Condizioni sociali ed economiche tra inizio 900 e Primo Dopoguerra.
All’inizio,
questa mia descrizione potrebbe apparire autolesiva e denigratoria, ma è una
fotografia reale della maggior parte dei comuni siciliani a vocazione
agro-pastorale, scattata nel primo ventennio del 1900.
L’analfabetismo
era molto diffuso e le 12.000 anime di allora, a Pietraperzia, come in tutto il centro Sicilia, vivevano in una economia ancora basata sul latifondo, senza servizi pubblici, ancora con poche e precarie strade di collegamento e con un commercio quasi del tutto assente. Un mondo chiuso in una condizione di miseria e di fame. Vivevano in aggregati di famiglie
numerose, compressi in un fazzoletto di territorio abitativo, esteso forse,
meno di un terzo dell’attuale. Alle spalle di questo sodalizio era già aperta
campagna, “la si̢rbia” (arabo xirbi = pietraia).
Quella che
diventerà poi via Stefano Di Blasi era una strada rurale a fondo naturale, almeno
fino al 6 Maggio 1914, giorno in cui il già Sindaco Stefano Di Blasi passò a
miglior vita, ed arrivava alla rotonda della Santa Croce, punto di sosta e
d’incontro per chi faceva passeggiate fuori porta. Dalla parte verso Ovest il
paese declinava da via Mandre (mànniri)
verso la fine di Corso Umberto “li
carrozzi” e verso la parte finale della discesa Leone “l’urtu di liju̢ni”. A levante, a Sud del castello, come oggi, il
quartiere Terruccia arrivava fino
alla chiesetta rurale dello Spirito Santo, oggi Santa Lucia. Più giù, attaccate
alle ultime abitazioni, c’erano case di pastori ed ovili.
Tutte
le case erano intensamente abitate. I più agiati disponevano di stalla per gli
animali e di locali a piano terra per attrezzi agricoli e derrate alimentari.
Le persone occupavano il primo o piani più alti. I meno fortunati disponevano
di case a piano terra, e spesso di un solo locale che spartivano con la
numerosa famiglia, l’animale da soma, i conigli, le galline, la capra ed altro.
Oltre
alle 12.000 anime si contavano quasi 4.000 animali da soma e un numero
imprecisabile di animali da cortile per le strade che la sera trovava posto
all’interno delle abitazioni.
Pietraperzia
era una comunità, come già detto, a vocazione agro-pastorale con tanti
latifondisti, un Principato, alcuni baronati, bburgi̢si, piccoli proprietari, mezzadri e molti jurnatàra.
Forse
è meglio insistere di più sulla suddivisione del territorio per fare emergere
le precarie condizioni socio-economiche di allora.
Il
grosso del nostro territorio, suddiviso in feudi, apparteneva a ricchi e
nobili. Ogni feudo, frazionato in spezzoni, generalmente di due, tre o quattro
ettari, era affidato ad un mezzadro che espletava, con mezzi tradizionali,
tutti i lavori, dalla semina al raccolto e alla fine, per il compenso annuo,
spartiva il prodotto col proprietario.
Li mitatìri costituivano la categoria più numerosa.
Ogni
mezzadro possedeva la cavalcatura e l’aratro, mezzi necessari per l’aratura, la
semina e la trebbiatura, e si considerava contadino impiegato a posto fisso.
Jurnatàru era il contadino
nullatenente, non possedeva cavalcatura e nemmeno attrezzi o solo fànci e zzappù̢ni, non aveva lavoro fisso e di tanto in tanto
lavorava a giornate.
Bburgi̢si era il contadino
agiato, proprietario di terre o di bestiame; a volte ricorreva all'impiego di
altro personale per la coltivazione delle sue proprietà e/o l'allevamento del
bestiame.
Piccolo
proprietario era un professionista, un impiegato, un putìjaru o un artigiano possessore di alcuni ettari di terreno.
Non
esistevano “ammortizzatori” sociali. L’assistenza sanitaria era affidata
all’unico medico condotto.
Per
quel poco che potevano offrire c’erano i sodalizi di mutuo soccorso:
aggregazioni per ceto di volontari tuttora esistenti: Società Operaia Regina
Margherita, Società Militari in Congedo, Società Carrettieri, e le varie
Confraternite, quella di S. Giuseppe, quella di Santa Maria del Soccorso o
degli Agonizzanti, quella della Caterva, del Rosario, di S. Rocco. Nei loro
statuti erano previsti rimborsi di spese funerarie e assistenza medica per
l’iscritto e i familiari e altri interventi possibili per aiutare un proprio
affiliato in difficoltà.
In
piazza S. Rocco si radunavano jurnatàra,
manovali muratori e datori di lavoro per contrattare prestazioni di manodopera.
“li jurnatàra” fortunati, dopo avere
concordato l’ammontare della misera paga si davano appuntamento l’indomani per
raggiungere all’alba e a piedi la campagna, a volte distante dal centro abitato
alcuni chilometri. Non sempre, lungo il percorso di ritorno, riuscivano a
strappare, al terreno dei bordi della strada, qualche verdura commestibile da
portare a casa per il condimento di un’eventuale minestra calda.
Le
giornate lavorative nei campi erano scandite dal sorgere e dal tramontare del
sole.
Dopo
un anno di duro e faticoso lavoro il contadino fortunato riusciva ad
accantonare il minimo necessario per se, la famiglia e la mula.
Non
c’era rete idrica e nemmeno rete fognaria.
L’unica
fonte di approvvigionamento idrica era il fonte canale che pochi anni prima era
stato dotato di un grande abbeveratoio ottagonale, per gli animali da soma, e
di una serie di cannelle per il riempimento delle brocche di terracotta “quartàri”. Provvedevano all'approvvigionamento gli uomini quasi sempre al ritorno di una faticosa
giornata lavorativa e diventava problematico per loro accedere alle cannelle a
causa della grande ressa che si determinava all'imbrunire e causa spesso di discussioni e litigi.
Giovanni Culmone
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