Visualizzazione post con etichetta Anna Marotta. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Anna Marotta. Mostra tutti i post

07 luglio 2018

Presentazione del libro di Anna Marotta "Il bandito Testalonga. La resistenza di un vinto"

L'Associazione "Amici della Biblioteca" di Pietraperzia è lieta e onorata di invitare tutta la cittadinanza alla presentazione del libro della nostra cara socia Anna Marotta "Il bandito Testalonga. La resistenza di un vinto" che si terrà in data 14 luglio presso il Chiostro di S. Maria alle ore 19:00. Oltre che dagli interventi, comprendenti la coordinatrice dell’Associazione Lucia Miccichè, l’editore Pierangelo Giambra, l’autrice Anna Marotta e il Sindaco Antonio Bevilacqua, la serata verrà accompagnata da parti recitativo-musicali curati dalla toccante voce del poeta Giuseppe Mistretta​ e dalle meravigliose arpeggiate di Emiliano Spampinato. Non mancheranno le sorprese: la proiezione di un book trailer, le illustrazioni del grafico Nicolò Speciale che ha realizzato la copertina e tanto altro. Al termine della serata verrà offerto ai presenti un rinfresco. L’opera, già presentata al Festival Letterario “Una marina di libri” di Palermo, verrà quindi per la prima volta esposta al pubblico a Pietraperzia, proprio quella terra in cui il bandito nacque. Non mancate, vi aspettiamo numerosi!

§§§§§§

“Tra le profonde radici della terra siciliana, in un museo a cielo aperto accompagnato dalla calura dello Scirocco, cinque controversi protagonisti orchestrano un'infelice storia, il cui tragico finale è più che prevedibile. Il bandito Testalonga (1728-1767), eletto a Robin Hood da un popolo affamato di pane e ideali, diventa così l'emblema di uno spaccato di società, quella dell'omertà, degli intrighi, delle connivenze e dei tradimenti. Ad ogni pagina si respira Sicilia. L'isola è nelle grotte e nei cunicoli impervi, nelle campagne bionde di grano, nei modi espressivi, nei soprusi delle istituzioni e nella primordiale brutalità delle pene. Oggi Testalonga ci lascia una preziosa eredità, al di là dei poco credibili cliché a lui attribuiti: poco o nulla è cambiato rispetto ad allora, la storia ci dà una parvenza di continuità ma, dopotutto, sempre si ripete. Cos'è quindi la resistenza di un vinto? Non consiste nell'esaltazione eroica, un campione appartiene solo ai cantastorie e al popolo; e nemmeno nel giudizio inquisitorio. È solo la chiara e lucida consapevolezza di non poter alzare barricate tra buoni e cattivi. Vago è il confine tra bene e male in un mondo opaco gettato in mare aperto, un funebre e sconfinato Mediterraneo”.







04 giugno 2018

La Terra di Pietra-Perzia: storia e origini



La fonte principale a cui far riferimento riguardo la storia di Pietraperzia è quella di Fra’ Dionigi Bongiovanni[1] nato a Pietraperzia nel 1744. Divenne sacerdote nell’Ordine dei Frati Minori Riformati di S. Francesco, oltre che insegnante e predicatore. Egli fu anche il primo storico locale ad aver tentato di risalire alle origini della sua patria, seppur ricorrendo ad ipotesi azzardate laddove mancassero documenti e fonti scritte. L’opera si propone di far conoscere la storia del ritrovamento dell’icona della Madonna della Cava dipinta su parete, divenuta poi Santa Patrona del paese, ma in essa non mancano riferimenti dettagliati alla descrizione di Pietraperzia e dei suoi abitanti, contenuti nel primo capitolo del testo.
Le origini di Pietraperzia risalgono intorno al 300 a.C. a partire dal sito di Caulonia nell’entroterra siciliano, esteso per tutta la contrada Ranfallo (o Granfallo) fino al territorio La Guardia; eppure, osservando i ruderi della Rocca, non sembra assurdo affermare che su questi sia esistito un villaggio primitivo neolitico. Lo storico che per primo ne parlò fu Strabone, secondo cui la Caulonia di Sicilia fu fondata dagli abitanti di Caulonia di Calabria, esiliati in Sicilia da Dionigi il Vecchio, tiranno di Siracusa.

Sito Rocche


L’antichità del luogo è testimoniata dal ritrovamento di alcune monete nei pressi del Castello; nel 1955 infatti venne rinvenuta una moneta risalente al periodo cartaginese, in particolare un Esadramma siculo-punico del 350 a.C. Ma questa non fu l’unica, poiché nel 1970 fu ritrovato un Tetradramma d’argento risalente al periodo di Dionisi il Vecchio (396 a.C.); un altro esemplare di questa moneta è visibile al Museo numismatico di Londra, sul cui verso è riportata la testa di Eracle ricoperta da una pelle di leone, sul retro invece è raffigurata una figura femminile che indossa un doppio mantello, con il braccio destro alzato e il sinistro appoggiato ad una colonna; sulle due facciate della moneta si può leggere Petri e Petrinos. Lo storico locale Lino Guarnaccia[2] inoltre asserisce di aver visto una moneta d’argento, esattamente un Tetradramma, risalente al periodo del tiranno Gerone II (270-216 a. C.), di cui però non conosce il luogo di ritrovamento.

Anche numerosi siti preistorici testimoniano oggi l’antichità di Pietraperzia, come il sito Satanà, a due miglia da Pietraperzia, di cui ha scritto lo storico Diodoro Siculo; di esso sono ancora presenti medaglie, mattoni, pietre intagliate e costruzioni antiche; poco distante vi è anche il sito detto Rònze; non molto lontano da Caulonia vi era la città subalterna Calata Pilegio, dove ancor oggi sono presenti grotte artificiali. In contrada Raggadesi è stato ritrovato un vasto sepolcro, che testimonia l’antica presenza di un casale. Nella tenuta Petra dell’Uomo furono ritrovate numerosissime testimonianze dell’antichità del luogo; ma il sito archeologico più importante è quello di Cuddaro di Crasto: «Età preistorica, si parla di età del Rame tardo (2600 – 2400 a.C.). Alcuni frammenti di questa età, nella loro sottospecie della cultura preistorica siciliana, […] sono stati scoperti nell’area archeologica. Si presentano a superficie rossa, lucidata e creata con un impasto grezzo e grossolano. Poi ecco l’età del Bronzo antico (2300–1450 a.C.) […] E’ una cultura preistorica che si caratterizza per l’uso di tombe a forno senza pozzetto verticale, normalmente situate alle pendici di zone collinari […] A Tornambè – Fastuchera le caratteristiche della facies castellucciana sono perfettamente individuabili nei frammenti trovati nell’area. Tombe a grotticella bucano diverse pareti di roccia, ricreando un’atmosfera sacra, tipica di ogni luogo legato ai defunti. Vi sono diverse teorie circa questa costruzione. Si parla dell’opera dei Siculi che durante il XV secolo a.C. cacciarono gli indigeni Sicani. Si ipotizza anche che la costruzione sia stata voluta da Dionisio I, Tiranno di Siracusa, durante la guerra greco-cartaginese, volendo creare uno sbarramento tra la Sicilia per l’appunto greca e quella legata all’epicrazia cartaginese»[3]. Non mancano neanche i resti di un’antica piramide, che doveva sicuramente far parte di un villaggio siculo-sicano, come testimoniano nelle vicinanze i resti di abitazioni neolitiche.

Sito Cuddaru di Crastu

Successivamente, durante la Prima Guerra Punica, i Romani distrussero Caulonia poiché non si era sottomessa al loro dominio
«così ebbero fine le glorie di sì nobil Città, perdutandone oggidì l’amplo sito, le pietre intagliate, quadrate, i mattoni doppj, ed un gran numero di grotte ritagliate nelle vive Pietre»[4]; soltanto a questo punto la vicenda di Caulonia si intrecciò con quella di Pietraperzia.

Secondo Padre Dionigi, Pietraperzia (o meglio Petra di Sicilia) nacque da Caulonia, tesi sostenuta anche da storici come Filippo Cluverio e il Marchese di Villabianca, quest’ultimo in particolare affermò che Pietraperzia fu quella risorta dopo la distruzione dei Romani.

La prova che lo dimostrerebbe risale al 1756, anno in cui si formò nel Convento dei frati Minori Riformati di S. Maria di Gesù un’Accademia letteraria, riservata a coloro che si occupavano di arti umanistiche e scienza. L’Accademia prese il nome di Radunanza dei Pastori di Caulonia e i componenti assunsero i nomi delle Ville e delle più antiche Contrade di Pietraperzia, visibili in patenti stampate.

La Terra di Pietraperzia si deve probabilmente indentificare con la Petra nominata da Cicerone delle Verrine. L’antica città fu grande produttrice di grano, oggetto infatti delle ruberie del pretore Verre, preso di mira da Cicerone. Essa era ubicata in contrada Rocche-Lammersa, dove ancora oggi sono visibili i ruderi di un vasto insediamento umano. Le sue origini risalgono ad un periodo compreso tra l’VIII secolo d.C. e la dominazione araba, ma l’etimologia del nome Petra, divenuta poi Pietraperzia, appare ancor oggi incerta. Potrebbe far riferimento a Petronio, duce di Caulonia, o alla Ninfa Petrea, ma l’ipotesi più valida sembrerebbe convergere nella derivazione araba, con particolare riferimento alla Petra nel regno dei Nabatei, situata fra Damasco e Medina, anche se ancor oggi non esiste nulla di certo.

La Petra Nabatea era «una città scavata nella roccia, case e templi compresi; sovente su più piani anche in punti molto alti e poco accessibili, nelle pareti di una stretta e lunga valle. Un vero e proprio canyon da dove il viaggiatore non poteva fare a meno di passare»[5]. Da questo e altri luoghi spesso si allontanavano uomini e mercanzie per raggiungere le sponde opposte, come la Sicilia e la Sardegna.

Gli emigranti arabi che si ritrovarono nell’entroterra siciliano, nostalgici e consapevoli di non poter più far ritorno nel proprio luogo di origine, attratti da quella flora selvaggia delle Rocche così simile alla loro terra natia, scelsero questa località come luogo di accoglienza, chiamandola Petra.

A sostenere questa tesi vi sono diversi dati, come il poter ancora ammirare le troneggianti rovine oggi presenti sul luogo con caratteristiche identiche alla Petra del tempo, l’accertamento della presenza di quel tipo di flussi migratori e l’abitudine per gli emigranti di chiamare località in cui stabilirsi con nomi familiari, basti pensare alle molte città sudamericane con nomi di origine europea.

Per quanto riguarda il passaggio da Petra a Pietraperzia, secondo Padre Dionigi il termine sarebbe anche attestato dallo storico Claudio Tolomeo e Brezio, i quali riportano Petra-partia, piuttosto che percia.

Così Rosario Nicoletti analizza l’aggettivo partia:


E’ per noi interessante poiché il termine ‘partia’ deriva dal verbo latino ‘partio’ che significa divido, spartisco. Lo stesso significato che ha nella nostra parlata la parola ‘pàrtiri’ che oltre a partire, nel senso di mettersi in cammino, significa anche dividere, spartire, spaccare.

Con espressione molto più vicina alla realtà del fenomeno naturale verificatosi, lo storico Claudio Tolomeo denominò la roccia che, oggi, appare bucata, non ‘perciata’ ma ‘partia’: alla latina.[6]


Un’altra ipotesi risale al periodo normanno, relativamente al racconto dello storico e geografo Muhammad Al Idrisi, nella cui analisi delle località siciliane riporta il termine Petra con l’aggiunta dell’aggettivo perciata o percia, nella cui parlata siciliana dell’epoca, ma anche in quella odierna, significa perforata. Idrisi fece riferimento al gruppo di modeste case che, in forma di borgo medievale, cominciarono a sorgere accanto al Castello. Visitando anche i resti dell’antica Petra, non poté far a meno di notare come su tale sito vi fosse un’imponente roccia bucata: Petra Perciata, tradotta in arabo con Agar al matqub (Agar: pietra; Matqub: foro o incisura).

Storico e geografo Muhammad Al Idrisi


A prescindere dalle varie ipotesi formulate, la lingua araba ha lasciato un’impronta indissolubile sulla parlata siciliana, di cui ancora oggi sono visibili i segni. Col passare del tempo il sostantivo e l’aggettivo, per il naturale processo di semplificazione che travolge ogni lingua, si fusero, cosicché in italiano Petra divenne Pietra, mentre Percia divenne Perzia, da qui il termine Pietraperzia, in siciliano Petrapirzia.



Estratto dalla Tesi di laurea di Anna Marotta, Il bandito Antonino di Blasi alias Testalonga (1728-1767).







[1] Cfr. P. Fra Dionigi, Pietraperzia dalle origini al 1776, Relazione critico – storica della prodigiosa invenzione d’una immagine di Maria Santissima della Cava di Pietrapercia, Tipolitografia Di Prima, Pietraperzia, 2004, ripr. dall’ed. Palermo, Stamperia della Divina Provvidenza, 1776.

[2] L. Guarnaccia, Il Castello di Pietraperzia, Tipografia Di Prima, Pietraperzia, 2008, p. 30.

[3] I misteri di Tornambè e il ‘phrourion’ di Cuddaru di Crasto, tratto da Visita Pietraperzia, http://visitapietraperzia.blogspot.it/p/archeologia_12.html?view=magazine.

[4] P. Fra Dionigi, Pietraperzia dalle origini al 1776…op. cit. p. 103.

[5] R. Nicoletti, Da Petra a Pietraperzia, Tipografia Di Prima, Pietraperzia, 2002, p. 14.
[6] Ivi p. 16.


26 marzo 2018

Don Giovanni in Sicilia e quegli sguardi di troppo




Incontro con l’Autore

Vitaliano Brancati. Un affascinante e poliedrico protagonista. Un autore dalla natura intricata e oscura, non sempre visto dalla critica con degna oggettività, la quale lo ha spesso etichettato come “colui che portò il gallismo e il dongiovannismo in Italia”.
Ahimè, mai ci fu errore più grave di questo.
Il dongiovannismo è sinonimo di vitalità, forza, vigore, coraggio, carnalità, tensione verso la più accesa virilità maschilista; elementi del tutto estranei a Giovanni Percolla e alla sua strampalata combriccola, protagonisti del romanzo Don Giovanni in Sicilia (1941). Già il titolo dimostra quella connotazione tutta siciliana dei personaggi, il che comporta una serie di tratti distintivi: primo fra tutti, quello del mero atto sessuale non più carnale, ma solo apparente, statico e a tratti platonico, poiché l’eros, colonna portante dell’opera, si regge su un'unica e sola logica: quella degli occhi e quella dello sguardo.
Don Giovanni in Sicilia non è l’unico romanzo in cui lo sguardo assume un significato pregnante, si veda Anni perduti, in cui i protagonisti sono impegnati nella costruzione di una torre, una torre da guardare, una torre da cui guardare il panorama, un guardare che si sostituisce all’agire. Lo sguardo, quindi, nasconde dei significati più profondi, che saranno ben chiari se si entra nel merito dell’opera.
Giovanni Percolla ha tre sorelle, Rosa, Lucia e Barbara. Si ricordi che Santa Lucia è la protettrice della vista e degli occhi, e Brancati non sceglieva assolutamente a caso i nomi: le sorelle, infatti, rappresentano un surrogato materno, quell'elemento che tiene Giovanni ancorato al nido, che non ne permette la crescita e la maturazione. Gli occhi, quindi, sono strettamente legati alla sfera sessuale. Perfino la sua attività lavorativa è all'insegna degli occhi, poiché “il suo lavoro al negozio si riduceva ad aiutare con gli occhi quello che facevano lo zio e i cugini”. Anche il padre non è esente dal motivo degli occhi, poiché «La notte, il commendatore Percolla fu assalito dalla febbre, e i suoi occhi ingranditi s’attaccarono alla porta come vedendo qualcosa che gli altri non vedevano» La morte si associa quindi ad una padre ipervedente, dotato di un sentire unico. Tutti i membri della famiglia, chiaramente in misura diversa, sono convulsamente trascinati nella giostra degli occhi e dello sguardo.



Veniamo quindi a Giovanni.
Il suo eros non è concreto, ma soltanto astratto e mortifero. Non si bea della carnalità, ma si associa sempre ad immagini di fissità. Non passa all’azione, ma è solo un gioco di sguardi, come nel Dolce Stil Novo, divenendo simbolo di una mancata crescita dei personaggi. Gli occhi, quindi, sono un prolungamento, o meglio una sostituzione, del membro virile, poiché essi approdano dove tutto il resto non arriva.
«“Talìa?” dicono a Catania. “Che fa, talìa” domanda a voce bassa lo studente al compagno di banco, insieme al quale, col capo chino e rigido, passa sotto il balcone di lei.» Alla fine tutto si riduce ad uno sguardo, anzi ad una talìata.
Perfino il primo incontro tra Giovanni e Ninetta è all’insegna dello sguardo: Giovanni viene, per la prima volta, talìato, questa volta non è lui ad esercitare lo sguardo sulla donna, ma a subirlo.
Dietro il motivo dello sguardo si celano ragioni ancora più inconsce e recondite, a tal proposito si vedano le condizioni in cui Giovanni venne al mondo:
«Giovannino nacque un giorno più tardi di quando doveva nascere. Per ventiquattr’ore, gli sguardi, che i parenti mandavano al grembo della madre […] furon quelli che si mandano a una tomba precoce. Il bambino, il “corazziere”, che non usciva alla luce, fu considerato morto, e il nonno del padre lo pianse con gli occhi asciutti e certi rumori della gola che somigliavano a colpi di tosse».
Come si legge, Giovanni nacque all'insegna degli sguardi rivolti al grembo della madre, visto come una tomba precoce, simboleggiando ancora un ripiegamento verso la rassicurante dimensione uterina. Il nonno del padre, invece, lo pianse con occhi asciutti, con un dolore quasi indifferente ed estraneo. Madre, padre, occhi, sono motivi ricorrenti nella psicanalisi, in relazione al cosiddetto “complesso di Edipo”, che si accecò per non vedere più quel sole che era stato testimone dell'incesto. Anche Giovanni, quindi, come Edipo, non vuole abbandonare “il nido”.
Il complesso di Edipo sembra poi tornare in Anni perduti, secondo cui «si diventa adulti quando si diventa padri» a testimonianza di una impossibilità di paternità, un’angoscia di castrazione. A proposito di ciò, si vedano “i rimproveri” della madre nei confronti del padre di Giovanni, il quale, quando era bambino, lo baciava morbosamente:
«“Smettila di baciarlo così! Gli porti via gli occhiuzzi!…”»
Secondo Freud, la paura dell’accecamento (e quindi anche quella di Edipo) consiste nell'originario e inconscio timore dell’evirazione. L’evirazione denota, ancora, impossibilità di un amplesso carnale, richiamando anche l’impotenza del Bell’Antonio, simbolo di un eros mancato. Sempre secondo Freud, il complesso di Edipo collegato al motivo degli occhi è fortemente presente nel racconto L’uomo della sabbia (o Mago sabbiolino) dello scrittore tedesco E. T. A. Hoffmann, tematica affrontata nel saggio Il perturbante.
Fra tutte le profonde relazioni che tra le due opere si possono stilare, una cattura la nostra attenzione: l’espediente della bambola. Muscarà, uno degli amici di Giovanni, tornò da un viaggio con una bambola che assomigliava molto ad una donna in carne ed ossa; l’oggetto del desiderio venne nascosto in casa di Muscarà, poiché esso consisteva nell'elemento “perturbante”, un particolare inquietante che suscitava anche attrazione. La bambola avrebbe sconvolto la loro routine, rischiando di far “passare all'azione” i personaggi confrontandoli con una realtà più corporea rispetto a quella in cui avevano vissuto, per questo doveva essere celata.
Anche nel racconto di Hoffman è presente una bambola, Olimpia, la quale si rivelerà essere, alla fine del racconto, un automa, una bambola senz’anima.
Il motivo degli occhi e dello sguardo connesso al complesso di Edipo è presente anche nell'ultima eredità che lo scrittore ci ha lasciato, Paolo il Caldo. Il protagonista ci consegna un triste e malinconico soliloquio:
«Lo sforzo costante della mia vita è stato di vedere la luce del mondo (che per me è quella della Sicilia) dalla parte ridente, ed espellere dal cervello le influenze della sua ripresa buia, dalla quale derivano l'apprensione e la lussuria.
Non vi sono riuscito sempre. I periodi, in cui non vi sono riuscito, portano il nome di esaurimento nervoso. Che cosa era esaurito in me? Il fosforo, dicevano i medici. E questa diagnosi mi piaceva in modo particolare, perché fosforo vuol dire luce. In uno di tali periodi, mi son trovato seduto su un gradino del teatro greco di Siracusa, a una rappresentazione dell'Edipo a Colono di Sofocle. Quando il vecchio cieco gridò, con un gesto falso:
"Luce, che nella mia vivente tenebra più non vedevo, e sempre eri pur mia…" io ebbi un capogiro. Il verso, nonostante il gesto falso da cui era accompagnato, sembrava avesse premuto, come il dito di un chirurgo che operasse sul mio cervello, il punto in cui sono concentrate le forze della coscienza e della veglia.
»
Come si evince, il protagonista è consapevole di un suo oscuramento della coscienza, di un tragico conflitto interiore, va quindi alla ricerca della "luce" (motivo presente anche in Anni perduti), senza la quale la mente è ottenebrata dall'apprensione e dalla lussuria. E della stessa luce va alla ricerca Edipo che, dopo l'accecamento, viveva nelle tenebre.
Ricordiamo che il Novecento è il secolo della psicanalisi, dell’inconscio, del monologo interiore, del flusso di coscienza, basti tener presente l'Ulisse di James Joyce e La coscienza di Zeno di Italo Svevo (il cui protagonista, guarda un po’, è afflitto dal complesso di Edipo).
L’analisi riportata denota quindi una grande attenzione di Vitaliano Brancati al panorama novecentesco della letteratura italiana e straniera, un autore che, in virtù delle sue mille risorse e dei numerosi spunti di riflessioni, non può e non deve essere ridotto ad anguste etichette.
Spogliamo quindi i preziosi scritti del Brancati da tutte quelle nomee astruse e da quelle classificazioni riduttive, andiamo alla loro natura più intima ed essenziale, di una tempra tutta siciliana. Gettiamogli quindi uno sguardo, anzi, una talìata.


Anna Marotta