nella casa della famiglia Di Blasi, cioè dei suoceri di Filippo Perdicaro che aveva sposato donna Agata Di Blasi. Si ritiene che il giorno della presenza di Garibaldi a Pietraperzia sia stato l'11 agosto.
La propaganda garibaldina di volontari per la spedizione della liberazione di Roma e Venezia ebbe a Pietraperzia buon esito. Si raccolse una consistente somma con cui si equipaggiò un battaglione di 60 pietrini al comando di Michele Furitano. Essi dopo il 16 agosto si disposero a partire.

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Nell'articolo di Francesco Tortorici Cremona così si legge: "L'indomani si videro capi di famiglia prendere concedo dai figli e dalla sposa; giovani plebei e di famiglie agiate tralasciare il lavoro, gli studi, disinteressarsi della carriera, abbandonare i genitori, le amanti e tutto ciò che avevano di più caro, di più sacro, per seguire la sorte dell'Eroe." 


tratto da: PIETRAPERZIA n° 1 Anno VI Gennaio/Marzo 2009 - Sac. Filippo Marotta
(foto di Antonio Caffo)


(1)    Il Priore dei francescani di Pietraperzia, fra' Francesco Nicoletti, in data 27 e 28 maggio 1860 invia lettere di protesta e scrive che furono uccisi «fanciulli innocenti, imbelli donne, pacifici ed inermi contadini... si deplorano sinora circa trenta vittime, si son trovati dei cadaveri divorati da cani, si fa ricerca di fanciulli dispersi o uccisi nelle campagne vicine» (Lino GuarnacciaIl Castello di Pietraperzia, Tipografia Di Prima, Pietraperzia, 1985, p. 151). 

Nel registro dei morti della Matrice dell’anno 1860 le annotazioni con le vittime uccise dai soldati borbonici vanno dal n°147 al n°151 del giorno 27 maggio e riportano la dicitura “quia intefectus fuit a Militia Regis”, mentre nei registri comunali e riportato il luogo dove vennero uccise e la data della morte, che fu il 26 maggio. 
Le vittime accertate furono cinque:
Salvatore Guarnaccia di anni 64, ucciso presso la propria abitazione;
Rosario Culmone, di anni 66 , ucciso nella campagna vicino il canalicchio;
Leonardo Fiore, di anni 28, ucciso nella campagna dietro alla Santa Croce;
Luigi Miccichè, di anni 15, ucciso nella casa rurale della Santa Croce;
Vincenzo Viola, di anni 18, ucciso nella porta dell’orto dello spezio.









11 giugno 2018

Il castello di Pietraperzia: di Jeanne Villepreux-Power



Lato esterno a est del castello. In primo piano la torre quadrangolare, la bifora la finestra per il Gran Salone. (Foto proprietà Giuseppe Maddalena)

Del castello di Pietraperzia abbiamo una preziosa testimonianza di Jeanne Villepreux-Power che lo visitò e lo descrive com'era ancora intorno al 1840. All'epoca il castello era adibito a prigione e si era conservato ancora pressoché integro. L’autrice, una naturalista francese, per vent'anni viaggiò per la Sicilia, soprattutto lungo le coste, descrivendo e disegnando paesaggi, monumenti d’arte, personaggi illustri. Una vera guida per i viaggiatori dell’epoca nella quale non dimenticava di inserire le migliori locande e corrieri, il valore delle monete, le principali fiere, la tariffa de' cavalli di posta.

Guida per la Sicilia - opera di Giovanna Power nata Villepreux,

Napoli, dallo stabilimento tipografico di Filippo Cirelli, 1842


Pietraperzia, distante sette miglia da Caltanissetta conta 9292 abitanti.
Si vuole che derivi dall’antica Caulonia, le cui rovine, Cluverio (Filippo Cluverio storico-geografo vissuto nel XVII secolo) le colloca vicino Pietraperzia; ma poiché questo dato si basa su argomenti molto incerti, lasciamo critiche e disquisizioni archeologiche ai dotti, dirò soltanto ciò che fu questa deliziosa terra nei tempi antichi.
Ruggero il Normanno la donò ad Abbo Barresi; i discendenti di esso furono spogliati da Federico II; ma Abbo III in grazia della Regina Eleonora, riebbe la sua baronia.
Sotto Carlo V d'Asburgo, ed ai tempi del Fazzello, Matteo III Barresi ne fu investilo con titolo di Marchese. Nel 1364 Filippo II ne nominò principe Pietro Barresi, come si rileva da una lapide che ancora oggi si conserva intatta nel castello.
Il castello è ammirevole, sul quale mi tratterrò forse lungamente; ma lo reputo degno di particolare nota. Lo visitai, ed il mio cuore restò vinto dalla meraviglia e dal rispetto. Sorge a tramontana del paese, in mezzo a forti merlati baluardi, e a mezzogiorno c’è l'entrata. Da qui è il miglior punto per vederlo, offrendoci il suo prospetto e la parte laterale della gran sala, con tre grandi finestre di gusto Normanno, e qualche mensolone rimasto lungo la cornice. L'accesso è breve e a mancina. Prima d'entrare nel cortile, in una nicchia di marmo bianco, ornata nello stile del cinquecento, si vede un busto, forse di uno di casa Barrese. Dirimpetto vi è la cappella intitolata a S. Antonio; la porta, di marmo bianco, è abbellita da ornati e figure anche del cinquecento, ma l'interno, soprattutto la parete del fondo, è pieno d'ornati moreschi, e con nettezza sono scolpiti quei fogliami traforati e spinosi. Lungo i piedritti della soffitta si leggono alcune sentenze bibliche della Genesi, scritte nel vernacolo siciliano di quei tempi. Di fronte all'ingresso del cortile si conservano le arcate, composte di grossi pilastri quadrati, ogni angolo delle quali è composto da colonnette e fasce, che girano nell'imposta; e nelle alette vi sono zoccoli capricciosamente scolpiti, con animali ed altre figure aggruppate. Sopra le arcate si apre una gran finestra, con bei profili; sul fregio si vedono emblemi baronali e segni dello zodiaco; i grossi zoccoli laterali al parapetto, sono ingombri di animali.
Dall'ingresso si sale una scala molto decorata, che da una parte conduce al prospetto bugnato della grande sala; è la gran porta di stile Normanno, con molte colonnette, ed in uno dei pilastri si osserva ancora una statua corrosa dal tempo. Gli intagli sono di pietra di duro travertino. In mezzo alla scala, su di un torrione, s'alza una statua di S. Michele. L'altro braccio di scala porta in un’ampia loggia, che introduce a numerose stanze e a sotterranei incavati nella viva pietra; da questi incavi nella pietra e da questi trafori si vuole, da alcuni, l’origine al nome del paese, perché da Pierre percée è facile derivarne Pietraperzia; altri però preferiscono altre etimologie, e farebbero derivare il nome dagli arabi. Dai diversi stili d'architettura, sembra l'edificio appartenere a diverse epoche. E a noi piacerebbe, se tra questi memorabili avanzi di arte medioevale, al posto di vedervi sgherri, carceri e carcerati, vi trovassimo cose che abbellissero e rallegrassero quella veneranda solitudine. Prima che parli del territorio di Pietraperzia è utile avvertire il viaggiatore che questa terra è stata sempre feconda di elevati ingegni; ma per quella sventura che spesso accompagna i migliori, sono stati trascurati dagli storici. Il suo territorio contiene dell'asfalto; presso la strada che porta a Barrafranca vi è un tratto di terreno calcareo contenente delle ostree fossili (ostriche fossili).

La donna che inventò l’acquario: la storia, le ricerche, i tributi




Jeanne Villepreux nasce il 25 settembre 1794 a Juillac, un piccolo paese francese a circa 400 chilometri da Parigi. Le condizioni della famiglia, di cui è la primogenita, sono modeste: il padre, Pierre, è un calzolaio, la madre, Jeanne Nicot, è una donna colta per l'epoca; il suo nome appare nella lista delle donne che possono istruire i bambini del comune, al posto degli istitutori decimati dalla Rivoluzione. Dota sua figlia di un tesoro raro per una donna di semplice estrazione di quel tempo: le insegna a leggere e a scrivere. Muore quando Jeannette ha solo 11 anni.
Nel 1812, a diciotto anni, forse per dissidi familiari, Jeanne decide di recarsi a Parigi. Le scarse notizie biografiche non permettono di ricostruire con esattezza come la giovane donna, dopo alcune iniziali disavventure, abbia potuto cavarsela. Giunta a Parigi, davanti ad una vetrina di un negozio di moda, la proprietaria la nota ed inizia a chiacchierare con lei. La giovane è spigliata ed entusiasta; le viene offerto un posto di lavoro. In breve tempo Jeanne lavora come ricamatrice nell'atelier di moda.
Deve avere avuto sicuramente talento se dopo quattro anni dal suo arrivo nella sartoria le viene affidato l'incarico che cambierà radicalmente il suo destino; il ricamo del vestito da sposa di una principessa di sangue reale: Maria Carolina di Borbone, nipote del re Ferdinando I delle due Sicilie, con Carlo Ferdinando d'Artois, Duca di Berry, nipote del re di Francia Luigi XVIII. È l'evento spartiacque nella vita di Jeanne Villepreux.
È in questa circostanza che la giovane ricamatrice incontra James Power, gentiluomo irlandese di nobili origini, nato nelle Antille il 28 febbraio 1791, destinato dopo due anni a diventare suo marito.
Si narra che James Power, si trovasse a Parigi nei giorni dei festeggiamenti per il matrimonio principesco. Nel vedere l'abito nuziale, colpito dallo splendore dei merletti e dei ricami, avrebbe chiesto di incontrare l'anonima autrice per manifestarle la sua ammirazione.
Sarebbe avvenuto così l'incontro che in un breve volgere di tempo avrebbe condotto, in tutt'altro contesto, anche Jeanne Villepreux all'altare, per unirsi in matrimonio al giovane mercante irlandese James Power.
La cerimonia nuziale tra la sposa di ventiquattro anni e lo sposo di tre anni più anziano, si svolge il 4 marzo 1818, nella Chiesa di S. Luca, a Messina. Ed è sulle rive dello stretto, dove James Power esercita una solida attività commerciale, rapidamente affiancata da iniziative finanziarie ed imprenditoriali, che Jeanne Villepreux Power vive i prossimi 25 anni della sua vita.
Nel 1843, quando lascia la Sicilia, è associata ad almeno diciotto tra accademie e istituzioni scientifiche internazionali, carica di riconoscimenti per i suoi studi naturalistici e le sue scoperte di biologia marina, le viene anche attribuito l’invenzione dell’acquario, muore nel paese dov’era nata il 25 gennaio 1871.






21 maggio 2018

I Fasci siciliani e l'eccidio dimenticato di Pietraperzia





L’eccidio dimenticato di Pietraperzia


Gli avvenimenti che si verificarono a Pietraperzia il 1° gennaio 1894 sono una pagina di storia dimenticata e sconosciuta ai più. il tumulto che sconvolse, all'epoca, Pietraperzia causò molte devastazioni e l’uccisione di 9 nostri concittadini e tra questi un bambino di 5 anni.
Una strage di Stato nell'Italia unificata dai Savoia. Le sommosse e le uccisioni si ripeterono in molti comuni siciliani per tutto il 1893 e anche dopo lo stato d’assedio dichiarato dall'allora capo del governo: il siciliano Francesco Crispi.
Qui vogliamo ricordare e onorare le vittime dell’eccidio che si consumò a Pietraperzia.
Dopo l’iniziale fervore per fare l’unità d’Italia seguirono decenni di dolorose disillusioni economiche e sociali. Le miserevole condizioni di vita dei contadini, dei braccianti agricoli, dei minatori non erano cambiate. In Sicilia persisteva ancora uno stato sostanzialmente feudale. La maggior parte delle terre era in mano a poche famiglie arricchite di gabellotti. I cosiddetti “galantuomini” formavano una oligarchia dominante, e nei paesi erano i veri detentori di un potere incontrastato. Sindaci e consiglieri comunali venivano praticamente nominati tra queste poche famiglie. Gli elettori votavano per censo; a Pietraperzia nel 1893 il “corpo elettorale” era composto da circa 700 persone. L’imposizione di dazi e tasse era un’arma in mano alle amministrazioni che usavano spietatamente per colpire nemici ed avversari politici. Si favorivano parenti ed amici togliendoli dal Ruolo, a tutto danno dei poveri. Gli introiti derivanti dall'imposizione delle varie tasse non bastavano a coprire le spese obbligatorie del Comune e gli amministratori, anziché pensare a fare economia per pagare i debiti, formulavano nuovi progetti in funzione dei loro interessi personali. Non si facevano riunioni del Consiglio ed in una sessione si arrivava a non più di due sedute. Il sindaco passava diversi mesi dell’anno a Palermo, bloccando di fatto l'azione amministrativa; non si poteva sollecitamente avere un certificato, non si potevano fare richieste di matrimonio, non si sorvegliava sul servizio degli impiegati. Si concedevano gratis terreni demaniali agli amici; invece piccoli e piccolissimi proprietari senza titoli, che non riuscivano a far fronte ai debiti, venivano espropriati dei loro terreni da chi già ne possedeva la maggior parte. Tale era l’impunità dei grandi proprietari, che non esitavano ad appropriarsi di terre demaniali, praticare l’usura e taglieggiare i contadini con condizioni di mezzadria che lasciava loro pochi e precari mezzi per una stentata sopravvivenza. Questi parvenus, questi don Calogero Sedàra, presero a modello la vecchia e parassitaria nobiltà feudale per riprodurne il modo di vivere nei loro paesi di nascita.
È in questa situazione amministrativa, sociale ed economica che in Sicilia tra il 1889 e il 1892 sorsero, sotto le bandiere del “socialismo”, i Fasci Siciliani.
A Pietraperzia il Fascio dei lavoratori fu fondato nel settembre del 1893 per iniziativa di Francesco Tortorici Cremona, (inteso don Ciccio Cuḍḍuzzo), poeta, autore di componimenti tuttora letti e conosciuti da molti pietrini.
Il Fascio dei lavoratori di Pietraperzia arrivò a contare 306 aderenti composto quasi esclusivamente da contadini. I capi oltre al Tortorici Cremona erano Giovanni Santogiacomo, macellaio, Antonino Di Dio e Luigi Rabita, barbieri.
Dopo le prime manifestazioni, che si riducevano a pacifiche “passeggiate” con coccarde e qualche sciarpa rossa, la ricca borghesia di Pietraperzia e le autorità di polizia iniziarono a temere la tendenza insurrezionalistica dei Fasci. Conseguenze violente si sarebbero potute ripetere anche a Pietraperzia come già in altri comuni siciliani. Tortorici Cremona, forse per pressioni delle autorità locali o per convinzioni personali, si dimise accampando motivi che sembrano solo pretesti per scansare un pericolo che sente avvicinarsi. Alla presidenza del Fascio gli subentrerà Giovanni Santogiacomo, un pregiudicato con precedenti penali per reati contro le persone.
Il 28 dicembre 1893 il barone Tortorici scrive al prefetto di Caltanissetta una lettera che descrive i Fasci dei lavoratori come una organizzazione composta da anarchici e pregiudicati, che approfitta della credulità e dell’ignoranza del popolo per suscitare odio tra le classi. La miseria dei contadini, scrive il barone Tortorici, è soltanto un falso pretesto perché i contadini sono tutti proprietari di terra, i dazi sono miti, le tasse quasi inesistenti. L’incredibile lettera si conclude con la richiesta di una compagnia di soldati per garantire l’ordine pubblico.
Il 1° gennaio 1894 fin dal primo mattino per le strade di Pietraperzia si verifica un’inconsueta animazione. Questo insolito movimento di persone fa pensare a un passaparola per organizzare, come già in altre località, manifestazioni di protesta contro le autorità municipali.
Verso le ore 13.00, all’interno della matrice, si riuniscono un gran numero di persone. Uomini e madri di famiglia con i figli portati in braccio.
Usciti dalla chiesa si avviarono verso il piano Santa Maria (piazza Vittorio Emanuele) al grido di “Abbasso le tasse!”, “Siamo affamati!”. In piazza trovarono una forza schierata di 30 soldati. La folla fu invitata a sciogliersi, e anziché accogliere l’invito a tornarsene a casa partì una sassaiola contro i soldati ferendone alcuni. Una sassata in testa se la prese pure il Tortorici Cremona che assisteva da lontano alla manifestazione. I soldati, nonostante avessero sparato alcuni colpi in aria, furono sospinti verso il muro della chiesa, a questo punto fu ordinato di sparare sulla folla, restarono sul selciato 15 feriti e 9 morti:

1)    - BEVILACQUA Salvatore, di anni 5.
2)    - DI CATALDO Vincenzo, di anni 30.
3)    - GIARRIZZO Vincenzo, (Filippo), di anni 51.
4)    - MANCUSO Vincenzo, di anni 35.
5)    - PUZZO Paolo, di anni 50.
6)    - RINDONE Pasquale, di anni 22.
7)    - SIGNORINO Angelino, di anni 21.
8)    - TRIGONA Rosario, di anni 60.
9)    - VINCI Filippo, di anni 50.

Dopo l’eccidio i soldati si rifugiarono all'interno del convento di Santa Maria, lasciando il paese in mano al furore della folla. Furono distrutti l’ufficio del telegrafo e ne incendiarono l’edificio. Fu appiccato il fuoco all'ufficio del registro e al municipio. Pietraperzia allora era sede di pretura, fu incendiata pure la pretura. I casotti daziari agli ingressi del paese furono abbattuti e bruciati. Furono assaltati e devastati i due casini dei “galantuomini”, fu tentato l’assalto alle carceri situati nel castello ma furono respinti per due volte. Quando assalirono gli uffici dell’esattoria e della posta, situati nelle vicinanza delle abitazione dei fratelli Mendola e del sindaco Giuseppe Nicoletti dai balconi delle case di questi si affacciarono alcuni uomini che spararono sugli assalitori.
Gli incendi e le devastazioni furono limitati ai soli beni materiali e agli edifici.
Non vi furono né uccisioni né ferimenti tra gli impiegati e nei circoli dei “civili”, mentre durante gli assalti e gli incendi, la gente inferocita gridava "Ammazzammuli tutti!".
 Nei giorni successivi ai tumulti seguirono lo scioglimento del Fascio, arresti di massa e l’istituzione di tribunali militari. Per i disordini di Pietraperzia furono processati a Caltanissetta 73 imputati tra questi 10 donne. Il processo durò solo 8 giorni, dal 3 all’11 aprile 1894 e si concluse con condanne durissime e ingiuste. Fra i 73 giudicabili ne furono assolti venti, gli altri furono condannati a pene variabili da ventuno a tre anni di reclusione. 
Dopo la sentenza ci furono scene di disperazione tra le grida e i pianti degli imputati e i loro congiunti. La durezza delle condanne impietosì alcuni ufficiali del tribunale ma non i notabili e il sindaco Nicoletti, che nel processo depose contro quei poveri disgraziati e che ebbe l’audacia di sostenere l’inesistenza di tasse odiose nel suo paese. “Per vendicarsi dei ribelli non ha alcun ritegno nel contraddirsi sfacciatamente”  dichiarò un ufficiale, difensore degli imputati.
La pena più dura, 21 anni di carcere, fu riservata al barbiere Antonino Di Dio. La pena più pesante a una donna fu inflitta a Giovanna Buttafuoco, condannata a 10 anni.
Giuseppe De Felice Giuffrida, Il capo più rappresentativo dei Fasci siciliani e che influì sulla costituzione del Fascio di Pietraperzia fu condannato dal tribunale militare di Palermo a 18 anni. Trascorse in carcere 2 anni per essere successivamente amnistiato.
“Nel paese per molto tempo regnò il terrore. Chi aveva sognato o sperato una società nuova dovette disilludersi. Per motivi politici e sociali la borghesia terriera, che aveva eretto la sua fortuna sull'egemonia agraria fino ad allora praticata, continuò a prosperare... La sconfitta dei Fasci consolidò ulteriormente la sua egemonia. Ai vinti di sempre non rimase che scegliere fra la rassegnazione all'antico stato di cose o l'emigrazione verso il nuovo mondo”. 


Notizie storiche tratte dalla tesi di laurea di Vincenzo Di Natale e pubblicata dalla rivista trimestrale “Pietraperzia” n°1 – Anno IX – Gennaio /Marzo 2012










06 marzo 2018

Fra’ Giuseppe d’Avola un beato a Pietraperzia nel convento di Santa Maria

Chiostro di S. Maria di Gesù – Pietraperzia 

A Pietraperzia visse un frate francescano che aveva il dono della profezia e per grazia di Dio compì miracoli e prodigiose guarigioni: il beato FRA' GIUSEPPE D'AVOLA.
Le notizie che riportiamo sono ricavate dal primo tomo del LEGENDARIO FRANCESCANO, redatto dai padri Benedetto Mazzara e Pietr’Antonio di Venezia (1721).

Ad Avola, dov'era nato, la cronaca racconta che fosse un bravo sarto. Con un brutto carattere, un indole altezzosa e superba e abile spadaccino. Prima che Alessandro Manzoni ci narrasse della conversione di fra’ Cristoforo, anche il nostro fra’ Giuseppe ebbe un duello, per questioni che non si conoscono ma immaginiamo dovute al suo cattivo carattere “capriccioso, ed inclinato alla violenza”, duello nel quale rimase ferito. Alla ferita seguì una subitanea conversione. Vendette e diede in elemosina tutti i suoi averi, iniziando una vita di penitenza. Per alcuni anni visse in grotte da eremita. Fu nella città di san Filippo (Agira), dove era venuto a vivere nella stessa grotta del santo, che incontrò i riformati francescani convincendolo ad entrare nell'ordine. Peregrinò tra i conventi di Agira e Piazza Armerina e infine nel convento di Santa Maria di Gesù a Pietraperzia, dove visse fino alla sua morte.
Per dominare la sua indole violenta, si sottoponeva a durissime penitenze corporali. Infliggendosi la privazione del sonno, si coricava mettendosi sulla sponda del letto, cadendo più volte in terra. Portava sempre un cilicio sotto il saio; accettava di sottoporsi a umiliazioni di ogni tipo, sempre pronto all'ubbidienza di chiunque nel convento: “procurava di esser dispregiato da tutti, e stimato pazzo”
Svolgeva i lavori più umili e si nutriva degli scarti, facendosi chiamare frate Asino.
Dedito all'orazione e alla contemplazione estatica fino alle lacrime, passava le notti in chiesa in preghiera. Durante il giorno girava di casa in casa, anche a Barrafranca, visitando infermi e moribondi.
Tra il popolo aveva fama di santità e per le sue preghiere molti tornavano guariti alla salute. Molte guarigioni con i nomi dei miracolati sono narrate nella citata Vita dei santi, beati e venerabili dei francescani.
Morì nel convento di Santa Maria il 15 gennaio del 1647. Alla sua morte stette tre giorni alla devozione di tutto il popolo, che gli tagliuzzò l’abito per averne una reliquia e portando via dalla sua celletta tutte le sue povere cose. Ai confrati rimase solo un cappuccio, ormai andato perduto. Ancora dopo tre giorni aveva le carni morbide come quelle di un “figliolino di due anni” e “rendea un odore mirabile”. Fu sepolto “sotto la fenestra della sagrestia nella parte dell’Epistola”.
Dopo la sua morte vi furono guarigioni prodigiose di infermi che baciando le sue reliquie guarivano all'istante. Tra le guarigioni, per l'intercessione del beato fra' Giuseppe, quella di un certo Luca Valero, (forse da Assoro?) che malato fece "voto" di costruire l'attuale chiesa di Santa Maria: una notte gli comparve   fra' Giuseppe dicendogli di iniziare la costruzione se voleva guarire. Iniziò dunque la costruzione e tornò a star bene. 
Dal “leggendario francescano” veniamo così a conoscere il nome di colui che diede inizio all'edificazione della chiesa di Santa Maria.
Dopo qualche anno, per avere interrotto i lavori, Luca Valero fu colpito da un’altra infermità. Il beato fra’ Giuseppe  tornò ad apparirgli in sogno “con riprendorlo aspramente”:  la nuova apparizione  lo convinse a riprendere la costruzione e guarì una seconda volta.
A distanza di qualche tempo dalla morte ci fu una ricognizione del corpo del beato, dove ancora sentirono “grande odore e soave fragranza” che si sparse per tutta la "Terra", facendo accorrere tutta la gente, stupendo tutti per il prodigio e facendo crescere la venerazione "alla di lui santità".
Sempre dal “leggendario” apprendiamo che nel convento dei francescani di Piazza Armerina, nel chiostro, si può vedere (ancora oggi?) “la sua effige al naturale”. 
Di questo taumaturgo vissuto e venerato a Pietraperzia, Barrafranca e nei paesi dell'interno dell'isola si è persa quasi completamente la memoria. Non so se questa amnesia fu dovuta alla soppressione degli ordini religiosi dopo l’unità d’Italia e alla conseguente partenza dei francescani da Pietraperzia, oppure più semplicemente è caduto nell'oblio dei pietrini, perché il clero di allora non ne coltivò la venerazione.
Fra Dionigi, nell'opera che ci ha lasciato lo cita sempre come beato, solo una volta col titolo di venerabile in una nota a piè di pagina. Nella nota riferisce di una Vita in istampa di fra Giuseppe (pag. 267 nell'edizione trascritta da Salvatore Di Lavore), oltre alla già citata opera di padre Pier Antonio da Venezia, anche in un opera del padre Pietro Tognoletto: il “Paradiso Serafico”.
Riporto la nota a piè di pagina dell'op. cit. di fra Dionigi e l'iscrizione sulla sua sepoltura con la traduzione dal latino del sac. Filippo Marotta.  
In questo Convento nell'Anno del Signore 1647, giorno 15 di Gennaio, Fra Giuseppe d’Avola Terziario, passò da questa vita (terrena) a vita eterna. Per molti anni dedito con gioia ai servizi del Convento, si distinse per pazienza e penitenza, con disinteresse di se stesso. Il suo corpo rimase insepolto per circa quattro giorni per soddisfare la devozione delle genti, poiché persona illustre, ristorava i presenti con straordinario profumo: sepolto, per di più di nascosto in un sepolcro particolare, se e quando fosse stato gradito a Dio, si sarebbe potuto estrarre (dal sepolcro) adeguatamente; per i miracoli in vita (fu) celebre dopo la morte. Sta il di lui Corpo in questa Chiesa (la chiesa non è l’attuale Santa Maria ma una precedente dedicata a Maria SS delle Grazie e sulla quale fu edificato il convento) in cassa di legno, posto nel muro dietro l’Altare Maggiore in Cornu Epistolae (a destra guardando l'altare) dopo aversi più volte da diversi luoghi traslato, in cui si legge la seguente trascrizione:
D.O.M
(a Dio Ottimo e Massimo)

Qui pastum, vestem, Orbem, sensus, segue negavit. Quique Gelu, Aestu, Fletu, Supplicium atque Catenas-contemptusque labores, stragem corporis omnem. Continuasque praeces, soliloquia, et omnia sancta percoluit; jacet hic de Ibla Tertinus Joseph

Colui (qui sepolto) che negò a se stesso il cibo, le vesti, il proprio paese, le passioni; e colui che col gelo, col forte caldo, col pianto (portò) il supplizio e le catene, i lavori disprezzati e ogni strazio del corpo, compì continue preghiere, lunghe meditazioni e ogni azione santa; qui giace Giuseppe d'Avola, terziario)

Ora i suoi resti sono in un loculo, nella chiesa di Santa Maria, sulla parete di sinistra prima di entrare in sacrestia.