Per introdurre l’argomento prendo
a prestito due aneddoti riportati, il primo in una pubblicazione recente di
Gianrico Carofiglio (il titolo del libro è Della gentilezza e del coraggio) e l’altro
nelle Lezioni Americane di Italo Calvino (esattamente nella lezione che tratta
della Rapidità).
La questione è la seguente:
da cosa deriva il proprio valore un’opera artistica? Dalla difficoltà che è
costata la sua realizzazione? Dal tempo impiegato per realizzarla? Dal talento,
dalla fama dell’autore? Dal personale gradimento di ognuno? Da una combinazione
di tutti quanti questi fattori e da altri ancora? E attraverso quali meccanismi
si forma? Ritorniamo agli aneddoti.
Il primo (quello citato nel
libro di Carofiglio) ha per protagonista Pablo Picasso il quale mentre sorseggia
una bevanda al tavolo di un caffè parigino con l’aria distesa di chi si gode un
ordinario (o artistico?) momento di ozio, è intendo a schizzare qualcosa con una
matita su un tovagliolo di carta.
La scena è osservata da una
donna seduta ad un tavolo vicino, la quale, appena si rende conto che il
maestro ha completato il suo lavoro, si avvicina all’artista dichiarandosi interessata
ad acquistare il disegno appena realizzato.
Picasso acconsente alla
richiesta ma, con una certa meraviglia della donna, pretende per il suo lavoro un
prezzo che le appare spropositato.
Ma come, osserva la signora,
una cifra così alta per un disegno per il quale avete impiegato non più di un
quarto d’ora, seduto al tavolo di un caffè.
Vi sbagliate signora, ribatte
l’artista, per realizzarlo mi ci è voluta una vita intera.
L’altro episodio, quello
riportato nello scritto di Calvino, racconta di un emerito artista orientale di
nome Chuang-Tzu il quale eccelleva in molti campi ma in particolare, e sopra
ogni altro, nell’arte grafica.
Il re, desiderando possedere
un’opera da lui realizzata, gli commissiona il disegno di un granchio. Chuang -Tzu
accetta l’incarico ma pone le sue condizioni: pretende che gli vengano concessi
cinque anni di tempo e assegnati un sontuoso palazzo nel quale ritirarsi a
lavorare e dodici servitori. Tutto quanto, naturalmente, a spese del re come
ricompensa per la sua prestazione.
Il re acconsente alle sue
richieste, ma allo scadere dei cinque anni Chuang-Tzu non ha ancora messo mano
al suo lavoro e chiede altri cinque anni di tempo ed anche questi gli vengono accordati.
Solo allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e in un istante,
con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto che si fosse mai visto.
Come ci raccontano i due
episodi il problema che ci eravamo posti all’inizio, circa il modo in cui si
forma il valore di una opera d’arte?
Sostanzialmente ce lo rappresentano
ponendosi nell’ottica dell’artista che ha realizzato l’opera o che viene incaricato di realizzarla.
Qui è importante
sottolineare che in entrambi i casi si tratta di artisti sommi ed affermati e,
per entrambi, le circostanze e le situazioni nelle quali l’opera prende corpo possono
essere anche le più ordinarie o istantanee.
Ma, e qui sta il senso
della risposta di Picasso alla donna, la scintilla che produce nell’animo
dell’artista il momento magico della
creatività (al di là delle circostanze in cui si manifesta) è innescata da una lunga
combustione; una combustione lunga quanto la vita dell’artista medesimo, alimentata
da tutto il patrimonio di esperienze, abilità, sensibilità, formatesi in altri
tempi e in altri luoghi e sedimentate dentro la sua anima.
Tutto questo, questo mondo
di sentimenti, esperienze ed abilità, ne fa l’artista unico che egli è.
Ed è il valore di questo
patrimonio che Picasso vuole che venga riconosciuto anche alla sua realizzazione
apparentemente più estemporanea, istantanea e semplice; e si tratta di un
valore molto più alto del prodotto del momento: il percorso creativo che porta
alla realizzazione dell’opera vale, in questo caso, e per il suo autore, molto più
dell’opera stessa.
Anche Chuang-Tzu mostra di avere
in testa idee simili.
Lui è l’artista sommo; il più
grande del suo tempo. Sa bene che esaudire la richiesta del re è per lui
impegno che gli richiede qualche minuto del suo tempo, ma non intende svilire
il suo talento in un negozio così modesto ed ordinario.
Il valore che vuole
riconosciuto per il suo lavoro trascende i pochi minuti a lui necessari per
disegnare un granchio (sia pure il granchio più perfetto che si sia mai visto) ma
deve ripagare al di là dell’opera commissionata, il talento che in essa egli trasfonde
e che, per l’artista, vale bene dieci anni di vita agiata a spese del re.
Quindi, nei due casi, è l’artista
che indica il corrispettivo che ritiene adeguato ad esprimere il valore della
sua opera.
Ma mentre per Chuang-Tzu sappiamo
come va a finire (con il committente che accetta le condizioni poste
dall’artista) nulla sappiamo sul negozio messo in piedi tra Picasso e la
signora del tavolo accanto.
Potrebbe essere che la donna,
dopo la iniziale meraviglia, abbia accettato la valutazione che del lavoro ha
proposto il pittore; potrebbe essere invece che, ritenendola eccessiva, la
donna abbia rinunciato al proposito di acquistare l’opera.
Nel primo caso il valore che l’artista ha attribuito
alla sua opera diventa un valore condiviso e ciò consente di realizzare
lo scambio tra artista e committente.
Se invece le cose non sono
andate così e la signora ha controproposto a quella dell’artista, una propria valutazione,
allora a quell’opera si associano due diversi valori: quello attribuito ad essa
dall’autore e quello proposto dal potenziale acquirente.
Se ognuno rimane fermo
nella sua proposta non si forma un valore
condiviso e non si realizza lo scambio: l’artista si tiene la sua opera e
la signora si tiene i suoi soldi
Potrebbe essere che abbia
assistito alla scena un altro signore il quale, rispetto alla donna, sia
disposto a riconoscere all’opera un valore più elevato ma non quello preteso da
Picasso: una valutazione ulteriore e sarebbe la terza.
Adesso si può immaginare
che attorno al tavolo di quel bar, ogni passante o avventore abbia prima sostato
incuriosito e poi fatto una sua offerta tirando fuori la propria personale
valutazione dell’opera secondo il suo gusto e secondo la sua competenza.
Di fronte alle tante valutazioni
che si materializzano (compresa quella dell’esperto d’arte che passava di li) che
fine fa il nostro problema di partenza? Se nel tempo, nello spazio, nella
sensibilità di ciascuno si formano innumerevoli, cangianti valori, ha senso
cercare il valore (non tutti i valori
che le circostanze rendono possibili) di quell’opera d’arte?
Sembra un vero paradosso! Ma
il paradosso, in realtà, nasce da un equivoco che è intenzionalmente inserito nel ragionamento, ossia l’idea che il valore dell’opera sia coincidente con il suo prezzo.
Ed è questa corrispondenza ad essere, in effetti, arbitraria.
La dottrina economica ha
discettato per secoli sulla differenza tra valore e prezzo e sui differenti
meccanismi che li determinano; fior di pensatori se ne sono occupati, ma
naturalmente l’oggetto di questa esercitazione
non è né la teoria del valore né la storia del pensiero economico; qui
interessa giungere ad un elemento di giudizio sulle considerazioni dei nostri
due artisti circa il valore della loro creazione.
Ne possiamo trarre qualche
considerazione? Una, in qualche modo fascinosa, la potremmo riassumere così. Il
mercato dell’arte stabilisce i prezzi delle opere e dunque le condizioni che ne
consentono lo scambio e la circolazione; il prezzo muta nel tempo e nello
spazio in ragione dell’apprezzamento del mercato e della volubilità delle sue
regole; ma il valore dell’opera,
quello che esprime la unicità di quella creazione e della sensibilità artistica
di chi l’ha concepita e realizzata, quel valore
si forma in una profondità di esperienze, di sentimenti e di visioni dove il
mercato non può arrivare. A volte l’artista risale da quelle profondità e viene
a patti con il mercato; altre volte gli è concesso il privilegio di poterne fare
a meno.
E questo i nostri due
artisti mostrano di averlo ben chiaro.
Salvatore Di Gregorio