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09 dicembre 2018

Incontro con l'autore: PAOLO CORTESI


per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html



Moltissime biografie di personaggi non celebri (non abbastanza famosi da avere chi scriva la loro biografia) sono in terza persona, ma scritte dal biografato. Per lealtà verso chi legge, dichiaro che sono l’autore di queste note, scritte in terza persona per rispetto alla tradizione.

Paolo Cortesi è nato a Forlì il 23 novembre 1959. Nipote di capomastro e figlio di ebanista, è piuttosto incapace di lavori manuali per cause di cui è pienamente cosciente ma che non possono interessare chi legge. Ha frequentato il Liceo Classico G.B. Morgagni di Forlì, in cui ha sperimentato cosa sia la divisione in classi della società; di quei cinque anni ha un ricordo molto deprimente. Si è laureato in Filosofia (con lode, precisa con vanità) nel 1983 presso l’Università di Bologna; aveva scelto la facoltà piuttosto improvvisamente, dopo una lunga attenzione verso Lettere, in seguito alla lettura dello Zarathustra di Nietzsche, che però è opera molto più lirico-mistica che filosofica, dunque è possibile sospettare che sia stata una decisione un po’ imprecisa. Ma ormai….

Iniziò prestissimo a scrivere: risale ai suoi otto anni il suo primo “romanzo”, ovvero una storia avventurosa (esploratori, isola misteriosa, cannibali) che orgogliosamente fece leggere al suo maestro, l’indimenticato Natale Brigliadori, il quale restituì il quadernetto le cui pagine erano solcate di decine di correzioni che lo lasciarono basito. Le sue prime prove in prosa erano peggio che mediocri, erano infami. E lo restarono per molti anni.

Dopo una prima intensissima stagione di poesia (che ora gli è del tutto estranea), si dedicò alla saggistica: storia locale (ha collaborato a lungo con giornali e riviste locali e lo fa ancora), storia contemporanea, storia delle idee, storia del pensiero esoterico rinascimentale.

Nel 2004 pubblicò il suo primo romanzo “Il fuoco, la carne” che ha vinto il Premio Todaro Faranda per il romanzo inedito. Nel 2006 fece l’errore più atroce della sua vita, che scontò dieci anni dopo con grande sofferenza
Nel 2008 pubblicò “Il patto”, che ebbe un buon successo, se si pensa che uscì con un piccolo editore come Nexus.
Nel 2011 uscì “La velocità dei corpi”, romanzo cui è molto affezionato e che considera forse la cosa migliore che ha scritto finora. Fu pubblicato da un grande editore (Piemme) che non lo lanciò come l’autore avrebbe voluto. Con Piemme pubblicò anche “Marcel Proust e l’assassinio delle Tuileries” (2014), romanzo giallo con una accuratissima ricostruzione della Parigi del 1912; nella storia, Proust risolve un caso criminale senza mai uscire di casa (e davvero Proust restava chiuso per lunghi periodi…).

Ha pubblicato diversi volumi di saggistica con la Newton Compton, a partire dal 2001, e il rapporto continua tuttora: nel 2018 è prevista l’uscita di un libro dedicato all’Emilia Romagna nella collana “Forse non tutti sanno che…”. E sempre nel 2018 è attesa l’uscita, presso l’editore Carocci, di un saggio sull’opera di Nostradamus, un saggio molto documentato e dunque molto critico.

Lo scrittore in lingua italiana che preferisce è Dante Arfelli. Ha due figli, Federico e Giacomo, che stima molto. Totalmente astemio, è moderatissimo fumatore di sigari e colleziona cartine da gioco per bambini.

Per conoscere meglio le opere di Paolo Cortesi accedi al sito www.paolo-cortesi.com
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L'officina di Nostradamus è presente in biblioteca prenotalo qui







16 aprile 2018

Le Rime - note dell’autore Giuseppe Mistretta




L’antologia le Rime, rappresenta la mia prima pubblicazione, il mio umile ingresso entro il vastissimo e variegato mondo della letteratura contemporanea.
La silloge composta da sessanta liriche è il frutto d’un lavoro creato nel tempo, considerato che le poesie sono state scritte in momenti e luoghi diversi, alcune a distanza di anni.
Il mondo della poesia è qualcosa di etereo forse solo un sentire, nel mio caso direi che s’è trattato d’un divenire, un’esigenza, certamente un dono. Il mio essere mi ha portato ad interessarmi di tutto, l’attività indagatoria artistica è partita molto presto con la musica alla quale si aggiunta la pittura e poco più tardi la scrittura.
Un paesaggio primaverile è di per sé poesia, esso può essere incastonato entro i versi oppure nella tela, in una musica o in tutte e tre le cose.
Ho fatto questo esempio perché alla “consociazione” delle arti io credo molto, così in molti casi le mie rime sono state ispirate dalla musica romantica ottocentesca, Chopin in primis, in esse le avvolgevo per farle brillare d’oro romantico.
Non fronzoli, cicisbei e maschere pirandelliane, ma ho cantato degli Ultimi, della nebbia e delle stagioni, della storia di alcuni luoghi a me molto cari, dei sensi umani, dell’amore e la fiducia verso l’umanità per i giorni a venire.
In ultimo, mi preme evidenziare quanto per me sia stato difficile impormi con il mio modo di scrivere, ciò nonostante, non ho mai mollato né creduto di dover rinunciare alla mia originalità. Sì facendo testardo come sono, ho pubblicato due libri e sono in procinto d’annunciare il terzo che dovrebbe uscire tra qualche settimana. La deriva decadentista moderna non mi entusiasma, anzi mi preoccupa molto, per quanto riconosca la validità del verso libero, preferisco scrivere cercando di non cancellare mai la radice classica e la parola aulica che in me nasce spontanea.
Io costruisco “bolle poetiche”, come un Imago, un Cantastorie romantico, per pochi istanti servendomi dell’etere della musica eccelsa, trasporto le genti in giro nel tempo sino a far apparire loro le immagini che voglio.
La poesia è pura filosofia, la scienza che abbraccia la fede, le razze che si stringono la mano, ogni cosa persino un sasso, attraverso la poesia può prendere vita, questo il poeta lo sa bene, egli avverte la responsabilità del suo dono, la parola poetica così sarà asservita al messaggio della fede, della speranza, alla divulgazione della conoscenza pura e mai edulcorata.

Giuseppe Mistretta





05 aprile 2018

Invito alla lettura: LA SIGNORA DELL’ISOLA




Il romanzo LA SIGNORA DELL’ISOLA di Madge Swindells si svolge in Corsica. Sybilia una ragazza di 16 anni viene promessa in sposa a Michel, conosciuto soltanto poche ore prima della cerimonia nuziale. Michel è un buon partito è figlio di Xavier Rocca proprietario terriero, capo del suo villaggio, Taita, e dirigente del locale Fronte Nazionale Corso.
Il matrimonio di Sybilia e Michel non viene consumato. Michel è un giovane sensibile, bello e omosessuale. Il contatto fisico con una donna lo fa rabbrividire e negli anni trenta l’omosessualità, molto più di ora, ledeva l’onore, non solo il suo, ma soprattutto quello di suo padre. Dopo qualche tempo Sybilia riesce a sedurre il marito e avere un rapporto intimo, Syblia rimane incinta e darà alla luce un bambino.
Michel presto si innamorerà di Angelo e abbandonerà la moglie e il figlioletto.



Un pomeriggio di trent’anni dopo in un caldo agosto del 1960 Sybilia uccide a colpi di fucile il suocero. Ciò appare come una vendetta, ma in realtà è la conseguenza di un segreto che tanti in paese conoscono, ma la loro ancestrale, tacita legge impone il silenzio. La donna è in grave pericolo rischia di essere linciata dalla sua gente. Nessuno tranne Jacklyn Walters, un antropologo americano che si trova a Taita, aiuterà Sybilia a mettersi in salvo e l’aiuterà anche nella ricerca della verità. Per sapere il motivo dell'omicidio di Xavier si dovrà tornare indietro nel tempo e risalire agli anni tragici dell’occupazione nazista, agli inizi della seconda guerra mondiale.
La Corsica viene occupata dai tedeschi, Sybilia, che conosce le lingue, viene reclutata dai servizi segreti inglesi con il compito di fingersi una cameriera in un albergo di Bastia dove ha sede il comando tedesco. Deve raccogliere informazioni da trasmettere agli alleati. Il capitano Robin Moore, un agente americano paracadutato in Corsica per organizzare i vari gruppi della Resistenza, entrerà nella vita di Sybilia e dalla loro storia d'amore nascerà una bimba.
Dopo la liberazione della Corsica il capitano Robin Moore riceve l’ordine di recarsi in Inghilterra per ricevere altre istruzioni, ma dopo la partenza di Robin Moore di lui non si saprà più nulla. Sarà in quell’agosto del '60 che Sybilia conoscerà la verità che l'ha portata a compiere l’omicidio del suocero. In tutti quegli anni, nell’attesa di Robin, Sybilia ha dovuto sopportare umiliazioni e disprezzo. Per avere avuto una relazione con uno straniero era stata emarginata, la gente  la chiamava: ‘’la puttana’’.
Nel romanzo l'autrice descrive accuratamente i sentimenti di ogni personaggio. Gli odi, le passioni, la nobile personalità di Sybilia; una donna colta, elegante nella figura, una donna forte, dalla quale traspare in tutto il romanzo il suo destino di donna infelice.
Leggendo LA SIGNORA DELL’ISOLA ho provato la sensazione di vivere come dentro quei luoghi selvaggi. La Corsica con le sue impervie e grandiose montagne, i suoi boschi di querce, la macchia mediterranea di mirti, i ginepri, le lavande profumate, evoca luoghi nei quali si vorrebbe vivere.
La storia del romanzo intriga sin dalla prima pagina e coinvolge il lettore fino all’ultima.

Lina Viola

Questo libro che mi ha veramente appassionato lo donerò questa estate alla biblioteca comunale. Un romanzo che v’invito a leggere.




26 marzo 2018

Don Giovanni in Sicilia e quegli sguardi di troppo




Incontro con l’Autore

Vitaliano Brancati. Un affascinante e poliedrico protagonista. Un autore dalla natura intricata e oscura, non sempre visto dalla critica con degna oggettività, la quale lo ha spesso etichettato come “colui che portò il gallismo e il dongiovannismo in Italia”.
Ahimè, mai ci fu errore più grave di questo.
Il dongiovannismo è sinonimo di vitalità, forza, vigore, coraggio, carnalità, tensione verso la più accesa virilità maschilista; elementi del tutto estranei a Giovanni Percolla e alla sua strampalata combriccola, protagonisti del romanzo Don Giovanni in Sicilia (1941). Già il titolo dimostra quella connotazione tutta siciliana dei personaggi, il che comporta una serie di tratti distintivi: primo fra tutti, quello del mero atto sessuale non più carnale, ma solo apparente, statico e a tratti platonico, poiché l’eros, colonna portante dell’opera, si regge su un'unica e sola logica: quella degli occhi e quella dello sguardo.
Don Giovanni in Sicilia non è l’unico romanzo in cui lo sguardo assume un significato pregnante, si veda Anni perduti, in cui i protagonisti sono impegnati nella costruzione di una torre, una torre da guardare, una torre da cui guardare il panorama, un guardare che si sostituisce all’agire. Lo sguardo, quindi, nasconde dei significati più profondi, che saranno ben chiari se si entra nel merito dell’opera.
Giovanni Percolla ha tre sorelle, Rosa, Lucia e Barbara. Si ricordi che Santa Lucia è la protettrice della vista e degli occhi, e Brancati non sceglieva assolutamente a caso i nomi: le sorelle, infatti, rappresentano un surrogato materno, quell'elemento che tiene Giovanni ancorato al nido, che non ne permette la crescita e la maturazione. Gli occhi, quindi, sono strettamente legati alla sfera sessuale. Perfino la sua attività lavorativa è all'insegna degli occhi, poiché “il suo lavoro al negozio si riduceva ad aiutare con gli occhi quello che facevano lo zio e i cugini”. Anche il padre non è esente dal motivo degli occhi, poiché «La notte, il commendatore Percolla fu assalito dalla febbre, e i suoi occhi ingranditi s’attaccarono alla porta come vedendo qualcosa che gli altri non vedevano» La morte si associa quindi ad una padre ipervedente, dotato di un sentire unico. Tutti i membri della famiglia, chiaramente in misura diversa, sono convulsamente trascinati nella giostra degli occhi e dello sguardo.



Veniamo quindi a Giovanni.
Il suo eros non è concreto, ma soltanto astratto e mortifero. Non si bea della carnalità, ma si associa sempre ad immagini di fissità. Non passa all’azione, ma è solo un gioco di sguardi, come nel Dolce Stil Novo, divenendo simbolo di una mancata crescita dei personaggi. Gli occhi, quindi, sono un prolungamento, o meglio una sostituzione, del membro virile, poiché essi approdano dove tutto il resto non arriva.
«“Talìa?” dicono a Catania. “Che fa, talìa” domanda a voce bassa lo studente al compagno di banco, insieme al quale, col capo chino e rigido, passa sotto il balcone di lei.» Alla fine tutto si riduce ad uno sguardo, anzi ad una talìata.
Perfino il primo incontro tra Giovanni e Ninetta è all’insegna dello sguardo: Giovanni viene, per la prima volta, talìato, questa volta non è lui ad esercitare lo sguardo sulla donna, ma a subirlo.
Dietro il motivo dello sguardo si celano ragioni ancora più inconsce e recondite, a tal proposito si vedano le condizioni in cui Giovanni venne al mondo:
«Giovannino nacque un giorno più tardi di quando doveva nascere. Per ventiquattr’ore, gli sguardi, che i parenti mandavano al grembo della madre […] furon quelli che si mandano a una tomba precoce. Il bambino, il “corazziere”, che non usciva alla luce, fu considerato morto, e il nonno del padre lo pianse con gli occhi asciutti e certi rumori della gola che somigliavano a colpi di tosse».
Come si legge, Giovanni nacque all'insegna degli sguardi rivolti al grembo della madre, visto come una tomba precoce, simboleggiando ancora un ripiegamento verso la rassicurante dimensione uterina. Il nonno del padre, invece, lo pianse con occhi asciutti, con un dolore quasi indifferente ed estraneo. Madre, padre, occhi, sono motivi ricorrenti nella psicanalisi, in relazione al cosiddetto “complesso di Edipo”, che si accecò per non vedere più quel sole che era stato testimone dell'incesto. Anche Giovanni, quindi, come Edipo, non vuole abbandonare “il nido”.
Il complesso di Edipo sembra poi tornare in Anni perduti, secondo cui «si diventa adulti quando si diventa padri» a testimonianza di una impossibilità di paternità, un’angoscia di castrazione. A proposito di ciò, si vedano “i rimproveri” della madre nei confronti del padre di Giovanni, il quale, quando era bambino, lo baciava morbosamente:
«“Smettila di baciarlo così! Gli porti via gli occhiuzzi!…”»
Secondo Freud, la paura dell’accecamento (e quindi anche quella di Edipo) consiste nell'originario e inconscio timore dell’evirazione. L’evirazione denota, ancora, impossibilità di un amplesso carnale, richiamando anche l’impotenza del Bell’Antonio, simbolo di un eros mancato. Sempre secondo Freud, il complesso di Edipo collegato al motivo degli occhi è fortemente presente nel racconto L’uomo della sabbia (o Mago sabbiolino) dello scrittore tedesco E. T. A. Hoffmann, tematica affrontata nel saggio Il perturbante.
Fra tutte le profonde relazioni che tra le due opere si possono stilare, una cattura la nostra attenzione: l’espediente della bambola. Muscarà, uno degli amici di Giovanni, tornò da un viaggio con una bambola che assomigliava molto ad una donna in carne ed ossa; l’oggetto del desiderio venne nascosto in casa di Muscarà, poiché esso consisteva nell'elemento “perturbante”, un particolare inquietante che suscitava anche attrazione. La bambola avrebbe sconvolto la loro routine, rischiando di far “passare all'azione” i personaggi confrontandoli con una realtà più corporea rispetto a quella in cui avevano vissuto, per questo doveva essere celata.
Anche nel racconto di Hoffman è presente una bambola, Olimpia, la quale si rivelerà essere, alla fine del racconto, un automa, una bambola senz’anima.
Il motivo degli occhi e dello sguardo connesso al complesso di Edipo è presente anche nell'ultima eredità che lo scrittore ci ha lasciato, Paolo il Caldo. Il protagonista ci consegna un triste e malinconico soliloquio:
«Lo sforzo costante della mia vita è stato di vedere la luce del mondo (che per me è quella della Sicilia) dalla parte ridente, ed espellere dal cervello le influenze della sua ripresa buia, dalla quale derivano l'apprensione e la lussuria.
Non vi sono riuscito sempre. I periodi, in cui non vi sono riuscito, portano il nome di esaurimento nervoso. Che cosa era esaurito in me? Il fosforo, dicevano i medici. E questa diagnosi mi piaceva in modo particolare, perché fosforo vuol dire luce. In uno di tali periodi, mi son trovato seduto su un gradino del teatro greco di Siracusa, a una rappresentazione dell'Edipo a Colono di Sofocle. Quando il vecchio cieco gridò, con un gesto falso:
"Luce, che nella mia vivente tenebra più non vedevo, e sempre eri pur mia…" io ebbi un capogiro. Il verso, nonostante il gesto falso da cui era accompagnato, sembrava avesse premuto, come il dito di un chirurgo che operasse sul mio cervello, il punto in cui sono concentrate le forze della coscienza e della veglia.
»
Come si evince, il protagonista è consapevole di un suo oscuramento della coscienza, di un tragico conflitto interiore, va quindi alla ricerca della "luce" (motivo presente anche in Anni perduti), senza la quale la mente è ottenebrata dall'apprensione e dalla lussuria. E della stessa luce va alla ricerca Edipo che, dopo l'accecamento, viveva nelle tenebre.
Ricordiamo che il Novecento è il secolo della psicanalisi, dell’inconscio, del monologo interiore, del flusso di coscienza, basti tener presente l'Ulisse di James Joyce e La coscienza di Zeno di Italo Svevo (il cui protagonista, guarda un po’, è afflitto dal complesso di Edipo).
L’analisi riportata denota quindi una grande attenzione di Vitaliano Brancati al panorama novecentesco della letteratura italiana e straniera, un autore che, in virtù delle sue mille risorse e dei numerosi spunti di riflessioni, non può e non deve essere ridotto ad anguste etichette.
Spogliamo quindi i preziosi scritti del Brancati da tutte quelle nomee astruse e da quelle classificazioni riduttive, andiamo alla loro natura più intima ed essenziale, di una tempra tutta siciliana. Gettiamogli quindi uno sguardo, anzi, una talìata.


Anna Marotta


27 dicembre 2017

Il cane Bendicò è la chiave di lettura del Gattopardo




Il secondo appuntamento dell’”Incontro con l’Autore”, svoltosi sabato 23 dicembre, ha visto protagonista Giuseppe Tomasi di Lampedusa col suo titanico Gattopardo. Diversi gli spunti di riflessione emersi, sia sui controversi anni in cui il romanzo è ambientato, sia sulla profonda simbologia dell’opera.
Riguardo quest’ultima, di pregnante significato è la presenza dell’alano Bendicò, fedele alleato del Principe di Salina. In realtà, fu lo stesso scrittore a sottolinearne l’importanza in una lettera inedita, inviata da Tomasi il 30 maggio del 1957 al suo amico, il barone Enrico Merlo di Tagliavia, presentandolo coma la chiave di lettura del romanzo stesso.
È necessario premettere la poliedricità della razza: per via della poderosa stazza, fino al Medioevo veniva utilizzato come cane da guerra, per poi divenire un fedele custode di castelli e salotti nobili, come simbolo di regalità ed eleganza. A ciò si associa il suo fondamentale ruolo nella caccia: grazie al suo aspetto longilineo e alla velocità, ha il compito di inseguire la preda fino a farla stancare, per poi lasciare l’infausto compito al cacciatore. Si veda quindi come l’alano non tolga la vita, quasi posizionandosi in un confine labile tra vita e morte, binomio che sarà più chiaro nell'ottica del romanzo.
Il Gattopardo ha come protagonista il Principe di Salina che, sullo sfondo dello sbarco dei Mille a Marsala, assiste alla decadenza della sua classe nobiliare, conservatrice e tradizionalista, e all'arrivismo dei nuovi ricchi, il tutto vissuto in maniera disincantata, con un moto di rassegnazione. Ma il Gattopardo è molto di più: esso è il romanzo dell’immobilismo, della Sicilia che ha un tempo senza tempo, della stasi, dove nulla può cambiare. Ma l’immobilismo si associa al trasformismo, che non è sinonimo di trasformazione, poiché anche ciò che sembra cambiare in realtà rimane com'è, il tutto perfettamente esemplificato nella frase pronunciata da Tancredi, nipote del Principe: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.
Quindi la controversa logica della stasi e del moto, della morte e della vita, dell’immobilismo e del trasformismo è la colonna portante dell’opera, e lo stesso Bendicò diventa compartecipe di tale contraddittorietà, comparendo in punti strategici del romanzo e rappresentando di volta in volta vita o morte,  stasi o moto, per poi occupare prepotentemente la scena nel finale.
Al momento della sua prima comparsa, è evidente già il suo cruciale ruolo: il cane, rattristato dalla propria esclusione, entrò e scodinzolò esattamente al termine della recitazione del rosario, quasi a voler spezzare, con la sua irrompente vitalità, una quadro di religiosità fatto di rito, apparenza, finzione.
Il moto e la vita saranno ancora a lui associati, come quando è definito eccitatissimoaffannato dal proprio dinamismo, o impegnato affannosamente nelle devastazioni delle aiuole, dietro cui si nascondono, probabilmente, le devastazioni dei garibaldini, poiché il cane rivolgeva a lui gli occhi innocenti come per esser lodato del lavoro compiuto: quattordici garofani spezzati, mezza siepe divelta, una canaletta ostruita. Sembrava davvero un cristiano.
Bendicò appare poi accanto alla morte, all’immobilismo. Nel giardino viene nauseato dall’odore delle rose, infatti si ritrasse nauseato e si affrettò a cercare sensazioni più salubri fra il concime e certe lucertoluzze morte. In un passo del romanzo il Principe porta con sé Bendicò nei “carnaggi” e, poco dopo aver osservato degli agnellini squartati, quattro paia di galline attaccate per le zampe si dibattevano per paura sotto il muso inquirente di Bendicò. “Anche questo un esempio d’inutile timore” pensava “il cane non rappresenta per loro nessun pericolo; neppure un osso se ne mangerà, perché gli farebbe male alla pancia.” Il passo, oltre che richiamare l’attività della caccia dell’alano, sembra denunciare l’inutilità delle stragi e della rivoluzione, poiché nessuno ne trarrebbe beneficio, né vinti e né vincitori, essendo il cambiamento solo apparente.
Vita e morte, moto e stasi, sono perfettamente esemplificati nel finale. Dopo molti anni dalla sua morte, il cane appare imbalsamato, nell'inutile tentativo di eternare la regalità della classe nobiliare. Ma egli diviene simbolo di un gattopardo degradato, che nel suo volo fuori dalla finestra sembra muovere le zampe nell'aria; quindi qualcosa di inanimato (ma che vuole essere vivo, poiché imbalsamato) prende vita, in un continuo gioco tra apparenza e realtà. Ma quest’impeto di vita è solo un’illusione, come lo è il cambiamento; tutto, infatti, si trasforma in un mucchietto di polvere livida. D'altronde Tomasi ci aveva già annunciato che tutti gli uomini sono destinati a diventare polvere, e lo aveva fatto con un andamento circolare all'inizio del romanzo, con la preghiera Nunc et in hora mortis nostrae.

Anna Marotta

26 dicembre 2017

Incontro con l'Autore: Giuseppe Tomasi di Lampedusa


Sul Blog del “placido don” padre Carà, è stata pubblicata la cronaca della serata di Incontro con l’Autore. Vogliamo riproporvela integralmente a conclusione di quest’anno, così importante per le iniziative che l’Associazione persegue e si propone di conseguire; per amore della cultura tout court e l’amore per il nostro paese. Queste sono le uniche motivazioni che impegnano e sostengono gli Amici della Biblioteca. Invitiamo tutti: insegnanti, professionisti, giovani e meno giovani, senza preclusioni per nessuno. L'invito di avvicinarsi alla vita dell’Associazione è rivolto a tutte le persone che amano Pietraperzia.



Il ciclo di conferenze storico/letterarie “Incontro con l’Autore” organizzato dall'Associazione “Amici della Biblioteca di Pietraperzia” è giunto al suo secondo appuntamento, svoltosi alle porte del Natale, il 23 dicembre alle ore 19:30 presso la Sala Dionigi del Chiostro di S. Maria.

In una fredda sera d’inverno è stata data luce allo scrittore siciliano Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957) col suo sontuoso Gattopardo pubblicato postumo, nel 1958. Diversi linguaggi si sono intrecciati e hanno allietato il caloroso pubblico: la storia, la letteratura, l’arte drammatica, cinematografica e la musica. 

Acquarello di Nicolò Speciale
Diversi i momenti interessanti della serata, curati meticolosamente dall’Associazione. L’incontro si è aperto con la proiezione di alcuni spezzoni del colossale film “Il Gattopardo” di Luchino Visconti, tratto dal romanzo omonimo. A seguire il moderatore Francesco Lalomia, che ha fornito intriganti curiosità sul gattopardo come specie felina e sul significato che si cela dietro il titolo del romanzo. Brillante poi l’intervento della dottoressa Valeria Bongiovanni, che ha fatto luce sull’ambientazione storica del romanzo e sui controversi anni del Risorgimento, non sempre tramandato dai manuali con la giusta oggettività storica. La scrittrice Lucia Miccichè ha sapientemente letto e recitato le parti più significative del romanzo, accompagnata dal dotto commento della dottoressa Anna Marotta, la quale ha messo in evidenza il profondo simbolismo e le chiavi di lettura dell’opera. Si è approfondita, inoltre, la travagliata vicenda editoriale dell’opera. L’allietante spazio musicale è stato curato dall’Associazione “Musica è Vita”, ad opera della professoressa Teresa Rapisardi alla tastiera, il giovane Stefano Guarneri al violino e il coro di bambini e adulti, impegnato nell’esecuzione dell’inno di Sicilia “Madre Terra”.

L’Associazione appena nata si mostra quindi zelante nel panorama culturale, portando avanti propositi ambiziosi e di alto livello culturale. Il moderatore ha infatti ricordato gli interessanti progetti in cantiere: oltre ai già avviati “Lettura Creativa” e “Incontro con l’Autore”, seguirà la seconda importante donazione di libri alla Biblioteca comunale di Pietraperzia, oltre che il progetto “Mappa Libri”, con lo scopo di far nascere nella cittadinanza pietrina l’amore per la lettura.

Partendo dal verista Verga e passando all'aristocratico Tomasi, si esploreranno pian piano tutti i meandri della nostra cara letteratura siciliana, grazie all'amore e la passione che caratterizza l’Associazione e il proficuo zelo dei soci. Al prossimo autore, con nuovi e stimolanti percorsi letterari da scoprire.

Giuseppe Carà



02 novembre 2017

La Lupa tra Eros e Thanatos

L’entusiasmo acceso dalla serata “Incontro con l’Autore” fa fatica a scemare nell’animo dei protagonisti, degli organizzatori e della folla di uditori, pertanto è doveroso un ultimo
atto:  tirar fuori dagli scaffali polverosi un personaggio verghiano, conditio sine qua non perché lo scrittore torni a sonnecchiare ripiegato tra una pagina e l’altra, in attesa del prossimo famelico lettore.
L’arduo compito tocca proprio a gnà  Pina, la Lupa, forse il più contorto dei personaggi usciti dalla sua penna. La novella, inclusa nella raccolta Vita dei campi pubblicata nel 1880, tocca probabilmente gli echi più alti del pessimismo verghiano: una donna avulsa dalla morale e dal perbenismo femminile della stantia Sicilia, vive totalmente immersa nella passione e nelle pulsioni del suo corpo, seducendo il genero Nanni e tradendo la figlia Maricchia. Una vinta, nell’ottica secondo cui i vinti siano le ostriche che si distaccano dallo scoglio, coloro che infrangono le darwiniane e immutabili leggi, coloro che non si adeguano al loro status sociale e naturale (la donna martire dedita al sacrificio, come molte figure femminili presenti nei Malavoglia), per questa ragione essa soccomberà alla follia incontenibile di Nanni. Eppure neanche coloro che sembrano seguire il vademecum verghiano sono esenti dalla fiumana: Il genero è tormentato dai sensi di colpa e si macchia di omicidio, Maricchia subisce un duplice tradimento ed è sempre descritta come remissiva e piagnucolante, una lupacchiotta.




D’altro canto la Lupa, nella gravitas che caratterizza il finale, va incontro al suo assassino fiera e superba, consapevole del suo destino ma non per questo turbata, tiene in mano dei papaveri rossi simbolo dell’accecante passione che l’ha divorata in vita, ma rosso è anche il colore del sangue che da lì a poco si verserà, sembra quasi rivelarci il mistero dello yin e dello yang, dell’Eros e del Thanatos. Può definirsi una vinta colei che fino alla fine dei suoi giorni vive con una tale fierezza, cosciente di aver vissuto in simbiosi con la sua essenza più intima? Già la contraddittorietà del personaggio ci viene annunciata nell’incipit, secondo cui: “Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna - e pure non era più giovane - era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano”.

La verità è una sola: la verità non esiste. D’altronde Verga era siciliano, come Pirandello, come Sciascia, come noi che aneliamo certezze in una terra che, per sua natura, non può darne.

Buonanotte Verga, puoi tornare ad appisolarti, se vuoi.

Anna Marotta



31 ottobre 2017

Incontro con l'autore: genealogia di un progetto

È una mattina di luglio. Sulle colline d'oro del piccolo paese i raggi del sole penzolano stanchi e pesanti, quasi fossero avvolti anche loro dal soffocante abbraccio della calura estiva. Tutto sembra assopito e immobile. 
Due ragazze sedute in biblioteca, dialogano con gli scrittori del passato: Dante, Petrarca, Boccaccio. I libri della grande stanza stanno acquattati di tergo sugli scaffali, come soldati in trincea in attesa d'azione. I loro dorsi stampati ammiccano - vecchi occhi - promesse di conoscenza nuova. "Storia di una capinera", "Il giorno della civetta", "Tommaso e il fotografo cieco"... Saggi vegliardi zittiti dal tempo, in attesa di un ventriloquo che animi i loro ventri gravidi di parole e ad un tempo muti. Perché non dar loro voce?
Da ventriloque, dunque, non da esperte declamatrici, abbiamo ascoltato l'urlo sordo degli autori che volevano dialogare con noi; abbiamo colto il boccheggiare silenzioso delle emozioni, come pesci in una boccia in attesa di essere infranta; abbiamo voluto abbattere la barriera di vetro delle copertine chiuse sulle pagine stampate.



Il siciliano è un ammiratore nato, uno che ovunque vada spalanca gli occhi di ammirazione per le bellezze che lo circondano, per il valore delle ricchezze possedute dagli altri. Ma spesso ignora il valore delle proprie. Nasce così un progetto: una serie di incontri che diano voce a questi autori, ai Nostri autori siciliani, trepidanti scrittori di messaggi meravigliosi, le cui pagine custodiscono i connotati della nostra stessa identità.
Cenacoli, più che conferenze, per cibarci tutti insieme delle ricche portate della nostra Letteratura, per condividere e riscoprire quanto quelle pagine siano più attuali che mai. Ne ripercorreremo la vita, i capolavori, i fotogrammi dei film che ne hanno celebrato le opere e, durante le letture ad alta voce, le emozioni si vestiranno di musica.
Ad inaugurare la serie di incontri Giovanni Verga, l'autore che dai piedi dell'Etna ci ha restituito una preziosa istantanea della società siciliana alle porte del nuovo secolo. Jeli il pastore, Maruzza, la Lupa, l'amante di Gramigna infuocata di passione... Sono poi così lontani da noi?
Infondo i Tre Re che luccicavano sulla testa di 'Ntoni e sui suoi tormenti, sono gli stessi che stasera brillano su di noi... e chissà se qualcuno dei suoi pensieri non è anche il nostro.

Valeria Bongiovanni



30 ottobre 2017

PIETRAPERZIA. INIZIATIVA CULTURALE VALORIZZANDO LE OPERE DI GIOVANNI VERGA


È stato presentato alla serata “Incontro con l’Autore”. La manifestazione, promossa dalla associazione “Amici della Biblioteca di Pietraperzia”. A fare gli onori di casa, i vertici della associazione tra cui la presidente Lucia Miccichè oltre ad Anna Marotta, Valeria Bongiovanni e Francesco Lalomia. L’evento si è tenuto nella sala conferenze dell’ex convento Santa Maria di Gesù di piazza Vittorio Emanuele. Tra i presenti, gli assessori comunali Laura Corvo e Chiara Stuppia e il presidente del consiglio comunale Rocco Miccichè. 
acquarello di
Nicolò Speciale
In sala campeggiava un ritratto di Giovanni Verga realizzato dall’artista pietrino Nicolò Speciale. Durante la serata, ci sono stati numerosi intermezzi musicali con la pianista Teresa Rapisardi, il violinista Stefano Guarneri e Giuseppe Tramontana, sax contralto. Sono stati eseguiti Intermezzo Sinfonico, Preludio e Siciliana (dalla Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni). Ad apertura della serata, presentato uno spezzone del film “La Terra Trema”, 1948, di Luchino Visconti. Subito dopo, Francesco Lalomia ha spiegato le origini dell’associazione “Amici della Biblioteca di Pietraperzia”. “
È il primo di vari incontri – ha continuato Lalomia – per la presentazione di autori siciliani”. Ha detto poi che “il primo gruppo di 19 volumi è stato donato dalla Associazione alla biblioteca comunale di Pietraperzia”. Poi si è posto una domanda: ”Quale futuro aspetta il libro?”. Ha poi sottolineato il valore inestimabile dei libri. “Il bracciantato – ha aggiunto Lalomia – era di estremo precariato ed ha avviato un processo di emigrazione sconvolgente”. Anna Maria Marotta: “La corrente neorealistica ha dato lustro, nel passato, al cinema italiano”. Ha poi sottolineato analogie e differenze tra il film e il romanzo i Malavoglia. Tra le prime, “l’ambientazione, proverbi e modi di dire, paesaggio desolante che partecipa ai sentimenti dei protagonisti”. Tre la differenze. la cronologia. Valeria Bongiovanni: “Il nostro obiettivo suscitare la curiosità di riscoprire Giovanni Verga, le sue opere e il suo pensiero”. “Vogliamo condividere con voi – ha continuato Valeria Bongiovanni – la bellezza della nostra letteratura”. Ha poi parlato dell’ostrica attaccata allo scoglio.E ha concluso: “Dentro l’ostrica c’è una perla che noi cogliamo e facciamo rivivere”.
Subito dopo, la scrittrice pietrina Lucia Miccichè ha declamato, in maniera molto artisticae con grande pathos, numerose pagine dei Malavoglia. A tutti gli intervenuti è stato donato un Cd. Il supporto multimediale contiene l’ebook “Tigre Reale”, l’Audio Book “Rosso Malpelo”, “Interviste Impossibili a Giovanni Verga”. Altri contenuti del cd, opera lirica “Cavalleria Rusticana” di Pietro Mascagni, il film “Storia di una capinera” e Quiz su Giovanni Verga a cura di Francesco Lalomia. Al termine della serata, un ricco buffet con prodotti preparati dai soci della Associazione “Amici della Biblioteca”.


GAETANO MILINO