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23 marzo 2018

INTERVISTA IMPOSSIBILE A VITALIANO BRANCATI. Una chiacchierata sull’Amore




Per quanto si possa parlare di un Autore, per quanto si possano leggere e commentare le sue opere, si ha sempre la sensazione che gran parte del suo pensiero rimanga nell’abisso dell’inesprimibile, del non-detto. Questa pseudo-chiacchierata con Vitaliano vuole rubare all’ombra ancora un piccolo lembo del suo pensiero e offrire alla luce ancora una parte della sua concezione della Vita.
Sono in sala d’attesa nell’anticamera dei cieli, circondata da una gran folla. Tutti chiedono di Vitaliano. Mentre ripasso con lo sguardo ancora qualche appunto sulla sua vita col block notes fra le mani, mi meraviglio che così tanta gente lo conosca. Scruto gli astanti: sono giovani, perlopiù uomini fra i venti e i quarant’anni. Molti hanno un aspetto curato e sicuro di sé, come predatori all’attacco saettano le donne della sala con sguardi maliziosi; altri, al contrario, sono timidi e insicuri; i loro sguardi sembrano creature spaurite che si aggirano per una radura senza la protezione della madre né di una fronda che faccia loro ombra, ansiosi di nascondersi dietro il primo cespuglio che si offra loro.
Le due categorie fanno gruppo ciascuna da una parte diversa della sala. Un’immagine grottesca e curiosa: sembrava che un capriccioso Mosè si fosse divertito a separarle come le acque del Mar Rosso, la Baldanza da un lato e la Pavidità dall’altro.
Ad interrompere le mie riflessioni sul curioso campionario umano, da dietro una porta, come un ronzio di una voce irata, ma non di un iracondo per natura, bensì di qualcuno che, punzecchiato oltremisura, perda d’improvviso la pazienza, e forzi perciò l’eleganza della sua voce in un momentaneo e attoriale sfogo d’ira: «Ma insomma, basta con queste richieste! Tutto credevo di essere ricordato dopo la morte, tranne che come il mental coach per la conquista dell’altro sesso! Selezionate, selezionate!».
Realizzo d’improvviso l’accaduto e mi si fa chiaro il motivo della copiosa presenza maschile nella sala. Un uomo sbuca da una porta a vetro, scruta con lo sguardo nella mia borsa la pila di libri dell’autore e, indovinato il block notes fra le mie mani chiuse, mi invita ad entrare.

B. Ah, una donna! (Tira un respiro di sollievo). Almeno lei non mi farà richieste assurde su come diventare il perfetto Don Giovanni!

V. (Chiudo la porta alle mie spalle e saluto con una punta di timidezza. Dalla penombra affiorano due occhi, dietro le cui fessure intravedo un abisso, penetranti e dolci, sovrastati da due sopracciglia perfette, scure e nette che, dopo un attimo di distrazione, rimbalzano il mio sguardo sulle iridi scure. E mi trovo occhi negli occhi con Vitaliano. Lui non disturba il mio silenzio. Mentre lo osservo sul suo volto si sovrappongono più volti: quello seducente di un arabo dall’incarnato e dalle iridi scure; quello elegante di un normanno dai lineamenti quasi filiformi sul viso sottile e aggraziato; quello caldo di un siciliano dalla fronte alta e i baffi scuri sulle labbra che, ora, accennano un sorriso.)

B. La gente crede che lo scrittore sia un prete sul pulpito, e invece è solo un fedele che ha il coraggio di levare la sua preghiera più forte degli altri.

V. Oggi non si solleva nemmeno più lo sguardo al cielo, perché non si hanno preghiere da levare. O a volte si chiede qualcosa, ma non è ciò che si vorrebbe realmente, presa in prestito com’è dal commerciante di sogni di turno. Così si cercano, più che guide che dicano cosa fare, uomini che prima ancora suggeriscano cosa desiderare.

B. Non mi dica che gli uomini non desiderano più nemmeno le donne!

V. La maggior parte crede di desiderarle, ma le concupisce soltanto, cosicché una volta avutele, viste e toccate, non sa più che farsene e va alla ricerca di emozioni sempre nuove, che diventano vecchie e consunte in un batter d’occhio.

B. (Sorride con un respiro ruvido che sfrega in fondo alla gola come un archetto sulle corde tese di un violino, senza voler minimamente celare una soddisfazione in procinto d’esplodere.) E poi lo criticavano il povero Antonio! “De-siderare”, signorina, dal latino DE- : rafforzativo e SIDERARE, da sidus, sideris: stella. “Fissare attentamente le stelle”, tenere lo sguardo fisso su qualcosa che è distante da noi, alto e quasi irraggiungibile e per ciò stesso affascinante, che rinnova un desiderio e un’emozione costante.

V. Meravigliosa etimologia, signor Brancati, ma prima o poi Antonio doveva “raggiungerla” quella donna!

B. E cosa vuol dire “raggiungere una donna”? Congiungersi con lei? Tanti uomini portano a letto le donne, vi fanno perfino dei figli, ma non le hanno mai raggiunte.

V. (Sgrano gli occhi in segno di stupita approvazione, poi dalle mie sopracciglia aggrottate trapela una profonda delusione). Ma fare l’amore è meraviglioso! (L’esclamazione perde un po’ di foga nelle sue ultime lettere, mescolata com'è ad una punta di imbarazzo). Nobile, profondo sentimento l’amore, che ci fa gioire fin nei meandri dell’anima, e ci eleva. Ma rimarrebbe solo una contorsione del cuore, uno spasimo della mente se non si “facesse” concreto... fare l’amore... è l’amore che si fa odore dolce su per le narici, si fa pelle sotto le dita, si fa suono negli orecchi e sapore dell’altro sulla lingua e...

B. ...e sensazione di vederlo in persona, l’Amore, nell’immagine della donna che ami. (Esita).
Lei crede che Dante sarebbe riuscito ad amare così a lungo e con quell’intensità Beatrice, se l'avesse sfiorata anche solo una volta?

V. Ma Dante aveva nove anni al suo primo incontro con Beatrice! E la seconda volta in cui la incontra, dopo quasi dieci anni, lei gli nega persino il saluto. Non era amore quello! L’amore diventa tale solo se ricambiato, prima d’allora è solo ossessione, venerazione o contemplazione. Anche un’opera d’arte ci rapisce con la sua bellezza e ci eleva, ci rivela grandi verità. Che differenza c’è allora fra una donna e un quadro?

B. (Sospira). Vecchio dilemma. Ha colto nel segno, signorina. Era come quadri in un museo che ci piaceva ammirare le donne. Giovanni Percolla, Muscarà, Scannapieco... i marciapiedi di via Etnea erano per loro le pareti del Louvre, del Musée d’Orsay. Guardavamo quei visi dolci, quelle gambe e quelle rotondità coperte dalle vesti come Veneri del Rinascimento, e le donne a Viareggio come fossero le bagnanti di Renoir...

V. (La mia bocca si curva in un sorriso d’assenso). Se tutto quello che ci circonda fosse rimasto solo un’idea nella mente di Dio, nulla esisterebbe. Un’idea, infondo, è nulla.

B. Lei crede in Dio, dunque. La invidio.

V. Non so se Dio esista. Ma mi piacerebbe che fosse così. Anche lei cercava Dio. Quel viaggiatore dello sleeping n. 7, i tormenti di Ermenegildo inginocchiato in chiesa accanto ad Antonio... ecco, posso rileggerle un suo passo?

B.  (Sfila Il bell'Antonio dalle mie mani, e prima ancora che io gli indichi quale riga leggere), esordisce:

È possibile che le parole cielo, paradiso, giustizia divina, pace eterna non corrispondano a nulla di reale? Loro non corrispondono a nulla, proprio loro che sono le parole più belle della nostra vita? È possibile che il nome Gesù Cristo, ecco lo ripeto: Ge-sù Cri-sto, sia il nome di un povero morto e a pronunziarlo non si fa voltare nessuno né in questo né in un altro mondo? Ecco, lo ripeto ancora: Gesù Cristo, Ge-sù Cri-sto, il nome di un matto dunque, vissuto duemila anni fa, che si figurava in buona fede di versare sangue e morire solo per una sua generosa accondiscendenza alla debolezza umana, e di lasciare in piedi i soldati che lo fustigavano e le torri della città che assisteva al suo supplizio, solo frenando a stento la sua onnipotenza? Gesù Cristo, un pietoso allucinato con la testa sempre arrovesciata a guardare il cielo, di cui in realtà ignorava la forma, la composizione e la luce, ma che egli credeva ormai la sua reggia, vedendovi nel mezzo un suo trono dorato alla destra di un assai curioso Padre… E dunque la sera di giovedì, quando pregò nell'orto ripetendo nel modo più tenero questa parola “Padre”, dall'altra parte non c'era nessuno ad ascoltarlo? E quando, sulla croce, promise al ladrone convertito di portarlo in cielo con sé, povero ladrone, come dovette bestemmiare quando s'accorse che alla penombra dell'agonia succedeva un buio sempre più fitto e senza speranza!… E dunque per noi uomini, ci chiamiamo Ermenegildo Fasanaro o Gesù Cristo di Nazaret, non c'è che buio e ignoranza? E, se andiamo a scuola, una rassegnata filosofia che si accontenta di chiamare “verità” le nostre disgraziate domande senza risposta?

(L’interrogativo rimane sospeso come un equilibrista sul filo teso nel tendone di un circo. Silenzio)

V. Beh! Dio o D’io? In ogni d-io c’è un “io”, caro Brancati. Dio è il mondo visto dalla mia prospettiva, il significato che do a quello che mi circonda. Dio è nient’altro che quel senso.

B. Ecco, io credevo che fosse l’Amore il senso. È per questo che Antonio non sfiorò la sua Barbara: non voleva che lei fosse parte di tutto il resto... della materia che degrada e sfiorisce, della carne che invecchia e marcisce...

V. Quella Bellezza... quella che nei suoi romanzi lei scrive con la “B” maiuscola.

B. Esatto. Non sarebbe bastato l’acme di un orgasmo della carne per raggiungerla. Così gli diedero dell’ “impotente”.

V. Chi ama la Bellezza pura si sente sempre un po’ impotente: possiamo ammirarla in un dipinto, scorgerla in una statua, annidarla in una riflessione filosofica, corteggiarla in un’alba, in un uomo, in un tramonto, ma non abbiamo mai la sensazione di raggiungerla veramente.

B. Questo è l’essere umano: tensione, attenzione, intenzione... tutto è un tendere, insomma. Abbiamo sempre bisogno di tendere le braccia al di sopra di noi per rimanere in piedi, per ergerci sulle cose e sul mondo.

V. E ora che è qui? In questo Oltretomba su cui gli uomini fantasticano a dismisura... l’Iperuranio, il luogo della pace, della salvezza, il coacervo indifferenziato delle idee, dei sogni e dei pensieri... sente di aver finalmente sfiorato ciò che ha inseguito per tutta la vita?

B. (Solleva le sopracciglia come un bambino cui si scopre una bugia, poi disegna fulminea con lo sguardo una linea obliqua e posa i suoi occhi sul pavimento). Ora che sono qui... mi mancano i gelati di Palermo, la zuppa di pesce della Zì' Teresa a Napoli, la bistecca di Salvini a Firenze, il silenzio del Canal Grande, l'aria fresca dei fiumi dell'Alto Adige, le vasche da bagno dell'Hôtel Coccumela a Sorrento

V. (Adesso sono io a soffiare il mio sorriso dentro un sospiro mesto) Tutto quello che faceva trasalire il petto di gioia a Marietta in quel suo ultimo romanzo...

B. Ecco, ora che sono da questa parte dico: siate come lei... sentite le vibrazioni della Vita in ogni corda dei  vostri sensi; non perdetevi nell'eccesso della razionalità. Quello che si registra nella mente è solo lo spartito... ma la Vita è musica. Ecco, da scrittore mi sono sentito come un musicista che compone senza aver mai sfiorato il tasto di un pianoforte, la corda di un violino...

V. (Distolgo lo sguardo dal suo viso per lasciarlo solo con la sua Nostalgia, con discrezione, come uno che, costretto nello stesso luogo con due amanti, voglia lasciarli indisturbati. I miei occhi sono catturati dalla luce di una finestra alle sue spalle, da cui un azzurro turchino irradia forte la luce solare. Il cielo è terso al punto tale che i vetri sembrano non reggerne il peso cromatico e, dissoltisi, brillino in minutissime schegge danzanti insieme al pulviscolo luminoso. Una risata ovattata d’improvviso vi fa da melodia. Allungo la vista e nella nebbia luminosa pian piano si materializzano due figure. Riconosco Antonio, dal volto olivastro, affumicato potentemente dalla barba, ma delicatissimo e quasi unto di lacrime al di sotto degli occhi, bello, proprio come Vitaliano l’aveva descritto. Scompigliati dopo la giravolta, i capelli neri di Barbara, attraversano il viso di lui come una nube passeggera e scura il sole di primavera. Antonio prende il viso di lei fra le mani e con gli occhi raggianti di felicità stringe le labbra sulle sue. Un bacio impetuoso, lungo e profondo come uno che si tuffa da uno scoglio e viene inghiottito dal blu... riemerge e apre gli occhi. L’abbraccio che segue è così stretto che vedo le due sagome diventare un tutt'uno, fra loro, con l’azzurro, con la luce).




08 febbraio 2018

Sofia: città dai mille volti. Invito a visitare la capitale bulgara


Non nascondo ai lettori che scrivo questo articolo con un po’ di egoismo: tornata da Sofia, ho ancora le sue immagini davanti agli occhi quando li chiudo... così ho pensato di farlo diventare per me l’occasione di metabolizzare il mio viaggio e fissarlo nella memoria, per voi un invito a recarvi in questa città meravigliosa.

Santa Sofia, martire cristiana.
Statua eretta in luogo della precedente
raffigurante Lenin.
Sòfia è la capitale della Bulgaria. Sulla carta ha circa 1.270.000 abitanti, ma nella realtà i sofioti stessi dicono d’essere almeno 3 milioni. Una miriade di civiltà vi si sono mescolate nel tempo: dai primi Traci che l’hanno fondata come Serdica nel VII secolo a.C. -il che ne fa la terza capitale europea più antica dopo Atene e Roma- ai Romani che l’hanno conquistata nel 29 a.C., dagli Unni che vi irruppero nel 447 d.C., ai popoli zingarici che, originari dell’India, giunsero a più riprese verso l’Europa a partire dal Mille d.C., passando proprio per i Balcani, dai Bizantini ai Turchi Ottomani che la conquistarono nel 1382, fino ai Russi.
Giunti a Sofia avrete la sensazione di fare un tuffo negli anni ’80. Ad edifici di stampo comunista (il Regime vi permane dal 1946 al 1989), si affiancano edifici dalle architetture teutoniche – quelli oggi visibili in una qualunque città tedesca – tracce lasciate dal governo filo-tedesco a partire dalla Prima Guerra Mondiale, nella cui sfera d’influenza la Bulgaria rimase fino alla Seconda.

Sede del Partito Socialista bulgaro
Scorcio di una via con il classico
tram cittadino

Vista di Sofia con alle spalle il monte Vitosha 
La città sorge ai piedi del monte Vitosha. Al mattino i raggi del sole adagiano una patina d’oro sulle cime innevate dei monti Balcani che la abbracciano, e lasciano cadere una calda carezza sui lineamenti seriosi delle abitazioni. La luce muore sui palazzi squadrati e severi per poi risorgere riflessa dalle cupole d’oro delle chiese ortodosse e dai pinnacoli abbaglianti delle chiese russe.


Sferzate di vento gelido si mescolano all’odore seducente di rosa, che vi inonderà non appena aprirete le porte dei tipici negozietti di souvenir. La Bulgaria produce, infatti, da sola l’80% dell’olio essenziale di rosa del mondo, in una valle – la Rozova Dolina – che fra maggio e giugno si ricopre di migliaia di rose bianche, rosse e rosa.

Vista notturna della Moschea
Banya Bashi
Nel giro di un solo giorno ho pregato accanto agli ebrei, abbagliata dalla luce della Stella di David; ho indossato l’Hijab e mi sono rivolta verso la Mecca con i musulmani; incantata insieme ai cristiani, ho stretto le mani giunte e spalancato gli occhi davanti allo splendore delle iconostasi delle chiese ortodosse... e mai in nessuno di questi luoghi mi sono sentita figlia di un Dio diverso.




Iconostasi nella chiesa ortodossa del  Monastero di Rila

"Sinagoga centrale" della città, definita tale perché la più
importante fra le varie presenti in passato


Lettere maiuscole dell'alfabeto cirillico
L’eleganza dell’alfabeto cirillico e le centinaia di icone bizantine che costellano le chiese e i musei vi avvolgeranno in un'atmosfera da mistero sacro, atmosfera che mai mi aveva colta come a Rila, sede di un antico monastero nel cuore dei monti e meta che da sola varrebbe l’intero viaggio in terra bulgara.


A 120 km da Sofia, il Monastero di Rila è il più grande della Bulgaria. Fondato da San Giovanni di Rila nel X secolo, è patrimonio dell’Umanità dal 1983. A 1147 m d’altezza, circondato da vette innevate e ammantate di conifere, protetti dalle sue mura e immersi nel silenzio ci si sente veramente ad un passo dal Paradiso.

Monastero di Rila, il più grande della nazione

Camminando per strada avrete la sensazione che più mondi e più epoche vi sfiorino contemporaneamente. Vi incanteranno i bulgari biondi dagli occhi azzurri e i lineamenti spigolosi tipici dei popoli slavi; vi cattureranno gli sguardi magnetici e diffidenti dei bulgari scuri dagli occhi verdi, profondi come tunnel nei visi dai tratti zingarici; vi strapperanno un sorriso i bulgari dall'espressione calda e dai tratti rudi, che vi faranno sentire a casa, come foste in Sicilia... perché sì, a tratti questa terra crogiolo di razze e di popoli diversi, ininterrottamente contesa e strappata da ogni lembo come un tessuto prezioso, mi è sembrata molto simile alla nostra.

Valeria Bongiovanni



01 febbraio 2018

Dietro le quinte dell' "Unificazione" d'Italia



Innanzitutto grazie al sign. Di Gregorio per il suo accurato e accorato commento. Mi riempie di gioia vedere come il nostro non sia un blog di “sola lettura”, perché le sue parole hanno cucito attorno alla mia intervista il sottile filo di un dialogo che ha dato a me preziosi spunti e da cui spero ciascuno possa ricavarne altri.

Le mie parole (e insieme di Tomasi) “dovremmo far vituperio di tutta la Storia e riscriverla come si fa con un romanzo, ma da noi stessi! Quella sì sarebbe vera Storia”, sono volutamente sarcastiche, di amara ironia.  Sappiamo benissimo che la Storia e la Letteratura sono due approcci completamente diversi alla realtà – l’una oggettiva e basata su fonti storiche (o almeno così dovrebbe essere), l’altra soggettiva e basata sulla personale visione di uno scrittore che si fa filtro e lente per l’interpretazione della realtà stessa - anche se a volte, nel cosiddetto «romanzo storico» le due tendono a intrecciarsi. Ma, considerate le verità parziali e distorte  che i libri di storia ci raccontano sul Risorgimento (non è un caso che in riferimento agli eventi di quegli anni  si parli sempre di «retorica del Risorgimento» o di «mito del Risorgimento», diciture che tradiscono già una discrepanza fra la Storia e la realtà del fatti), talvolta il lettore troverà più verità in un romanzo che in un manuale.

Consideriamo, per esempio, i plebisciti di annessione. Lei scrive che «nel 1860, la stragrande maggioranza dei siciliani partecipò  schierandosi in favore della soluzione unitaria e facendo propria la parola d’ordine “Italia e Vittorio Emanuele”». Prendiamo in esame un manuale, una fonte storica e un romanzo.

La foto ritrae le pagine di un manuale di storia oggi (nel 2018! E non è di certo l’unico) in uso in una scuola media di Catania. Vi si legge a chiare lettere che «In ottobre la Sicilia e l’Italia meridionale, con un plebiscito, votarono con il 99% di sì l’annessione al Regno di Sardegna».



Le parole che seguono sulla dinamica delle votazioni sono di Filippo Curletti, agente segreto di Cavour, modenese che partecipò in prima persona alla gestione dei seggi nella sua città. Prima di morire Filippo chiamò un notaio e fece le sue confessioni, immediatamente intercettate e segretate dal governo militare, pubblicate solo 150 anni dopo. Afferma Curletti:

«Ci eravamo fatti rimettere i registri delle parrocchie per formare le liste degli elettori. Preparammo tutte le schede per le elezioni dei parlamenti locali, come più tardi pel voto dell’annessione. Un picciol numero di elettori si presentarono a prendervi parte: ma, al momento della chiusura delle urne, vi gittavamo le schede, naturalmente in senso piemontese, di quelli che si erano astenuti.
Non è malagevole spiegare la facilità con cui tali manovre hanno potuto riuscire in paesi del tutto nuovi all’esercizio del suffragio universale, e dove l’indifferenza e l’astensione giovavano a maraviglia alla frode, facendone sparire ogni controllo [...] In alcuni collegi, questa introduzione in massa degli assenti nelle urne, - chiamavamo ciò “completare la votazione”, - si fece con sì poco riguardo che lo spoglio dello scrutinio dette un numero maggiore di votanti che di elettori inscritti».

Sottolineo che Curletti è modenese e afferma che «d’altronde le cose non avvennero diversamente a Parma ed a Firenze». Figurarsi al Sud! L’On. Angelo Manna, che nel 1991 chiedeva in Parlamento di desecretare dei documenti che lo Stato tiene ancora oggi nascosti, nella sua storica interpellanza parlamentare, ribadiva come a Napoli appena l’1,9 % degli aventi diritto si fosse veramente recato alle urne in quel fatidico ottobre del 1860. Quel Sud dove i cosiddetti “Briganti”, i quali altro non erano che patrioti e partigiani in lotta per liberare il loro Regno invaso, lottarono per più di dieci anni dopo l’“unificazione” e dove lo “Stato unitario” chiuse le scuole per ben 14 anni (fino al 1875) per evitare che l’insurrezione si spandesse a macchia d’olio.

Riporto qui di seguito la versione che Giuseppe Tomasi di Lampedusa dà del medesimo plebiscito nel suo romanzo storico, dalla prospettiva di Donnafugata. Capitolo III, datato proprio ottobre 1860:

« Alla folla invisibile nelle tenebre [Don Calogero] annunziò che a Donnafugata il Plebiscito aveva dato questi risultati:

Iscritti 515; votanti 512; "si" 512; "no" zero.

[...] Il fresco aveva disperso la sonnolenza di don Ciccio, la massiccia imponenza del Principe aveva allontanato i suoi timori; ora a galla della sua coscienza emergeva soltanto il dispetto, inutile certo ma non ignobile. In piedi, parlava in dialetto e gesticolava, pietoso burattino che aveva ridicolmente ragione.
"Io, Eccellenza, avevo votato 'no'. 'No,' cento volte 'no.' Ricordavo quello che mi avevate detto: la necessità, l'inutilità, l'unità, l'opportunità. Avrete ragione voi, ma io di politica non me ne sento. Lascio queste cose agli altri. Ma Ciccio Tumeo è un galantuomo, povero e miserabile, coi calzoni sfondati (e percuoteva sulle sue chiappe gli accurati rattoppi dei pantaloni da caccia) e il beneficio ricevuto non lo aveva dimenticato; e quei porci in Municipio s'inghiottono la mia opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro. Io ho detto nero e loro mi fanno dire bianco! Per una volta che potevo dire quello che pensavo quel succhiasangue di Sedàra mi annulla, fa come se non fossi mai esistito [...] A questo punto la calma discese su Don Fabrizio che finalmente aveva sciolto l'enigma; adesso sapeva chi era stato strangolato a Donnafugata, in cento altri luoghi, nel corso di quella nottata di vento lercio: una neonata, la buonafede».
(Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano, 2006, pp. 122-125).


Ecco il senso delle mie parole: considerate le bugie e le omissioni della Storia ufficiale, c’è talvolta più verità nella letteratura che non altrove, soprattutto quando la letteratura si fa interprete di un’esigenza di ricostruzione storica, come nel caso del Gattopardo. E non perché ognuno debba scriverla come gli pare, ma perché nel paradosso di una “Storia” ufficiale che non ci racconta la verità, un romanzo – in questo caso il Gattopardo – sa essere più vero della “Storia”.

Con ciò non nego assolutamente l’operato e gli intenti completamente diversi di chi un’idea di Italia ce l’aveva eccome. Non nego i misfatti e il malgoverno dei Borbone (soprattutto dell’ultimo, e soprattutto in Sicilia, lontana da Napoli e perciò non gestita allo stesso modo). Non  nego il valore delle insurrezioni che avevano preceduto il 1861 né le divisioni interne e le debolezze del Regno delle Due Sicilie, che altrimenti non sarebbe affondato in quel modo (nessun generale si sarebbe fatto vergognosamente corrompere come il Landi a Calatafimi). Non nego la volontà di liberazione dallo straniero che ferveva nel cuore di veri patrioti. Dico semplicemente che il tutto è finito nell’alveo della strumentalizzazione delle idee, piegate ad esigenze altre.

Fra qualche anno gli “storici”- o meglio i “propagandisti” al servizio del potere costituito, che bisogna distinguere dai veri storici -  scriveranno sui manuali che i primi decenni del XXI secolo sono stati caratterizzati da numerosi attacchi terroristici ad opera di folli kamikaze che terrorizzavano il povero Occidente causa la diffusione dell’assurdo credo in un dio Allah, in nome del quale si combatteva una guerra santa contro gli infedeli da convertire a suon di bombe. Ma in pochi diranno che “jihad” in realtà in arabo equivale al tedesco “Streben”: “aspirazione" "tensione", una “tendenza infinita al superamento del finito” in direzione di Dio e di un sé più autentico. In pochi diranno che la strumentalizzazione che ne ha fatto il potere politico, l’ha trasformata in una guerra tra fratelli, mentre chi vuole veramente tutto questo rimane nell’ombra. E la storia vera, quella di un ISIS orchestrato dalla CIA, per autorizzare gli USA a combattere per quelle risorse economiche, che guarda caso pullulano in quei territori, diverrà “Controstoria del Terrorismo” - così come le reali vicende del Risorgimento passano oggi sotto l'etichetta di "Controstoria del Risorgimento" -. La democrazia resterà un costume da scena, da far indossare di volta in volta a questa o quella guerra, per mascherare le vere cause di appropriazione di risorse che la sottendono. Perché aiutare solo certi popoli a “conquistare” la democrazia? E gli altri? Gli altri forse non la meritano?  No. Gli altri non possono dare nulla in cambio. 
Ecco, la dinamica di "liberazione dallo straniero" di un Regno come quello delle Due Sicilie, governato da sovrani che erano spagnoli sì, ma napoletani da quattro generazioni, mi riporta sulla medesima scia delle "democratizzazioni" forzate di oggi, fatte più per interessi economici che non per un intento reale di Liberazione.

Lei mi chiede perché  la definisco «pseudo-unificazione».

  • Già nel 1832 Ferdinando II di Borbone aveva proposto al cugino Carlo Alberto di Savoia una “Confederazione di Stati”, ma nel rispetto delle libertà di ognuno di essi, per dare vita ad una compagine territoriale forte e indipendente nei confronti delle mire degli stati stranieri. Il Regno delle due Sicilie, che cercava di difendere a tutti costi il proprio diritto di neutralità, era, inoltre, il più ricco d’Europa dopo le stesse Inghilterra e Francia. Questo chiaramente disturbava l’Inghilterra che, da potenza navale mondiale qual era, non poteva permettere che proprio nel cuore del Mediterraneo – porta d’accesso a ben tre continenti quali l’Africa, l’Asia e l’Europa stessa – dominasse una potenza in continua crescita come quel Regno la cui flotta era passata da 2.387 navi nel 1818 a 9.848 navi nel 1860. Nel 1869 si sarebbe ufficialmente aperto il Canale di Suez e gli inglesi dovevano assicurarsi a tutti i costi il pieno controllo del Mediterraneo a scapito dei francesi e degli stessi Borbone (questo era anche lo scopo del Protettorato e spiega anche la corsa forsennata per quel piccolo pezzo di lava emerso al largo delle coste siciliane già nel 1831). Il Protettorato di cui parla lei, visto da questa prospettiva, acquista una luce del tutto diversa: gli inglesi non ricoprono un ruolo filo-borbonico perché favoriscono i Borbone né tantomeno perché vogliono “ripristinare l’ordine”: essi vogliono assicurarsi di non perdere il controllo su quei territori. Con gli stessi accordi di Plombières ancora Napoleone III sperava di collocare sul trono bonbonico un nipote di Gioacchino Murat, ma gli inglesi non l’avrebbero mai permesso. Spodestare un nemico al centro del Mediterraneo per assistere all’ascesa di uno ancora più grande come la Francia sarebbe stato contro ogni logica. Meglio tenere sotto scacco Cavour e il piccolo Regno del Piemonte, favorire la sua espansione e farlo ri-nascere come stato direttamente dipendente dall’Inghilterra fin dalle sue stesse origini. L’Inghilterra supportava economicamente già da tempo i tentativi del piccolo Regno del Piemonte di inserirsi nello scacchiere politico europeo, poiché aveva intuito che renderlo dipendente da un punto di vista finanziario, sarebbe equivalso ad asservirlo a sé da un punto di vista politico. E così fu: al momento dell’ “unificazione” il Piemonte aveva già un debito di un miliardo di lire con le banche londinesi ed era sull’orlo del fallimento. Come rimediare? Era conveniente per il Piemonte annettere un Regno che aveva due volte più monete (chiaramente indice, oltre che di ricchezza in sé, di una florida economia) di tutti gli altri Stati della penisola uniti assieme. Quello che segue è il quadro della situazione finanziaria dei Regni della penisola al momento dell’annessione.

Quantità di monete circolanti nella Penisola per un tot. di 668 milioni così ripartiti:

Regno delle Due Sicilie         milioni 443,2
Lombardia                                              8,1
Ducato di Modena                                  0,4
Parma e Piacenza                                    1,2
Roma                                                     35,3
Romagna, Marche e Umbria                 55,3
Sardegna                                                27,0
Toscana                                                  85,2
Venezia                                                  12,7

(Da Francesco Saverio Nitti, Scienze delle Finanze, Pierro, 1903, p. 292)

Ma il Piemonte non avrebbe mai potuto sostenere da solo il peso di quella conquista. Lo stesso Garibaldi nelle sue memorie dichiara: «senza l’aiuto di Palmerston Napoli sarebbe ancora borbonica e senza l’ammiraglio Mondy non avrei potuto giammai passare lo Stretto di Messina». Come avrebbero potuto appena mille uomini conquistare un intero regno nel giro di qualche mese, se la massoneria inglese non avesse investito una montagna di denaro per "comprare" generali borbonici, bande criminali e pagare lo stesso Garibaldi?  Ecco, io questa non la definirei “unificazione”, ma “corruzione” e “conquista militare”, peraltro di basso grado, fatta com’era senza nemmeno una dichiarazione di guerra.

  • Non prelude certo ad una degna unificazione uno sbarco fatto in Sicilia assicurandosi prima la collaborazione delle cellule criminali presenti sul territorio. Totò Riina al processo degli anni Ottanta affermò: «Io amo l’Italia, per la quale la mia famiglia ha dato il suo fondamentale appoggio preparando lo sbarco di Garibaldi». E Antonio Patti, mafioso, al Sostituto Procuratore della Repubblica di Palermo nel 1997: «Garibaldi poté sbarcare e spostarsi liberamente in Sicilia perché il Piemonte versò i soldi alla mafia assicurandosene la collaborazione». Non stupisce, al momento dell’instaurazione della dittatura garibaldina in Sicilia, leggere fra i Decreti dittatoriali del 17 agosto: «si ordina dichiararsi nulle, e come non avvenute, tutte le condanne emesse su i fatti, che durante il governo borbonico, si consideravano come reati, ed i condannati doversi intendere rientrati ipso jure nello esercizio di tutti i diritti civili e politici». Lo stesso Rocco Chinnici, capo del Pool Antimafia coadiuvato da Falcone e Borsellino, giudice assassinato nel 1983, affermava: «la mafia come associazione e con tale denominazione prima dell’Unificazione non era mai esistita in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia». A Napoli il Prefetto di polizia Liborio Romano, futuro ministro del Regno d’Italia, in segreto contatto con Camillo Benso conte di Cavour e Garibaldi, convocò Salvatore de Crescenzo, capo delle locali bande camorriste, e lo arruolò nella Guardia cittadina insieme ai suoi affiliati. Ora la camorra era in coccarda tricolore e Tore ‘e Crescienzo, forte di legittimazione e protezione, diveniva affermato camorrista. Nell’ottobre dello stesso 1860 ebbe l’incarico di vigilare sulle urne a voto palese in occasione del plebiscito di annessione. Il potere costituito scende a patti con la criminalità, ne legittima l’operato e così si assicura l'assenso dei territori da annettere. Ecco, io questa non la definirei “unificazione”.
  • Massimo d'Azeglio pronunciò la famosa frase "Fatta l'Italia bisogna fare gli italiani". Ma ci sarebbe stato bisogno di "fare" un  popolo se questo si fosse sentito già tale? Quello che seguì  l' "unificazione" fu un abominevole sterminio, che i libri di storia tacciono o citano sotto la semplicistica e fuorviante etichetta di "brigantaggio", lasciando intendere che lo stato unitario dovette quasi sobbarcarsi una immane campagna di lotta alla delinquenza (in un Sud che d'improvviso si era affollato di malfattori rifugiatisi sui monti). E sì che ai veri briganti gli stessi Borbone avevano dato la caccia, ma non erano migliaia, e non avevano le divise borboniche addosso, come quelli che i piemontesi trucidavano ancora più di dieci anni dopo l'Unità; non erano donne, vecchi e bambini come quelli che il generale Cialdini massacrò a Pontelandolfo e Casalduni; non erano inermi contadini come quelli che il generale Pinelli trucidò in Abruzzo e nel Molise. Ogni anno piangiamo sugli ebrei e sulla barbarie nazista, ma nessun giorno della memoria ricorda le migliaia  di soldati borbonici (sembra siano stati almeno 70.000) morti nei primi lager della storia europea (molto tempo prima dei più famosi Auschwitz o Dachau!), che venivano deportati a Genova e da lì smistati nei vari campi di concentramento. A  Fenestrelle coloro che si rifiutavano di rinnegare il giuramento a Francesco II, venivano spogliati, imprigionati e, malnutriti com'erano, una volta morti venivano sciolti nella calce viva. Ecco, io questa non la definirei "unificazione", ma "eccidio". Ancor più grave se ad essersi macchiati le mani di sangue sono stati quelli che avrebbero dovuto essere loro "fratelli".
Nessuna vena di rimpianto, dunque, per il Regno delle Due Sicilie, né nostalgia (nel senso proprio greco del termine: nóstos = ritorno), giacché non si può avere voglia di tornare a qualcosa che non si è nemmeno vissuto. Da donna del XXI secolo, italiana e cittadina europea, ex-universitaria che è vissuta per anni a contatto con il resto d’Italia (che amo e stimo proprio per la sua diversità e per la ricca varietà di cultura, tradizioni e stile di vita), non sono di certo neoborbonica, né potrei esserlo. Ciò che sento, e che credo debba essere l’intento che muove ogni studioso e ogni singolo uomo, è un grande desiderio di Verità.


Valeria Bongiovanni

12 gennaio 2018

Tra letteratura e disillusioni risorgimentali

Cari amici lettori, alcune risposte del principe Tomasi di Lampedusa all’intervista impossibile di Valeria Bongiovanni e un commento sempre di Valeria all’articolo L’isola che se ne andò, riguardanti il risorgimento e alcune valutazioni storiche postunitarie, ha indotto Salvatore Di Gregorio a rispondere a Valeria e tornare a parlare sull'influenza e sul ruolo che gli inglesi ebbero nella Sicilia dei Borboni e della successiva disillusione degli ideali risorgimentali.




Davvero interessante lo scoop di Valeria Bongiovanni che è riuscita non solo a rintracciare Tomasi di Lampedusa ma anche ad impegnarlo in una conversazione brillante e ricca di spunti.
E’ stata veramente brava l’intervistatrice a condurre la discussione tra letteratura e storia fino a punzecchiare il nostro autore ricordandogli l’accusa infamante che gli toccò di ricevere per avere fatto con la sua opera vituperio della memoria del risorgimento.
E l’autore del Gattopardo rivendica il diritto dell’artista di scrivere la storia come un romanzo, ossia come la sente (verrebbe da dire come gli pare).
Ma questo è appunto privilegio dell’arte e questa è la libertà dell’artista; la ricerca storica non gode degli stessi privilegi e deve utilizzare altri metodi ed attenersi ad altre regole. E tuttavia (pur dovendo riconoscere questa licenza artistica) mi ha impressionato lo stesso il giudizio tagliente del nostro autore sull’epopea unitaria del 1860 come l’opera di un manipolo di malfattori (o poco più) al soldo dell’Inghilterra. Ho trovato altrettanto interessante anche il commento di Valeria al post L’Isola che se andò nel quale  viene ripreso il tema dell’influenza inglese nelle vicende siciliane preunitarie ed unitarie ricavandone un giudizio non meno tagliente di quello del suo intervistato con in più una vena di rimpianto per quel regno delle due Sicilie cuore pulsante del Mediterraneo.
Indubbiamente il ruolo e l’interesse dell’Inghilterra nelle vicende dell’isola in quegli anni è questione acclarata sotto il profilo storico.
Le vicende siciliane del periodo, del resto, stanno a pieno titolo all’interno delle dinamiche storiche dell’Europa a cavallo dei due secoli: in quel contesto la Sicilia è per gli inglesi un pezzo importante della strategia di contenimento del predominio napoleonico nell’Europa. Anche nel mediterraneo si gioca la partita per l’egemonia sul continente. E l’influenza inglese sull’isola fu importante ed incisiva nelle vicende politiche quanto in quelle economiche. Ma, a ben vedere, in alcuni passaggi, gli inglesi svolsero perfino un ruolo filo borbonico: non bisogna dimenticare che allorché Murat si insedia a Napoli scacciandone i Borboni che si ritirano a Palermo, il Regno di Sicilia nasce come sostanziale protettorato inglese sotto la monarchia borbonica; la fine del Regno di Sicilia comincia con la fine dell’emergenza napoleonica e con i nuovi equilibri europei dettati dai vincitori (anche dagli inglesi dunque) che risistemarono l’Europa e, in quello scacchiere, favorirono il rientro dei Borboni a Napoli ripristinando il Regno delle due Sicilie con profonda frustrazione delle velleità autonomistiche della Sicilia.
E pagine della storia europea furono anche gli eventi del 1848 e del 1860 nei quali si combinarono i moti sociali e di pensiero che agitarono le forze e gli interessi locali che ne furono protagoniste e le strategie delle potenze maggiori (Francia, Austria, Regno pontificio non meno dell’ Inghilterra) che operarono (ieri come oggi) per orientare la direzione degli eventi e, a condizioni mutate, le cose presero una direzione nel 48 e un’altra diversa nel 60.
In questo caso, lo sbocco (il lato vincente delle cose, come lo definisce Renda nella sua Storia della Sicilia) fu il compimento del processo unitario e, dentro una nuova realtà statuale, l’inizio di una nuova storia per la Sicilia: la nascita di un nuovo ordine politico e sociale. Una storia  che non può essere raccontata (e tanto meno compresa) ricorrendo ancora alla suggestione di una isola immutabile e mai protagonista della propria storia. Quella non fu una storia semplicemente subita anche se la scintilla venne appiccata da fuori.
Nel 1860, la stragrande maggioranza dei siciliani partecipò  schierandosi in favore della soluzione unitaria e facendo propria la parola d’ordine “Italia e Vittorio Emanuele” . Una scelta di campo che attraversò le città e le campagne; che  coinvolse strati sociali i più diversi; che accomunò moderati, e democratici; perfino gli autonomisti e i nostalgici del Regno di Sicilia scelsero la prospettiva dell’unificazione per regolare i conti con lo Stato borbonico e riscattare il 48.
Naturalmente se la scelta fu generalizzata, le motivazioni e le aspettative che vi furono riposte erano le più differenti; tuttavia ciascuna forza e ciascuna istanza  confidava e scommise su quella condizione di ripartenza per potere giocare la propria partita e migliorare la propria condizione (o mantenere il proprio privilegio).
E fu una partita dura e difficile che segnò vincitori e sconfitti dentro la società siciliana e nel rapporto tra la Sicilia e la nuova realtà statuale. Nel sentimento dei siciliani e nelle vicende politiche che segnarono iI periodo postunitario, i segni prevalenti furono indubbiamente (ed a ragione) quelli delle aspettative tradite e della disillusione; ma mai lo scontro sociale (anche nelle sue fasi più cruente) e la discussione politica vennero condotte guardando all’indietro, a quella che era stata la Sicilia prima dell’unificazione; l’accusa peggiore che veniva fatta al regno sabaudo era quella di trattare la Sicilia così come i Borboni l’avevano trattata. L’accusa che Napoleone Colajanni lanciò al governo sabaudo fu di operare in continuità con i borboni.



Il giudizio storico sull’unificazione (a proposito perché pseudo unificazione?) è questione che ancora appassiona e divide e questo è bene: discutere ed appassionarsi è il sale della conoscenza ed è condivisibile l’opinione che su quelle pagine di storia va recuperato un giudizio più equilibrato e meno celebrativo.
Ma siccome questa è questione troppo complessa per pensare di poterne fare una discussione appena appena decente nelle poche righe che consentono questi interventi e, per quanto mi riguarda, anche al di fuori della mia competenza preferisco concludere ritornando al punto di partenza ossia alla letteratura.

Lo sfogo“
Meglio prima! Meglio prima!”  (Pirandello- I vecchi e i giovani) di Caterina Laurentano, per come lo capisco io, non è che vuole evocare un passato che viene rimpianto e al quale si anelerebbe tornare ma è il paradosso cui ricorre la protagonista per esprimere la rabbia di chi aveva creduto negli ideali del 48 e del 60 e per essi aveva lottato e sofferto (aveva perduto la dote, il titolo e il marito) di fronte al loro tradimento e di fronte ad una realtà per lei inaccettabile (il “meglio morti” che si usa tante volte per esprimere frustrazione di fronte l’insopportabilità della condizione che si vive più che la volontà di uscire dalla vita).

Salvatore Di Gregorio



31 dicembre 2017

Intervista impossibile a Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Se potessimo ancora parlare con il buon vecchio Principe, cosa gli chiederemmo? Fra il 1974 e il 1975 Radio Rai mandò in onda il programma radiofonico “Le interviste impossibili”: un intervistatore fingeva di dialogare con un uomo del passato, che da un immaginario Aldilà forniva risposte al confine fra il reale e l’esilarante, ma tutte profondamente vere. Ecco, sulla scia di questi Dialoghi, ho risvegliato il nostro amato Principe. E queste sono le parole che ci siamo detti.

V. Salve ...eeehm Principe, Duca, Barone, ecco, non so come chiamarla.

G. Salve a lei signorina. Mah, mi chiami solo Giuseppe. Sa, da questa parte non conta più nessun titolo. Ma mi dica: cosa la porta a varcare il tempo per venire qui a parlare con un vecchio nobile decaduto?

V. Ecco, vorrei parlare con lei del Gattopardo.

G. (Sorride a mezza bocca, fra il divertito e l’amareggiato) Già, che domanda scontata le ho fatto! È l’unica cosa che ho scritto.

V. (Sgrano gli occhi per lo stupore) Primo best seller italiano e oggi tradotto in decine e decine di lingue. Direi che non le è andata poi così male! Ha realizzato il suo sogno, no? (Sorrido) Manzoni lavorò vent’anni ai suoi Promessi sposi, ma se oggi non fosse supportato da decine di pagine sui manuali scolastici e da fior fior di antologie temo che la sua opera verrebbe dimenticata. Lei scrive il suo romanzo in appena due anni, si dilegua prima che venga pubblicato, i manuali le dedicano appena due colonne, eppure riscuote successo.

G. Non esageri, signorina. Manzoni è Manzoni. E poi erano altri tempi...

V. Già. Se Leopardi avesse scritto oggi la sua Ginestra su Facebook, avrebbe ottenuto appena un migliaio di like fra Torre del Greco e Recanati, e il giorno dopo non se ne sarebbe più parlato. Stendiamo un velo pietoso. Mi diceva che i titoli nobiliari nell’Aldilà non hanno più alcun valore, è interessante...

G. Altroché! Non sa che gran sollievo. Tutto il Gattopardo è intriso di quel melenso, struggente, ineluttabile senso della fine. Al tramonto della mia vita scrivevo quelle pagine come uno sventurato che sta per scivolare giù da un precipizio, le parole erano graffi sulla roccia, lasciati dagli artigli di quel Gattopardo. Maestoso. Nobile. Ma destinato a soccombere...

(Si incupisce. Le zampate, gliele vedo ora sulla fronte, fra le sopracciglia aggrottate.)

...poi il fiero felino precipita. Io precipito. E mi sveglio qui. Luce accecante. Strofinai gli occhi e li affondai in un azzurro zaffiro, denso e terso. Dapprima pensai che fosse uno scherzo: pensai di essere resuscitato in Sicilia, in una di quelle giornate primaverili, d’aprile o dicembre che fosse. Trassi un respiro più profondo che mai, come se non ci fossero più i polmoni a confinare l’aria: il tumore mi aveva traghettato qui e m’aveva abbandonato.

V. (Non riesco a trattenere una lacrima che fa capolino nei miei occhi, e cade scorre precipita lungo le guance schiantandosi sul foglio degli appunti, come quel Gattopardo in fondo al precipizio. Mi scuso).

G. Suvvia signorina! È così vulnerabile?! Mantenga il contegno, è un’intervista. Mi sembra proprio come quei siciliani... dai lineamenti severi come il sole di luglio, e poi facili ad abbandonarsi ai sentimenti come le spighe di grano cullate dal vento caldo.

V. Ancora con questo paesaggio? (Tono affettuoso.) Non vorrà farsi rimproverare da Sciascia anche qui.

G. Sciascia, Vittorini, allora agli esordi, avevano solo paura. Temevano che io potessi adombrarli, rubare loro la scena. Ma un astro è un astro. Le stelle in cielo non hanno paura di finire in secondo piano. Sono miliardi e c’è posto per tutte, basta che stiano alla giusta distanza. E io mi allontanai il più possibile: morto! (Ride di gusto) Quando hai qualcosa da dire dillo forte, senza paura che le altre voci si possano sovrapporre alla tua. I messaggi viaggiano ciascuno nella propria orbita, solo così giungono lontano.

V. Mi rincuora. Sa, di questi tempi fra mass media e social network c’è un tale rumore, solo pianeti in collisione. Chissà se avremo lasciato qualcosa o solo mandato l’universo in frantumi...

G. L’universo è in continua espansione, mia cara. Ne so qualcosa di astronomia. Seminate e non preoccupatevi.

V. Avrei qualcosa da chiederle a proposito di quella questione dell’Unità... Adesso che sta da questa parte dove non ci sono più aristocratici né liberali, Borbone né Savoia, può aiutarci a far luce su quegli anni così controversi?

G. Se leggeste il romanzo con la dovuta attenzione ci trovereste tutto. Ecco perché ci tenevo tanto a lasciarvelo! Le immagini, i dialoghi, ogni singolo aggettivo è un saggio storico su quegli anni. Vestito di poesia, certo, ma pur sempre vero. Se avessi solo voluto intonare il canto del cigno della mia classe sociale avrei scritto una poesia, non crede? Vi piace tanto leggere quel dialogo con Chevalley sul sonno e la morte, e tralasciate tutto il resto.

V. È comodo cantare la solita nenia dei siciliani in preda a Morfeo e incapaci di fare. Questo li tiene a bada. È un elegante suggello letterario. Credo che convenga a qualcuno non leggerlo in profondità come meriterebbe. Lei sa bene che l’uscita del suo romanzo scatenò un gran dibattito. Si disse che lei “vituperava la memoria del Risorgimento”.

G. (Ghigna sarcastico) “Vituperare”?! Dovremmo far vituperio di tutta la Storia e riscriverla come si fa con un romanzo, ma da noi stessi! Quella sì sarebbe vera Storia. Più delle storie che ci raccontano con la pretesa che sia verità... Liberarci dallo straniero, volevano! “Ne, Salina, beate quest’uocchie che te vedono”, così il Re aveva accolto il Principe, con un “accento napoletano che sorpassava di gran lunga in sapore quello del ciambellano”. E poi, qual è per un siciliano il concetto di “straniero”? Quindici dominazioni abbiamo avuto, di cui quei diplomatici imbellettati – venuti a proporci di sedere al loro Parlamento, più come un privilegio che come un diritto quale avrebbe dovuto essere – costituiscono l’ultima. Volevano piazzarsi sullo scacchiere politico europeo, ma erano piccoli e fragili. L’Inghilterra accorse in aiuto e lo fece a caro prezzo. Come pagare il debito? Abbassarono gli occhi sui ducati d’oro che riempivano le nostre banche, ecco come! L’Inghilterra pagò quell’uomo di dubbia moralità di Garibaldi che oggi troneggia sulle nostre piazze; pagò le organizzazioni criminali che oggi dilagano come metastasi in questo Stato ammalato, e si fece la conquista.

V. Ci identificano con la Mafia, ma furono le loro esigenze stesse a sancire il patto con lei. Fecero di quelle che erano disorganiche bande criminali, un’organizzazione a tutti gli effetti. Ed ebbero il coraggio di chiamare “briganti” quelli che per anni si ribellarono a quella che era stata solo l’ennesima conquista. Certi giudici e magistrati che muoiono oggi da eroi è lo Stato ad ucciderli, insieme alla Mafia... Però, lei descrive anche un Re “col faccione smorto fra le fedine biondiccie” e dice che la monarchia borbonica era “stomachevole” come il mobilio.

G. Ferdinando era un Re. Aveva proposto lui per primo già nel ’32 una Lega di Stati italiani, ma nel rispetto delle libertà di ognuno di essi. E già alla fine del Settecento suo padre Francesco aveva rifiutato la proposta dei suoi ministri di annettere la marca di Ancona, la Toscana... Non certo il figlio Franceschiello, che era solo un “seminarista vestito da generale”, Ferdinando era un Re e la monarchia era morta insieme a lui. (Indugia pensoso) E alla fine, fatta l’Italia, siete riusciti a fare gli italiani?
V. Macché! Quelli che vollero unirla a tutti i costi dal di fuori, ora sono gli stessi che vogliono tenerla divisa dentro. Partiti, divisionismi, Nord e Sud. Se fosse per loro stessi, gli italiani si amerebbero. Se solo qualcuno non si adoperasse per metterli gli uni contro gli altri... Ma la regola è quella di sempre: divide et impera.

(Lungo silenzio. Gli occhi del Principe sono persi nel vuoto. Trapela inquietudine dall’espressione assorta)

V. Perdoni l’incursione pagana in questo suo tempo sacro, ma sa, oggi è il 31 dicembre. Cosa si sentirebbe di dire in proposito ai suoi lettori?

G. Vivete ogni giorno coscienti, vigili e pieni di propositi come fosse l’ultimo dell’anno. Agite ogni giorno come foste gli ultimi rampolli di una casata in estinzione, come aristocratici in declino. Alla fine restano solo le opere, materiali o scritte che siano.
Mi scusi, ora devo lasciarla. Mi chiamano. (Sorride. Si alza)

VOCE FUORI CAMPO Fabrizio! Fabrizio!

(Riconosco la voce inconfondibile di Mariannina, che squarcia come un lampo il velo del silenzio. Popolana, vigorosa e squillante. Sbatto le palpebre. Mi perdo nell’azzurro di due occhi che mi fissano fieri e benevoli. Il volto illuminato dal bianco abbagliante di una cravatta dal nodo perfetto. La figura possente si volta portando con sé il suo sorriso, e si perde anche lei nell’azzurro. Immobile. Non scorgo più nulla. Solo qualcosa che scodinzola pettinando la luce. Il Principe si allontana col fedele compagno ancora al suo fianco, ingoiato dalla luce).

Valeria Bongiovanni


31 ottobre 2017

Incontro con l'autore: genealogia di un progetto

È una mattina di luglio. Sulle colline d'oro del piccolo paese i raggi del sole penzolano stanchi e pesanti, quasi fossero avvolti anche loro dal soffocante abbraccio della calura estiva. Tutto sembra assopito e immobile. 
Due ragazze sedute in biblioteca, dialogano con gli scrittori del passato: Dante, Petrarca, Boccaccio. I libri della grande stanza stanno acquattati di tergo sugli scaffali, come soldati in trincea in attesa d'azione. I loro dorsi stampati ammiccano - vecchi occhi - promesse di conoscenza nuova. "Storia di una capinera", "Il giorno della civetta", "Tommaso e il fotografo cieco"... Saggi vegliardi zittiti dal tempo, in attesa di un ventriloquo che animi i loro ventri gravidi di parole e ad un tempo muti. Perché non dar loro voce?
Da ventriloque, dunque, non da esperte declamatrici, abbiamo ascoltato l'urlo sordo degli autori che volevano dialogare con noi; abbiamo colto il boccheggiare silenzioso delle emozioni, come pesci in una boccia in attesa di essere infranta; abbiamo voluto abbattere la barriera di vetro delle copertine chiuse sulle pagine stampate.



Il siciliano è un ammiratore nato, uno che ovunque vada spalanca gli occhi di ammirazione per le bellezze che lo circondano, per il valore delle ricchezze possedute dagli altri. Ma spesso ignora il valore delle proprie. Nasce così un progetto: una serie di incontri che diano voce a questi autori, ai Nostri autori siciliani, trepidanti scrittori di messaggi meravigliosi, le cui pagine custodiscono i connotati della nostra stessa identità.
Cenacoli, più che conferenze, per cibarci tutti insieme delle ricche portate della nostra Letteratura, per condividere e riscoprire quanto quelle pagine siano più attuali che mai. Ne ripercorreremo la vita, i capolavori, i fotogrammi dei film che ne hanno celebrato le opere e, durante le letture ad alta voce, le emozioni si vestiranno di musica.
Ad inaugurare la serie di incontri Giovanni Verga, l'autore che dai piedi dell'Etna ci ha restituito una preziosa istantanea della società siciliana alle porte del nuovo secolo. Jeli il pastore, Maruzza, la Lupa, l'amante di Gramigna infuocata di passione... Sono poi così lontani da noi?
Infondo i Tre Re che luccicavano sulla testa di 'Ntoni e sui suoi tormenti, sono gli stessi che stasera brillano su di noi... e chissà se qualcuno dei suoi pensieri non è anche il nostro.

Valeria Bongiovanni