Visualizzazione post con etichetta Presentazione libri. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Presentazione libri. Mostra tutti i post

26 aprile 2019

Invito alla lettura: Il veleno dell’oleandro di Simonetta Agnello Hornby





Dopo avere letto la trilogia La Mennulara, Boccamurata e La zia Marchesa, “Il Veleno dell'oleandro” non si scosta nello stile e nelle tematiche sempre riproposte dalla nostra autrice. Una scrittura sapientemente resa scorrevole con le colorite descrizione di personaggi e luoghi di una Sicilia immaginaria. Luoghi immaginari ma che emergono reali alla mente di ogni siciliano che se ne è allontanato e le rivive con nostalgia.
Una scrittura sempre elegante anche nei piccoli dettagli descrittivi che danno forma e piacevolezza ai suoi romanzi.
Il racconto “Il veleno dell’oleandro” è ancora la narrazione drammatica di una grande famiglia: i Carpinteri, che nel groviglio delle passioni morbose, delle rivalità, dei segreti gelosamente custoditi, degli amori clandestini l’autrice intreccia con la consueta maestria sentimenti e risentimenti, sapendo creare momenti di vera suspance.
Bede Lo Mondo, un giovane bellissimo, viene accolto nella sua adolescenza dalla famiglia benestante dei Carpinteri, che gli dà la possibilità di studiare e di crescere nella loro tenuta de Ceuta a Pedrara.
Bede rimarrà fedele tutta la vita ad Anna, la padrona della tenuta. Accudirà devotamente Anna, ormai vecchia e malata di una forma di demenza fino alla sua morte. Un rapporto ambiguo ha legato Anna e il molto più giovane Bede.
L’incontro con i figli Luigi, Giulia, Mara e i parenti, accorsi al capezzale di Anna accende vecchi rancori famigliari, vecchi amori, storie di tesori nascosti, passaggi segreti. Anche i rapporti con la famiglia di Bede: i Lo Mondo, e una setta segreta, vedono il ritorno dei padroni come un ostacolo allo svolgimento delle loro attività illegali. Tanti misteri si svolgono nella villa e troppi personaggi entrano nella trama del romanzo.
Simonetta Agnello Hornby, in questo romanzo, introduce “parentesi” su numerosi soggetti solo accennati, una fotografia ridondante e non sempre nitida di personaggi e situazioni inverosimili: l'anoressia, la violenza familiare sulle donne, la bisessualità, l’omosessualità, l’associazione mafiosa, lo sfruttamento degli immigrati di colore.
Veramente troppo per non dare, in certi momenti, poca credibilità alle storie complicate della famiglia Carpinteri. La scrittrice non ha voluto fare una narrazione che avrebbe appesantito il romanzo su temi troppo scontati. Forse consapevolmente si è limitata ad accennarli, mettendo così il lettore nella condizione di immaginare e riflettere su argomenti della nostra attualità


Lina Viola



Il libro Il veleno dell’oleandro di Simonetta Agnello Hornby  è disponibile in biblioteca.  Puoi prenotarlo cliccando qui



10 dicembre 2018

Invito alla lettura: "Pastorale americana" di Philip Roth




Non avevo letto Philip Roth, ma l’eco suscitato dai mass media dopo la sua scomparsa, mi ha incuriosito e spinta a leggere Pastorale americana, uno dei suoi romanzi più noti.
La voce narrante è quella di Nathan Zuckerman uno scrittore appartenente alla comunità ebraica di New York che narra la vicenda personale e famigliare di Seymour Levov, detto lo Svedese, suo compagno al liceo e fratello maggiore di un suo compagno di classe. Soprannominato lo Svedese per il suo aspetto fisico e per la sua carnagione chiara. Un uomo generoso, bello, con un forte senso morale e grandi doti sportive, era stato l’idolo degli studenti.
Il romanzo racconta della famiglia ebrea dei Levov, emigrata negli Stati Uniti alla fine dell’800. Tre generazioni con gli stessi obiettivi di benessere e prosperità. Il nonno di Seymour che aveva fatto lo scarnatore di pelli in una conceria, il figlio Lou, padre dello Svedese, a 14 anni aveva lasciato la scuola ed era entrato a lavorare nella stessa conceria. Con enormi sacrifici e lavorando duramente si arricchirà creando una fabbrica di guanti per donna. Adesso Seymour Levov, lo Svedese, è subentrato al padre e la dirige con successo.
Lo Svedese sposa la cattolica Dawn Dwyer ex Miss New Jersey.
Bellissima coppia ricca e apparentemente felice. Una classica e invidiabile famiglia americana. Dal matrimonio hanno una figlia, Merry, con un difetto, la balbuzie e problemi di personalità che preoccupano il padre e rendono infelice la madre. Per correggere la balbuzie, Merry è seguita da specialisti; ma Merry, nonostante tutto, peggiorerà.
Il dramma che sconvolgerà la normale quotidianità dello Svedese e che farà crollare gli equilibri della sua vita è quando Merry, ormai adolescente, inizia la ribellione verso i genitori, criticando i loro valori e il loro stile di vita, e con il rifiuto delle convenzioni borghesi. Comincia a partecipare alle manifestazioni di protesta contro la guerra del Vietnam e alle lotte per i diritti civili delle minoranze. Sono gli anni della contestazione giovanile che la porteranno a unirsi a un gruppo di estrema sinistra, e a compiere un attentato. La conseguenza sarà la morte di una persona che la costringe alla latitanza.
Seymour Levov non accetta la figlia terrorista che ha distrutto la vita di persone innocenti. Il romanzo è permeato dalla disperazione di un padre per la perdita della figlia e sempre alla sua ricerca; l’impossibilità di comprendere i motivi che l’hanno allontanata dalla famiglia, e l’odio che l’hanno portata a compiere atti terroristici. Triste e commovente, quando anni dopo, ritrova la figlia che aveva creduto morta. Irriconoscibile nell'aspetto, vive come una senzacasa, in condizioni di estrema povertà, provata psicologicamente. Incapace di riportare la figlia a casa e toglierla dal letame nel quale vive una vita disperata, riconosce tutta la sua impotenza di fronte alle scelte distruttive della figlia.
La vita familiare di Seymour Levov è ormai definitivamente sconvolta. La moglie Dawn, dopo un lungo periodo di depressione comincia a riprendersi la sua vita; la scopre che ha una relazione con l’architetto che ha ristrutturato la loro villa.
Il romanzo è un lungo viaggio nel dolore, il racconto di come la precarietà dei sentimenti può distruggere una famiglia. Seymour Levov aveva costruito la sua vita e la sua famiglia secondo la “pastorale americana” della classe medio-alta del New Jersey, senza però aver saputo salvare la figlia dai rivolgimenti giovanili di quegli anni sessanta e il suo matrimonio dal subbuglio dei tempi moderni.
Consiglio la lettura del romanzo, un racconto potente dal quale un paio di anni fa è stato tratto un film

Lina Viola


Pastorale americana di Philip Roth è disponibile in biblioteca. 
Puoi anche prenotarlo cliccando qui








03 dicembre 2018

Invito alla lettura: Accabadora di Michela Murgia





Michela Murgia in
Accabadora fa intrecciare due usanze sarde. Si tratta di due pratiche dalle origini remote; ma le loro tracce non si perdono nella leggenda. Ne sopravvivono testimonianze fino agli anni Sessanta, in alcune regioni sarde.

La prima: una donna benestante adotta il figlio di troppo d'una madre povera. La donna non avrebbe figli, in altro modo; ella diviene sua madre, agli occhi della comunità. Il figlio, "generato due volte", è suo "fillus de anima"; è frutto della sterilità della donna da cui è stato scelto. E' stato scartato dalla sua prima madre ed è stato eletto dalla seconda.
La seconda pratica, invece, è un rudimento di paese dell’eutanasia. E’ una vecchia a svolgerla. La vecchia s’aggira silenziosamente, non vista, di notte. Mentre cammina, la sua gonna nera e lunga svolazza fra le case. Si veste di nero, e si muove di notte, perché la comunità di Soreni non deve vedere ciò che esula dalla sua morale. Ma anche gli abitanti di Soreni, in un anfratto senza regole (quello del mondo notturno, ma anche della femminilità più mistica e leggendaria) contempla la figura dell’Accabadora. Acabar: terminare, in spagnolo. L’Accabadora si reca, discreta nella notte, al capezzale dei morenti, cui manca il suo solo colpo finale per essere finalmente morti. Li finisce, con un colpo di bastone dove sa lei, con una pressione del cuscino; fa loro respirare polveri che stordiscono. L’Accabadora è l’ultima madre in cui a qualcuno è dato d'imbattersi. L'ultimo volto materno in cui specchiarsi. L’ultima madre cui qualcuno si accompagna nel congedo dalla vita, per alleviare il dolore prima del trapasso. Perché “non c’è nessun vivo che arrivi al suo giorno senza avere avuto padri e madri a ogni angolo di strada”. L’Accabadora è una madre esecutrice priva di figli.

La protagonista del romanzo è Maria Listru, ultima figlia di troppo della popolosa, ma povera, famiglia Listru. La vedova Listru, madre di Maria, accetta l’offerta d’una ricca vedova senza figli, che la adotta. Maria è “fillus de anima, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai.”. Non rimpiangerà la madre precedente; Bonaria Urrai, la vedova adottiva, ha molto da insegnare a quella bambina selvatica: come cucire le asole, prepararsi alle guerre del futuro, come accogliere la vita e la morte. L’aveva scelta fin da un pomeriggio in bottega, quando s’era accorta dei furti inosservati che la bambina compiva. Era stato il rossore delle ciliegie appena rubate a tradire la piccola Maria: la refurtiva si vedeva da una macchia rossa sulla tasca bianca del suo abitino. Bonaria l’aveva vista, “nei peccati senza complici dei bambini soli.” L’aveva adottata.

La piccola Maria è legata a Tzia Bonaria, insieme alla quale, senza che il lettore trovi il tempo d'accorgersene, diviene donna. Ma Maria non sa ancora che l’Accabadora s’addentra silenziosa per le strade, di notte, invisibile perfino ai vivi, avvolta nel suo scialle nero. Va a porre fine alle vite con le quali la stessa Maria è venuta a contatto, nella piccola Soreni. Ogni tentativo operato dai personaggi del romanzo per ristabilire un ordine, seppure precario, agli avvenimenti più precari della vita, è sventato dalla figura dell’Accabadora, puntuale come la morte, l'evento che porta con sé.
Tanto remissiva alle sue colpe, nei momenti di debolezza, l'Accabadora è tuttavia altrettanto risoluta quando sia giunto il tempo di commetterle.

Queste due pratiche raccontate nel romanzo conferiscono all’Accabadora una lontananza storica; ma che non si perde troppo lontano, nella storia. Ed una distanza antropologica, ma che si trattiene, fra le tante punte liriche del romanzo della Murgia, nei confini etici dell’umano. Ed è proprio il dibattito sull’umano, su cosa sia giusto e cosa sia soltanto morale, ad intrecciarsi nei dialoghi dei protagonisti. Tale dibattito è tenuto in ragione della distanza fra ciò che essi credono e il modo in cui le loro azioni sono accolte dagli abitanti di Soreni. Ma non solo quelli di Soreni: il dialogo di questi personaggi si inserisce nel dibattito oggi attuale sui temi di eutanasia e adozione. Lo affronta da una certa distanza, lo pone sotto la luce di una Sardegna tradizionalista, quasi atavica.

Una lontananza spaziale e temporale conferisce all’Accabadora, nei termini di ambientazione e d'atmosfera narrativa, un sentore di isolamento che ricorda qualcosa dei luoghi più sperduti della letteratura. Il parente più illustre della Soreni della Murgia è forse la Macondo di Marquez. Questi luoghi traggono specificità dalla loro dimenticanza d’un mondo civilizzato. In questi luoghi, è possibile che gli zingari si spingano ai confini del mondo a far conoscere il ghiaccio (Marquez, Cent’anni di solitudine). Ma in questi luoghi prende forma anche la Sardegna delle tradizioni che Michela Murgia ci ha raccontato magistralmente nell’Accabadora.


Alessia Borriello









01 novembre 2018

Il prequel di “The Game”: Il saggio “I barbari” di Alessandro Baricco



Alessandro Baricco, I barbari


Nel saggio I barbari, Baricco scorre prima di tutto il filo di una metafora. È questa l’abilità dello scrittore che si presta come saggista. Prima di attorcigliarsi in ogni tecnicismo, che, forse, non gli compete fino in fondo. Prima di farlo, lo scrittore svolge il filo di questa metafora, da cui si fa guidare.

Ma occorre, in una recensione, spiegare prima l'argomento canonico scelto per il suo saggio. Il libro di Baricco illustra alcune delle più significative mutazioni che ci ha portato in consegna il nostro mondo contemporaneo della rivoluzione digitale (quello contemporaneo alla scrittura del libro: 2006). Baricco illustra il nuovo volto di alcuni ambiti della nostra vita: i libri, la musica. Ma anche: il vino, il calcio. Le melodie che fischietta un postino camminando per strada, nel consegnare la posta.

Ma, insieme al saggio di Baricco, dobbiamo smottare fino al livello metaforico, scelto dallo scrittore per raccontare il suo argomento. Si tratta della metafora dell’invasione della nostra civiltà da parte di sconosciuti barbari. I barbari sono le nuove generazioni a partire dagli anni ’60 – ’70. L’ultimo capitolo si conclude con il resoconto del loro assalto alla Grande Muraglia Cinese. Nella sua visione, ci sono ingegneri che stanno innalzando il Grande Muro. Ne sono preposti alla manutenzione.

Intanto, i barbari lo hanno già valicato da tempo. Non solo perché per loro non c’è confine che tenga: ma per loro quel confine non esiste. La ragione d’essere dei civili è quella di edificare un muro che tuttavia sussiste solo nel momento in cui lo si vuole difendere. E a nessuno che venga in mente di navigare la corrente della mutazione. Il flusso portato dai barbari.

Barbaròs in greco significa esattamente barbaro, nella sua corrispondenza di significato e significante: e cioè significa proprio “bar bar”. I greci, colti e civili, usavano questo termine per riprodurre con un termine onomatopeico e canzonatorio il modo di parlare di questi incivili. Costoro non conoscevano il greco, ma parlavano un’altra lingua, e sembrava che barbagliassero. “bar bar”: era ciò che i Greci sentivano. Ma altro e di più era ciò che i barbari dicevano, se si stava ad ascoltarli. Un giorno, nel II sec. a.C, i barbari furono i Romani. I Greci civili furono conquistati dai barbari incivili, che diedero inizio ad una civiltà più grande della loro. In quella novità, la Grecia era una provincia. Il suo modo per salvarsi fu quello d’abbandonarsi all’impero, di divulgare una cultura, le proprie scoperte, il significato che aveva estirpato dal mondo prima di decadere dolcemente.

Baricco, nella sua metafora, vuole dirci anche questo, evocando proprio il termine: barbari; certo, insieme ad una compresenza di altre implicazioni. È questa la natura propria della metafora, lo strumento più provocatorio che Baricco avrebbe potuto usare per un saggio, che trascina con sé molte implicazioni attorno ad un oggetto preposto come indagine specifica.

Eppure, anche la provocazione di Baricco è da “barbaro”. E questo Baricco lo sa. Ne fa uso consapevole.

I barbari sono le mutazioni della società digitale, gli attori e i pionieri che le hanno apportate. La civiltà è, in antitesi, l’assetto antropologico e culturale precedente.

Un’altra metafora: la civiltà è un animale. I barbari sono un pesce. Il segno di una mutazione può essere letto solo alla luce di questa scoperta. Perché l’evoluzione non sia letta come degenerazione. Perché l’inizio di una branchia non sia considerato come la malattia d’una zampa. Ma solo l’inizio di un pesce.

Ed è così che, in una cauta spirale di metafore, Baricco procede ad illustrare le tappe fondamentali che hanno condotto alla trasformazione della società borghese consegnata in eredità dalla cultura ottocentesca. Google, cinema, fotografia. Commercializzazione spinta: di vino, di calcio, di libri, di musica.

Baricco dimostra grande apertura mentale e scarsa tendenza all’apocalisse. Il modo più sfrontato che ha per farlo è paragonare questa incompresa mutazione di oggi a grandi, già riconosciuti cambiamenti epocali del passato. Baricco trova molte similitudini fra l’allargamento dell’odierno pubblico editoriale e la mutazione di prospettive che il romanzo abbracciò in pieno Ottocento, quando scelse di rivolgersi a tutto il mondo borghese. Nel farlo, Baricco dimette ogni giudizio di qualità sull’odierna mutazione, preponendosi di valutarne solo la direzione. Poi, traccia la fisionomia dei barbari. È questo ciò che più gli preme: il loro volto. Lo disegna seguendo il filo della mutazione, la traccia di un cambiamento.

Per questo, fra le sue epigrafi, non può mancare Walter Benjamin. La sua voce si fa sentire lungo l’intero corso del libro. L’eclettico studioso tedesco di XX secolo, prima che per la sua erudizione, viene evocato per la sua maestria nell’arte di riconoscere i cambiamenti e di intravvederne la direzione. Di dedicarsi a diversi aspetti della realtà, congiungerne i tasselli, ricostruirne la fisionomia. Maestro, insomma, nell’arte di fiutare la direzione del presente verso il futuro.

I barbari, dunque, è un saggio sulle mutazioni della civiltà e del mondo del libro. È un saggio sull'arrivo dei barbari. Il saggio-romanzo, nella sua struttura esplicita, fornisce dapprima una mappatura per comprendere il loro saccheggio. Poi, un tracciato del loro volto. Infine, l'invito a comprendere la loro strategia. E la proposta d’una soluzione ragionevole: abbandonare il senso dell'apocalisse, osservare il disegno della mutazione.

Alessia Borriello
@Alessia Borriel5



31 ottobre 2018

Invito alla lettura: La variante di Lüneburg di Paolo Maurensig




Frisch, un ricco tedesco, viene trovato morto nella sua villa, per un colpo d'arma da fuoco. Sembra si tratti d'un suicidio, ma non ci sono messaggi. Solo una scacchiera di pezza, sul suo tavolo da lavoro, con una posizione di gioco già sviluppata. La variante di Lüneburg è, all'inizio, un giallo da risolvere.
Ma al giallo, in breve spazio, segue il racconto biografico: tempo prima del fattaccio, Frisch e il suo collega Baum, nel treno da Monaco a Vienna, incontrano Hans. Egli è un misterioso ragazzo, che prende a raccontare la sua lunga storia. Racconta di una serie di partite a scacchi. Con il racconto di Hans, La variante di Lüneburg è, prima di tutto, un libro di partite a scacchi.

Le partite, le più importanti, sono quattro: una fra un ragazzo ebreo e uno nazista, nella scalata per aggiudicarsi il titolo di campione mondiale di scacchi; siamo qualche notte prima della Kristallnacht. La seconda è la partita giocata da quei due ragazzi divenuti uomini. Il primo è un ebreo rinchiuso nel lager di Bergen-Belsen, nella landa di Lüneburg; il secondo è un sottufficiale nazista di quel campo. La partita si gioca al tavolo della sua scrivania, l’ebreo viene assolto dai lavori pesanti del lager perché sia garantita la sua lucidità al gioco. La terza è la partita delle loro due vite, una sfida, a partire dalla gioventù, ad intimidire l’altro, a non farsi circuire. La quarta è la seconda guerra mondiale.

Il rapporto fra queste partite è un giocoforza che ha la tragicità delle piccole vicende che si misurano con i grandi eventi della storia. Vince chi vince gli scacchi, o chi vince la guerra? C'è il pericolo che la sconfitta storica determini l'esito della partita a scacchi. Così, la sfida fra due vite diventa una tensione strategica allo scacco per l’altro. Non c’è più solo la bravura tecnica: lo sa il tedesco, che fin da ragazzino vuole intimidire il suo avversario. Si presenta quindici minuti in ritardo alla partita, per prendersene gioco.

Col racconto di Hans, il romanzo diviene un racconto a cornice, dove basta il tempo d’un viaggio in treno perché i rapporti fra vite trascorse siano incastrati per sempre. Per cui, la fine del romanzo sarà la chiave di lettura della mossa iniziale: quella del suicidio di Frisch. E così, tutto il romanzo è una partita ripercorsa all’indietro (la terza: quella della vita). Procedendo, se ne incontrano le vittime o pedine.

Ci si accorge allora che la variante di Lüneburg è stata applicata alla vita. Non il libro: ma la mossa di scacchi. Perché il titolo del romanzo prende il nome da una mossa di scacchi: quella inventata dall’ebreo nella landa di Lüneburg. Essa consiste nel sacrificio d’un cavallo, in ragione del bottino di due pedoni. Alla fine del romanzo, poi, si capisce chi sia il cavallo, si comprende la natura dei pedoni.

Alessia Borriello​


La variante di Lüneburg di Paolo Maurensig è disponibile in biblioteca. 





15 ottobre 2018

Invito alla lettura: Caterina de’ Medici. Un’italiana sul trono di Francia




Una figura affascinante e controversa del XVI secolo, fiorentina di nascita. Un’italiana sul trono di Francia che seppe conquistare il suo posto nel mondo. Caterina Maria Romula de’ Medici è stata ed è ancora oggi una figura complessa. Le leggende intorno alla sua figura l’hanno resa celebre fino ai giorni nostri. Regina tra le più influenti delle corti europee della sua epoca e donna di cultura, dotata di una intelligenza fuori dal comune, esperta politica e vera appassionata delle opere di Machiavelli. Caterina de’ Medici era pronipote di Lorenzo il Magnifico. Regina di Francia in quanto sposa di Enrico II porterà in Francia la cultura del rinascimento italiano. Fu madre di tre re: Francesco II, Carlo IX, Enrico III, fu di fatto la vera detentrice del potere durante il regno dei tre figli, cagionevoli di salute e troppo giovani per il governo della Francia.

Ma chi era esattamente Caterina de’ Medici?


Jean Orieux nel suo libro la descrive come una donna non bella, tracagnotta, magra, il viso rotondo, gli occhi sporgenti, le labbra grosse. Il suo promesso sposo, Enrico, duca d’Orléans la trovò insignificante; ma era affascinante, colpiva per la sua intelligenza, la sua esperienza politica, formatasi durante il periodo alla corte pontificia, la sua cultura e il suo gusto artistico.
Parlava un francese perfetto ma con un marcato accento italiano che contribuiva a ricordare, sgradevolmente, la sue origini italiane. Questo accentuava la diffidenza che i francesi nutrivano nei suoi confronti, sarà sempre avversata dalla corte e già mal sopportata per i suoi bassi natali rispetto al duca d’Orléans.
In verità Caterina aveva paura, si sentiva sola in una terra straniera, senza figli e con il rischio di essere ripudiata; dopo 10 anni di matrimonio metterà al mondo 10 figli. Provava una totale adorazione nei confronti del marito che però preferiva la compagnia della sua amante, Diana de Poitiers.
Una regina affascinata dall’occulto, dall’astrologia, amava consultare i suoi astrologi, i fratelli Ruggieri, che i francesi guardavano con diffidenza.
Ricordata per la lotta fratricida tra cattolici e protestanti, gli viene addossata la responsabilità di avere dato inizio alla guerra di religione che sconvolse la Francia durante il suo regno, prima come regina consorte e poi come reggente. Fu ritenuta donna crudele e spietata, artefice del cosiddetto eccidio della “Notte di San Bartolomeo”. Migliaia di ugonotti, i protestanti francesi. venuti a Parigi per festeggiare le nozze tra Margherita, figlia di Caterina, con il cugino Enrico di Navarra, capo dei protestanti francesi, furono tutti sterminati. In realtà gli furono addebitate responsabilità  non sue. Di lei si evince una figura portatrice di idee di tolleranza religiosa. Una regina illuminata e non di fatto una “Regina Nera” come considerata per molti secoli.
Nel suo libro, Jean Orieux, porta alla luce tutti gli aspetti e le sfumature di questa figura imponente e controversa che ha affascinato la sua epoca e continua ancora ad affascinare.

Ilaria Matà

07 settembre 2018

IL BANDITO TESTALONGA. LA RESISTENZA DI UN VINTO.


Un libro di ANNA MAROTTA, 
Giambra Editori,
prima edizione giugno 2018.


Come dimostrano i dati del mercato editoriale italiano degli ultimi anni, i piccoli e medi editori crescono dimostrando serietà e vivacità culturale, certamente salutari in un panorama spesso viziato dal conformismo. E proprio da questi editori coraggiosi ci arrivano autentiche perle come questo libro di Anna Marotta dedicato al famoso bandito
Testalonga. Il saggio nasce come Tesi di laurea dal titolo "Il bandito Antonino di Blasi alias Testalonga" (1728-1767), a conclusione del corso di laurea in Filologia Moderna, conseguito nel 2016 con il massimo dei voti e la lode presso l'Università degli Studi di Catania. Il valore aggiunto del libro consiste nell'aver coniugato il rigore delle fonti con lo stile narrativo. Lo storico/detective dovrà dipanare un'intricata matassa, dove non solo storia e leggenda sono intimamente intrecciati, ma dove il confine tra legge e fuorilegge risulta, come vedremo, assai labile.
Per prima cosa, l'Autrice descrive il contesto storico, politico e sociale nel quale il protagonista, anzi, i protagonisti si trovarono a vivere ed operare: il bandito Testalonga, il suo "antagonista", il viceré Fogliani, i nobili, il popolo e colui che nel libro viene chiamato "l'alter ego" del bandito, che "nel tormentato inseguimento tra guardia e ladro , si scontrò con qualcosa più grande di lui che non avrebbe mai immaginato", il principe di Trabia Don Giuseppe Lanza, nominato Vicario dal viceré con l'incarico di catturare Antonino di Blasi e la sua banda.
Nella Sicilia del Settecento si susseguono ben quattro dominazioni: quella spagnola, sabauda, austriaca e infine borbonica, ma per i siciliani cambiava poco o nulla essendo semplici pedine nelle mani dei potenti e succubi di un sistema dove imperavano i privilegi e gli abusi nobiliari e l'oppressione tributaria e dove anche la natura faceva la sua parte con catastrofi, epidemie e carestie di raccolti, come la crisi del grano del 1763. Sono proprio gli anni in cui il di Blasi si diede alla macchia. Intanto, una precisazione terminologica e storica: banditismo e brigantaggio sono due fenomeni diversi, anche se spesso vengono confusi. Tra il Cinquecento e il Settecento venivano chiamati "banditi" coloro che erano colpiti dal bando, cioè da un decreto di espulsione dalla comunità; il brigantaggio fu fenomeno successivo e più complesso, che interessò migliaia di persone che non possono essere sbrigativamente e sommariamente liquidate come "delinquenti", ma che ebbe il carattere di una vera "insorgenza", dapprima contro i francesi e il giacobinismo e che esplose soprattutto dopo il 1860 contro uno Stato che evidentemente in troppi percepivano come oppressore e invasore. Contro banditi e briganti il potere rispose con una repressione cieca e selvaggia, fatta di torture, esecuzioni sommarie, teste mozzate e corpi smembrati. Una triste pagina di storia che solo di recente è stata raccontata anche "dalla parte dei vinti". L'altra faccia di questa feroce repressione era rappresentata dal compromesso, dallo scendere a patti con i malviventi da parte di molti settori "altolocati" della società.
Antonino di Blasi nacque il 19 febbraio 1728 a Pietraperzia. Ultimo di sette figli, crebbe in un ambiente povero e privo d'istruzione. A soli 15 anni sposò Antonia Anzaldo che di anni ne aveva addirittura undici. Non sappiamo esattamente che lavoro facesse il giovane sposo, comunque per un certo tempo cercò di sbarcare il lunario. Poeti, romanzieri e cantastorie hanno tramandato il momento in cui Antonino si diede alla macchia. Lo fece dopo aver ucciso il bargello (nome con il quale si indicava il capitano militare addetto all'ordine), perché questo gli aveva assassinato la madre. Una "romantica leggenda" come la definisce Anna Marotta, che non trova riscontri oggettivi poiché si è potuto appurare dall'archivio della Chiesa Madre di Pietraperzia che la madre morì quando Antonino aveva tra i tre e i quattro anni. L'idealizzazione del bandito come una specie di Robin Hood che rubava ai ricchi per dare ai poveri, anche se priva di prove che ne dimostrino la veridicità, risponde pienamente all'anima di un popolo assetato di riscatto e di giustizia. "La leggenda - scrive Marotta - diventa uno specchio riflettente di quei difficili anni, anche perché i bargelli, così come i gabelloti e i campieri, rappresentavano gli emissari dei "nobili" feudatari e loro erano i fautori delle peggiori barbarie a danno del popolo" Plausibile è la notizia secondo cui Antonino di Blasi scontò tre anni di carcere ad Agrigento per aver rubato un bue. Rimesso in libertà incrociò il suo destino con quello dei compagni di (s)ventura Giovanni Guarnaccia di Pietraperzia e Antonio Romano di Barrafranca. Insieme organizzarono una temibile e numerosa banda i cui primi movimenti sono attestati, come si evince dal fondo Trabia presso l'archivio di Stato di Palermo, a partire dal 1766. Il primo luglio di quell'anno l'Avv. Fiscale Don Giuseppe Iurato scrive al viceré Fogliani mettendolo in guardia sulle malefatte della banda ed invocando i necessari provvedimenti. Viene subito promulgato un bando con cui si mette una taglia di cento onze sui tre principali capi della banda: Testalonga, Guarnaccia e Romano. Da questo momento non sono più semplici ladri, ma "abbanniati", banditi. L'attività principale della banda consisteva nell'assaltare le masserie ed estorcere ai benestanti il denaro con cui Testalonga creò una fitta rete di complicità, anche ad alti livelli, tanto da dimorare tranquillamente presso nobili ed ecclesiastici. Alla banda viene attribuito un solo omicidio, quello del Tenente dei barrigelli di Butera, ma non imputabile al Testalonga. In seguito al bando, il Guarnaccia si separò dal resto della banda seguito da tre compagni, ma nel mese di ottobre vennero catturati a Regalbuto e il 10 novembre furono impiccati a Palermo nella Piazza della Marina. Testalonga, Romano e gli altri, per nulla intimoriti, continuarono le proprie scorribande assaltando feudi e masserie. Ed ecco entrare in scena Don Giuseppe Lanza Principe di Trabia che, come abbiamo già detto, viene nominato Vicario Generale Viceregio. Una volta ricevuto l'incarico dal vicerè, egli organizzò il suo quartier generale a Mussomeli e promulgò subito un bando nel quale si fissava la taglia per ciascun bandito. Deciso a stroncare l'attività della banda, il Vicario inviò corpi armati a perlustrare campagne e grotte e non esitò ad assumere come spie e capitani elementi della malavita. Dai suoi informatori e dalle numerose lettere anonime ricevute, Don Giuseppe Lanza compilò una lista dei complici e protettori del Testalonga, ai quali intimò di consegnare il bandito vivo o morto. Siamo all'epilogo della storia. Il 18 febbraio 1767 Testalonga e il suo fedele compagno Romano, in seguito ad un conflitto a fuoco, vennero catturati in una grotta nei pressi di Castrogiovanni (l'attuale Enna), traditi proprio dai principali protettori, i baroni fratelli Trigona di Piazza. Di Blasi e Romano, insieme ad altri componenti della banda, vennero portati a Mussomeli, torturati e condannati alla forca, sentenza eseguita il 7 marzo 1767. L'indomani i corpi vennero squartati e le teste tagliate, quella del di Blasi portata come trofeo a Palermo, la testa di Romano venne esposta a Barrafranca. Un potere corrotto a tutti i livelli si accanisce in modo barbaro sui cadaveri, ma nessuno dei numerosi protettori, prima additati dal Vicario, venne punito, anzi, intascarono riconoscimenti e ricompense. E allora, la domanda che più volte emerge scorrendo le pagine del volume, risulta pienamente legittima:" CHI SONO I VERI BANDITI?".
Anna Marotta ha compiuto un lavoro straordinario, da vera storica/detective ha consultato le carte con pazienza certosina (un intero capitolo è dedicato agli Archivi) restituendoci nella sua interezza la figura del bandito Testalonga e la sua epoca. Un libro che non può mancare nella biblioteca di ogni studioso o semplice appassionato della nostra storia.

Salvatore Marotta



07 luglio 2018

Presentazione del libro di Anna Marotta "Il bandito Testalonga. La resistenza di un vinto"

L'Associazione "Amici della Biblioteca" di Pietraperzia è lieta e onorata di invitare tutta la cittadinanza alla presentazione del libro della nostra cara socia Anna Marotta "Il bandito Testalonga. La resistenza di un vinto" che si terrà in data 14 luglio presso il Chiostro di S. Maria alle ore 19:00. Oltre che dagli interventi, comprendenti la coordinatrice dell’Associazione Lucia Miccichè, l’editore Pierangelo Giambra, l’autrice Anna Marotta e il Sindaco Antonio Bevilacqua, la serata verrà accompagnata da parti recitativo-musicali curati dalla toccante voce del poeta Giuseppe Mistretta​ e dalle meravigliose arpeggiate di Emiliano Spampinato. Non mancheranno le sorprese: la proiezione di un book trailer, le illustrazioni del grafico Nicolò Speciale che ha realizzato la copertina e tanto altro. Al termine della serata verrà offerto ai presenti un rinfresco. L’opera, già presentata al Festival Letterario “Una marina di libri” di Palermo, verrà quindi per la prima volta esposta al pubblico a Pietraperzia, proprio quella terra in cui il bandito nacque. Non mancate, vi aspettiamo numerosi!

§§§§§§

“Tra le profonde radici della terra siciliana, in un museo a cielo aperto accompagnato dalla calura dello Scirocco, cinque controversi protagonisti orchestrano un'infelice storia, il cui tragico finale è più che prevedibile. Il bandito Testalonga (1728-1767), eletto a Robin Hood da un popolo affamato di pane e ideali, diventa così l'emblema di uno spaccato di società, quella dell'omertà, degli intrighi, delle connivenze e dei tradimenti. Ad ogni pagina si respira Sicilia. L'isola è nelle grotte e nei cunicoli impervi, nelle campagne bionde di grano, nei modi espressivi, nei soprusi delle istituzioni e nella primordiale brutalità delle pene. Oggi Testalonga ci lascia una preziosa eredità, al di là dei poco credibili cliché a lui attribuiti: poco o nulla è cambiato rispetto ad allora, la storia ci dà una parvenza di continuità ma, dopotutto, sempre si ripete. Cos'è quindi la resistenza di un vinto? Non consiste nell'esaltazione eroica, un campione appartiene solo ai cantastorie e al popolo; e nemmeno nel giudizio inquisitorio. È solo la chiara e lucida consapevolezza di non poter alzare barricate tra buoni e cattivi. Vago è il confine tra bene e male in un mondo opaco gettato in mare aperto, un funebre e sconfinato Mediterraneo”.







04 maggio 2018

Invito alla lettura: Figli di uno schizzo



Il romanzo del ritorno “Figli di uno schizzo” e la mia idea di scrittura.



In un mondo che alza troppo spesso la voce per cose futili, che diventa talvolta stretto per i sogni e di desideri di tutti, c’è chi si mette in un angolino e ritrova il suo mondo, il suo essere, attraverso la scrittura che è un riparo da tutto il caos mondano.
La scrittura è il linguaggio di chi non sa parlare, o meglio, non vuol parlare a chi non ha voglia di ascoltare in un mondo che va di fretta, per cui rimane lì pronta a svegliare  le emozioni dell’io di chi scrive, ma anche di chi vuole leggere  per vivere una vita in più.
Figli di uno schizzo è un romanzo che segna il ritorno, il ritorno di una passione che non se ne è mai andata, perché è così: ciò che amiamo non ci lascia mai del tutto, si può mettere da parte, ma lasciarci mai.
Così come un marinaio ritorna a casa dopo un naufragio, io, tra una parola, una virgola e un punto, ho ritrovato me stesso, sono ritornato nel mio mondo perché il bisogno di scrivere dentro di me l’ho sentito urlare.
Scrivere è una dimensione che non ha tempo, nella quale ci caliamo ogni volta vogliamo comunicare qualcosa che altrimenti sarebbe incomunicabile, restando chiusi in noi stessi.
Scrivere è la voce della spontaneità, della meraviglia.
Scrivere è mettere un attimo in pausa la propria vita per viverne qualche altra, e magari poi tornare alla propria vita un po’ più ricchi.


Giuseppe Bianco


Breve biografia:
Dal 2000 al 2008 ho vinto numerosi concorsi letterari sul territorio nazionale, sono stato membro di giuria in molti concorsi, ho gestito il sito letterario “Le parole per te” dove si dava spazio ad autori esordienti e più conosciuti. Ho organizzato per 10 anni il concorso letterario “Città di Caivano – Le parole per te”, curato varie antologie. Direttore editoriale della casa editrice ALBUSedizioni. Pubblicato tre libri “Lungo la strada del tempo”, “Chiedilo all’amore” e “Figli di uno schizzo” libro che segna il ritorno dopo una lunga distrazione.

Il libro è stato donato alla biblioteca dall'autore. Potrete leggerlo a breve.



26 aprile 2018




Il vecchio ulivo e l'uccello del paradiso

Lucia Miccichè

Curatore: V. Calì
Illustratore: N. Speciale
Editore: Edizioni del Poggio



È risaputo che uno dei modi di esporre e tramandare verità sapienziali e spirituali è rappresentato dalla fiaba e, in genere, dalla letteratura fantastica (basti pensare a Tolkien e al famosissimo Il Signore Degli Anelli).
Dietro parole arcane, figure emblematiche, allegorie e metafore, si dis-vela il significato potente e primordiale dei simboli, capace di ricondurci al Centro dell'Essere, a ritrovare il Santo Graal che è...l'Amore! Ed è quello che succede nel libro della nostra giovane Autrice. Soffermiamoci brevemente sui protagonisti: un Vecchio Ulivo (la voce narrante) e l'Uccello del Paradiso (la figura mistica). Quando il vecchio ulivo conosce quell'incantevole Creatura del cielo gli affida un'importante missione: andare alla ricerca del più grande mistero della vita e del mondo intero: l'Amore! Nella Tradizione, la figura dell'Albero è tra le più mistiche e sacrali, insieme a quella della Montagna. L'Albero rappresenta l'unione tra la Terra e il Cielo. Tradizioni e religioni differenti hanno avuto alberi sacri, Alberi della Vita, Alberi del Bene e del Male, del Paradiso, della Luce, della Saggezza, dell'Immortalità, ecc...
L'Albero fu ricollegato al mito dell'AXIS MUNDI, l'Asse del Mondo. Anche l'Uccello è altamente simbolico, basti pensare alla Fenice, simbolo d'immortalità; o alla tradizione dei Nativi Americani con l'Uccello di Tuono, simbolo di Potenza, Nutrimento, Trasformazione o Messaggero Divino, a seconda delle tribù native. Altro elemento simbolico è rappresentato dalla LINGUA DEGLI UCCELLI. Ne parla un'autorità indiscussa in fatto di Simboli e Dottrine Tradizionali come René Guénon nel suo SIMBOLI DELLA SCIENZA SACRA, dove si legge che "gli uccelli sono presi di frequente come simbolo degli Angeli, vale a dire precisamente degli stati superiori". Il terzo elemento simbolico che vogliamo considerare è rappresentato dal VIAGGIO INIZIATICO. L'Uccello del Paradiso, al pari di altri viaggiatori mitici, dovrà compiere un Viaggio dove affronterà diversi pericoli e incontrerà personaggi emblematici, ognuno dei quali segnerà il suo percorso verso la Consapevolezza: il Fanciullo Natalino, il Monaco, il Governatore, il Musicista, la Bella Danzatrice Marinedda, il Poeta, il Cieco...Ogni viaggio implica il Ritorno e l'Uccello del Paradiso alla fine ritorna dal Vecchio Ulivo. " Domandai dell'Amore al più Piccolo ed esso mi diede la Speranza, domandai dell'Amore al più Devoto ed esso non aveva più spazio per me, allora chiesi al più Forte ed egli mi diede disperazione, mi rifugiai nella Musica ed ella mi istruì note nuove, così mi rivolsi alla Bellezza ed ella mi indicò la strada del cuore, così trovai la Poesia ed ella mi diede il modo per farlo intendere, ma ancora non comprendevo la risposta al grande mistero, così infine fu lui a trovarmi".
Ed è proprio il Cieco, il più Fragile, a condurlo nella dimora dell'Amore perché..." Non tutto è visibile agli occhi del mondo...A volte il Segreto è osservare ad occhi chiusi..."
Con questa bellissima massima sapienziale possiamo concludere queste note. Il libro è adatto a tutti, grandi e piccini. Come leggiamo in una bella recensione di Paolo Cortesi :"Si tratta di una storia che ha più livelli di comprensione: per i bambini, è una fiaba avvincente e dolcissima; per gli adulti è una allegoria sempre valida; per gli studiosi di filosofia esoterica è un viaggio di maturazione nella consapevolezza" (Nexus New Times nr.127 aprile/maggio 2017).
La storia è ambientata nel villaggio medievale di Pietraperzia, che nella fiaba viene chiamata "Terra di Pietra". Arricchiscono il volume le illustrazioni di Nicolò Speciale, dove si riconoscono i luoghi più belli e suggestivi di Pietraperzia.

Salvatore Marotta

Lo scrittore Paolo Cortesi ha voluto dedicare a Lucia (pubblicata  in Nexus New Times) una recensione a "Il vecchio ulivo e l'uccello del paradiso". Per leggerlo trascritto su Anobii Clicca qui.



16 aprile 2018

Le Rime - note dell’autore Giuseppe Mistretta




L’antologia le Rime, rappresenta la mia prima pubblicazione, il mio umile ingresso entro il vastissimo e variegato mondo della letteratura contemporanea.
La silloge composta da sessanta liriche è il frutto d’un lavoro creato nel tempo, considerato che le poesie sono state scritte in momenti e luoghi diversi, alcune a distanza di anni.
Il mondo della poesia è qualcosa di etereo forse solo un sentire, nel mio caso direi che s’è trattato d’un divenire, un’esigenza, certamente un dono. Il mio essere mi ha portato ad interessarmi di tutto, l’attività indagatoria artistica è partita molto presto con la musica alla quale si aggiunta la pittura e poco più tardi la scrittura.
Un paesaggio primaverile è di per sé poesia, esso può essere incastonato entro i versi oppure nella tela, in una musica o in tutte e tre le cose.
Ho fatto questo esempio perché alla “consociazione” delle arti io credo molto, così in molti casi le mie rime sono state ispirate dalla musica romantica ottocentesca, Chopin in primis, in esse le avvolgevo per farle brillare d’oro romantico.
Non fronzoli, cicisbei e maschere pirandelliane, ma ho cantato degli Ultimi, della nebbia e delle stagioni, della storia di alcuni luoghi a me molto cari, dei sensi umani, dell’amore e la fiducia verso l’umanità per i giorni a venire.
In ultimo, mi preme evidenziare quanto per me sia stato difficile impormi con il mio modo di scrivere, ciò nonostante, non ho mai mollato né creduto di dover rinunciare alla mia originalità. Sì facendo testardo come sono, ho pubblicato due libri e sono in procinto d’annunciare il terzo che dovrebbe uscire tra qualche settimana. La deriva decadentista moderna non mi entusiasma, anzi mi preoccupa molto, per quanto riconosca la validità del verso libero, preferisco scrivere cercando di non cancellare mai la radice classica e la parola aulica che in me nasce spontanea.
Io costruisco “bolle poetiche”, come un Imago, un Cantastorie romantico, per pochi istanti servendomi dell’etere della musica eccelsa, trasporto le genti in giro nel tempo sino a far apparire loro le immagini che voglio.
La poesia è pura filosofia, la scienza che abbraccia la fede, le razze che si stringono la mano, ogni cosa persino un sasso, attraverso la poesia può prendere vita, questo il poeta lo sa bene, egli avverte la responsabilità del suo dono, la parola poetica così sarà asservita al messaggio della fede, della speranza, alla divulgazione della conoscenza pura e mai edulcorata.

Giuseppe Mistretta





12 aprile 2018

Invito alla lettura: La convocazione



Ray Atlee docente di legge all'università della Virginia riceve, insieme al fratello, una lettera dal padre il giudice Reuben V. Atlee malato terminale, che vive in una villa malandata di Mapler Run nel Mississippi.
Nella lettera il giudice richiedeva la presenza dei due figli, Forrest ritenuto la pecora nera della famiglia e Ray, per discutere l'amministrazione dei beni di famiglia. In realtà il giudice possedeva solo la villa che per il suo decadimento valeva poco e sul conto in banca 6000 dollari.
Ray arriva per primo all'appuntamento e trova il padre morto con accanto una scorta di morfina e ben in vista un foglio con scritte le ultime volontà.

Nell'attesa dell'arrivo del fratello si mette a rovistare tra i documenti e negli armadi. Con grande stupore trova una pila di scatole piene di banconote: tre milioni e mezzo di dollari. La morte del padre e lo shock per il ritrovamento del denaro lo scuotono profondamente. La prima sua preoccupazione è quella di nascondere il denaro e tenere il segreto per preservare il fratello, un tossicomane, avrebbe speso tutto per acquistare droga.
Ray è perplesso, si pone una serie di domande sulla provenienza del denaro. Il dubbio che il giudice possa essere stato un corrotto lo tormenta, ma Ruben Atlee è stato nella sua vita un uomo onesto, duro con gli altri, duro con i figli, duro con se stesso ma integerrimo. Un uomo anche generoso disponibile ad aiutare i più deboli. Decide di indagare, di capire la provenienza di tutti quei soldi, di sapere se sono banconote false. Qualcun altro però è a conoscenza del malloppo trovato nelle scatole dentro l’armadio, qualcuno inizia a perseguitarlo, cerca d’incutergli paura. I giorni successivi vive come una preda braccata, capendo che quei soldi potrebbero ucciderlo, si troverà ad affrontare e subire una vita d’intrighi che lo porteranno a scoprire la provenienza del denaro e chi lo terrorizza, naturalmente il racconto si conclude con l’immancabile “colpo di scena” finale.
Una storia familiare, le vicissitudini di due fratelli, uno professore l’altro un balordo tossicomane e un padre non amato che li “convoca” per le sue ultime volontà. Certo non un romanzo irresistibile ma sicuramente, come tutti i thriller” di Grisham, una lettura piacevole, un racconto pieno di suspense che tiene inchiodati alla lettura per sapere come si conclude. Un libro che consiglio di leggere anche per le atmosfere che Grisham riesce a creare.

Lina Viola


Il libro è disponibile in biblioteca.