Incontro con l’Autore
Vitaliano Brancati. Un affascinante e poliedrico protagonista. Un autore dalla natura intricata e oscura, non sempre visto
dalla critica con degna oggettività, la quale lo ha spesso etichettato come “colui
che portò il gallismo e il dongiovannismo in Italia”.
Ahimè, mai ci fu errore più grave di
questo.
Il dongiovannismo è sinonimo di
vitalità, forza, vigore, coraggio, carnalità, tensione verso la più accesa
virilità maschilista; elementi del tutto estranei a Giovanni Percolla e alla
sua strampalata combriccola, protagonisti del romanzo Don Giovanni in Sicilia (1941). Già il titolo dimostra quella
connotazione tutta siciliana dei personaggi, il che comporta una serie di tratti
distintivi: primo fra tutti, quello del mero atto sessuale non più carnale, ma
solo apparente, statico e a tratti platonico, poiché l’eros, colonna portante
dell’opera, si regge su un'unica e sola logica: quella degli occhi e quella
dello sguardo.
Don
Giovanni in Sicilia non è l’unico romanzo in cui lo sguardo
assume un significato pregnante, si veda Anni
perduti, in cui i protagonisti sono impegnati nella costruzione di una
torre, una torre da guardare, una torre da cui
guardare il panorama, un guardare che si sostituisce all’agire. Lo sguardo,
quindi, nasconde dei significati più profondi, che saranno ben chiari se si
entra nel merito dell’opera.
Giovanni Percolla ha tre sorelle, Rosa, Lucia e Barbara. Si
ricordi che Santa Lucia è la protettrice della vista e degli occhi, e Brancati
non sceglieva assolutamente a caso i nomi: le sorelle, infatti, rappresentano
un surrogato materno, quell'elemento che tiene Giovanni ancorato al nido, che
non ne permette la crescita e la maturazione. Gli occhi, quindi, sono
strettamente legati alla sfera sessuale. Perfino la sua attività lavorativa è
all'insegna degli occhi, poiché “il suo lavoro al negozio si
riduceva ad aiutare con gli occhi quello che facevano lo zio e i cugini”. Anche
il padre non è esente dal motivo degli occhi, poiché «La notte, il commendatore
Percolla fu assalito dalla febbre, e i suoi occhi ingranditi s’attaccarono
alla porta come vedendo qualcosa che gli altri non vedevano» La morte si
associa quindi ad una padre ipervedente,
dotato di un sentire unico. Tutti i membri della famiglia, chiaramente in
misura diversa, sono convulsamente trascinati nella giostra degli occhi e dello
sguardo.
Veniamo quindi a Giovanni.
Il suo eros non è concreto, ma soltanto
astratto e mortifero. Non si bea della carnalità, ma si associa sempre ad
immagini di fissità. Non passa all’azione, ma è solo un gioco di sguardi, come
nel Dolce Stil Novo, divenendo simbolo di una mancata crescita dei personaggi. Gli occhi,
quindi, sono un prolungamento, o meglio una sostituzione, del membro virile, poiché
essi approdano dove tutto il resto non arriva.
«“Talìa?”
dicono a Catania. “Che fa, talìa” domanda a voce bassa lo studente al compagno di banco, insieme al quale, col
capo chino e rigido, passa sotto il balcone di lei.» Alla fine tutto si riduce
ad uno sguardo, anzi ad una talìata.
Perfino il primo incontro tra Giovanni e
Ninetta è all’insegna dello sguardo: Giovanni viene, per la prima volta, talìato, questa volta non è lui ad
esercitare lo sguardo sulla donna, ma a subirlo.
Dietro il motivo dello sguardo si celano
ragioni ancora più inconsce e recondite, a tal proposito si vedano le
condizioni in cui Giovanni venne al mondo:
«Giovannino nacque un giorno più tardi
di quando doveva nascere. Per ventiquattr’ore, gli sguardi, che i parenti
mandavano al grembo della madre […] furon quelli che si mandano a una tomba
precoce. Il bambino, il “corazziere”, che non usciva alla luce, fu considerato
morto, e il nonno del padre lo pianse con gli occhi asciutti e certi rumori
della gola che somigliavano a colpi di tosse».
Come
si legge, Giovanni nacque all'insegna degli sguardi rivolti al grembo della
madre, visto come una tomba precoce, simboleggiando ancora un ripiegamento
verso la rassicurante dimensione uterina. Il nonno del padre, invece, lo pianse con occhi asciutti, con
un dolore quasi indifferente ed estraneo. Madre, padre, occhi, sono motivi
ricorrenti nella psicanalisi, in relazione al cosiddetto “complesso di Edipo”, che si accecò per non vedere più
quel sole che era stato testimone dell'incesto. Anche Giovanni, quindi, come Edipo, non vuole
abbandonare “il nido”.
Il complesso di Edipo sembra poi tornare
in Anni perduti, secondo cui «si diventa adulti quando si diventa padri» a
testimonianza di una impossibilità di paternità, un’angoscia di castrazione. A
proposito di ciò, si vedano “i rimproveri” della madre nei confronti del padre
di Giovanni, il quale, quando era bambino, lo baciava morbosamente:
«“Smettila di baciarlo così! Gli porti
via gli occhiuzzi!…”»
Secondo Freud, la paura dell’accecamento
(e quindi anche quella di Edipo) consiste nell'originario e inconscio timore dell’evirazione. L’evirazione denota, ancora, impossibilità di
un amplesso carnale, richiamando anche l’impotenza del Bell’Antonio, simbolo di un eros mancato. Sempre secondo Freud, il
complesso di Edipo collegato al motivo degli occhi è fortemente presente nel
racconto L’uomo della sabbia (o Mago sabbiolino) dello scrittore tedesco
E. T. A. Hoffmann, tematica affrontata nel saggio Il perturbante.
Fra tutte le profonde relazioni che tra le due
opere si possono stilare, una cattura la nostra attenzione: l’espediente
della bambola. Muscarà, uno degli amici di Giovanni, tornò
da un viaggio con una bambola che assomigliava molto ad una donna in carne ed
ossa; l’oggetto del desiderio venne nascosto in casa di Muscarà, poiché esso
consisteva nell'elemento “perturbante”, un particolare inquietante che
suscitava anche attrazione. La bambola avrebbe sconvolto la loro routine, rischiando
di far “passare all'azione” i personaggi confrontandoli con una realtà più
corporea rispetto a quella in cui avevano vissuto, per questo doveva essere
celata.
Anche nel racconto di Hoffman è presente
una bambola, Olimpia, la quale si rivelerà essere, alla fine del racconto, un
automa, una bambola senz’anima.
Il motivo degli occhi e dello sguardo connesso al complesso di Edipo è presente anche nell'ultima eredità che lo scrittore ci ha lasciato, Paolo il Caldo. Il protagonista ci consegna un triste e malinconico soliloquio:
«Lo sforzo costante della mia vita è stato di vedere la luce del mondo (che per me è quella della Sicilia) dalla parte ridente, ed espellere dal cervello le influenze della sua ripresa buia, dalla quale derivano l'apprensione e la lussuria.
Non vi sono riuscito sempre. I periodi, in cui non vi sono riuscito, portano il nome di esaurimento nervoso. Che cosa era esaurito in me? Il fosforo, dicevano i medici. E questa diagnosi mi piaceva in modo particolare, perché fosforo vuol dire luce. In uno di tali periodi, mi son trovato seduto su un gradino del teatro greco di Siracusa, a una rappresentazione dell'Edipo a Colono di Sofocle. Quando il vecchio cieco gridò, con un gesto falso:
"Luce, che nella mia vivente tenebra più non vedevo, e sempre eri pur mia…" io ebbi un capogiro. Il verso, nonostante il gesto falso da cui era accompagnato, sembrava avesse premuto, come il dito di un chirurgo che operasse sul mio cervello, il punto in cui sono concentrate le forze della coscienza e della veglia.»
Come si evince, il protagonista è consapevole di un suo oscuramento della coscienza, di un tragico conflitto interiore, va quindi alla ricerca della "luce" (motivo presente anche in Anni perduti), senza la quale la mente è ottenebrata dall'apprensione e dalla lussuria. E della stessa luce va alla ricerca Edipo che, dopo l'accecamento, viveva nelle tenebre.
Ricordiamo che il Novecento è il secolo
della psicanalisi, dell’inconscio, del monologo interiore, del flusso di
coscienza, basti tener presente l'Ulisse
di James Joyce e La coscienza di Zeno
di Italo Svevo (il cui protagonista, guarda un po’, è afflitto dal complesso di
Edipo).
L’analisi riportata denota quindi una
grande attenzione di Vitaliano Brancati al panorama novecentesco della
letteratura italiana e straniera, un autore che, in virtù delle sue mille
risorse e dei numerosi spunti di riflessioni, non può e non deve essere ridotto
ad anguste etichette.
Spogliamo quindi i preziosi scritti del
Brancati da tutte quelle nomee astruse e da quelle classificazioni riduttive,
andiamo alla loro natura più intima ed essenziale, di una tempra tutta
siciliana. Gettiamogli quindi uno sguardo, anzi, una talìata.
Anna Marotta