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16 giugno 2019

Le Ultime Parole: Un Racconto di Paolo Cortesi


per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html


Io apro la porta dell'ingresso principale dell'Hotel Majestic Royal Splendid.
In effetti, è una grande porta girevole con uno spesso vetro color brandy e tanto ottone smerigliato ai bordi; io sono lì a fianco, a destra, di questa grandiosa porta girevole luccicante; vesto una giacca bianca che sembra quella d'un capitano di marina, ma si vede subito, dall'insieme del mio abbigliamento e altro ancora, che sono un servitore: ho i guanti bianchi, i calzoni neri con un filo d'oro, un berretto a visiera dura lucida.
Sto con le mani unite, una sull'altra, posate proprio sul pube; così resto per i minuti in cui non entra nessuno e la porta compie un lentissimo giro, residuo del moto precedente.
Quando arrivano i signori, io allungo un braccio, tocco appena la porta: la rallento se il signore ha spinto troppo forte, la forzo un po' se il signore non ha spinto abbastanza.
C'è gente che dà dei colpi, preme come se dovesse abbattere un ostacolo. Altri - donne, per lo più - sembra che abbiano paura del gran vetro rotante e lo sfiorano mentre fanno un sorriso timoroso, per far vedere che se sbagliano non è colpa loro.
Appena il signore ha superato il cilindro brillante, non mi guarda più. Prima, mentre doveva vedersela con quella meravigliosa baracca dorata, aveva un po' bisogno di me, o almeno doveva riconoscere che io, se non altro per il lavoro che facevo, sull'aggeggio ne sapevo più di lui.
Così, il tipo magari mi guardava per un attimo, magari sorrideva un poco, come per dire: "siamo accomunati da quest'affare della porta rotante". Ma poi si vedeva anche sulla faccia questo pensiero: "tu sei pagato per aiutarmi con quest'aggeggio".
(Perché, son convinto, una porta rotante non è una porta qualunque, anzi non è una porta vera. La porta, da che mondo è mondo, è una tavola rettangolare che chiude o apre il varco. Ma una porta girevole non esiste in natura; mentre in natura esiste il pietrone che ostruisce la bocca della caverna, e questa è una porta a tutti gli effetti. Dunque, una porta girevole dà sempre un pochino di imbarazzo; ed è per questo che hanno inventato il mio lavoro: quello che aiuta ad usare la porta girevole. E' anche per questo che i ricchi che entrano per la gran porta girevole dell'Hotel Majestic Royal Splendid si aspettano che ci sia lì accanto uno come me che li aiuta, che sorveglia che il loro ingresso sia sciolto, disinvolto, elegante perché chi è ricco non sarà mai più goffo).
Dunque, io regolo la rotazione della porta; e non pensate che dia troppa importanza al mio ruolo perché è quello che faccio io: le porte girevoli sono davvero qualcosa di strano e complicato e ci si può chiedere perché siano il simbolo degli alberghi costosi e preziosi, dato che non sono porte facili.
Credo però che sia anche per questo che la porta girevole è dei grandiosi alberghi padronali: perché è un apparato non facile, ed io so - per anni di esperienza - che ai ricchi piace quello che sanno appare agli altri poco facile.
Un giorno pioveva. Era un temporale grandissimo, che non solo riempiva e scompigliava tutto il cielo, ma arrivava giù fino a terra, fino alla strada che era diventata un fiume nero scintillante, con i tombini che ribollivano della pioggia schiumosa tanto che pareva la risputassero fuori, gorgogliando e spruzzando.
Il traffico si era rallentato; i passanti cercavano riparo sotto tettoie e negli androni dei palazzi, e molti guardavano al cielo, per calcolare quando quel turbinio sarebbe finito, e anche per vedere da quale tempesta si stavano sottraendo in quel rifugio diviso con altri, che stavano zitti, o parlavano sottovoce dell'acqua furibonda.
Io, dentro all'hotel, guardavo il marciapiedi deserto. 
Nella furia dell'acqua, arriva alla porta dell'hotel una donna magra, ricca. La magrezza delle ricche è diversa da quella delle povere: per le ricche, la magrezza è un lusso che pagano. Per le povere, la magrezza è una malattia. Nelle donne ricche, la magrezza ha un aspetto artificiale; si vede bene che loro non sarebbero mai così se non fossero ricche.
E' una magrezza falsa e faticosa.
La donna arriva trafelata alla porta; gocciola. Non ha ombrello ed è inzuppata di pioggia. La riconosco; è una donna che tenta caparbiamente di essere creduta meno vecchia di quanto sia; che vive per combattere contro l'età, che con creme e operazioni di chirurgia estetica ha trasformato il suo corpo di vecchia in un corpo finto, in cui ogni parte - dal dito alla gamba, ai piedi - mostra senza pudore che non è come dovrebbe essere secondo natura.
Conosco la donna ricca: è la moglie di un uomo ricco, che ha lunghissime basette bianche, una pancia sferica e le labbra nere.
La donna arriva alla gran lastra di cristallo; spinge e non avanza. La porta non gira.
La donna guarda la porta con stupore, e subito dopo con stizza.
Spinge ancora, ma ha pochissima forza e poi tiene tra le braccia due scatole e dalla mano sinistra penzola una sporta di cartone, di quelle che danno nei negozi per ricchi, e contengono oggetti costosi, come maglioni di cachemire.
La donna spinge; la pioggia la batte sulla schiena, sulle spalle, le schiaccia i capelli sulla testa e sulla fronte.
Ora la donna dà dei pugni, ma sono i pugnettini delle donne arrabbiate e non fanno niente; fanno solo male alle donne che così diventano ancora più isteriche.
-Ma mi apri o no?!- urla la donna guardandomi con odio.
Io avevo già mosso un braccio verso la porta.
Dico:
-Certo, signora!-
ma la porta è bloccata; qualcosa si è incastrato sotto una lastra; guardo bene: vedo che un grosso lembo della moquette si è alzato e si è ficcato sotto l'anta girevole, bloccandola.
-Signora- dico - non spinga...-
La donna non mi lascia proseguire:
-Eh che cazzo! Che cazzo dici!? devo stare qui a infradiciarmi per te, stronzo!?-
Dà calci alla porta, che vibra un po' ma resta sempre ben chiusa.
-Apri! Apri! Apri!- strilla la donna.
-Sì, signora. Ma se lei spinge, non posso aprire. Vada un po' indietro:- e indico per terra, per farle capire cos'è che ferma la porta girevole.
-Che indietro!? che indietro, stronzo!? mi bagno tutta! non vedi come piove, cretino!?-
Mi inginocchio; cerco di rimuovere il pezzo di moquette che immobilizza la porta, ma la donna di là spinge come impazzita.
-Signora, guardi.- dico - C'è un pezzo di moquette che sta...-
-Pezzo di merda!- urla quella, e ha la faccia prosciugata e deformata da tese pieghe aride, sembra una mummia polverosa, la bocca aperta -Pezzo di merda, mi fai entrare sì o no?-
Qualche passante, nonostante la burrasca, sta a guardare e non capisce.
Allora provo a liberare la porta anche con la donna che continua a spingere. Afferro il pezzo di moquette come meglio posso, fra pollice e indice delle due mani, tiro fino a farmi male.
-Porco! Stronzo bastardo! Mi prendo una polmonite per colpa tua!- urla la donna, ormai ha la voce roca per la rabbia e per il troppo gridare.
Le sono cadute le scatole in terra, la borsa prestigiosa è a mollo in un rigagnolo. Tutta la roba dentro è diventata nera.
-Apri! Direttore! Ma non c'è il direttore!? Non c'è nessuno che cacci questo porco bastardo a calci in culo!?-
Urla pazzamente; pare non possa fare altro per tutta la vita che le resta da vivere. Sulla faccia si schiacciano i capelli bagnati: lucidi e molli sembrano sanguisughe.
-Signora, la prego- dico in un estremo tentativo - mi ascolti, se lei lascia la porta io posso sbloccarla...-
-Vaffanculo!-
-Signora, mi ascolti: non è colpa mia se non può entrare. Vede, c'è un pezzo della moquette che impedisce alla porta di girare...-
-Stronzo! Chiamami il direttore! Subito! Subito! Chiamami il direttore!- grida, e la pioggia fredda sulla faccia la eccita, la aizza; non ascolta, non ragiona.
-Ma signora...-
-Porco! Bestia! Chiamami il direttore! Subito! Ti faccio licenziare com'è vero iddio!- ora più che gridare, la donna rantola. Ha la voce arrochita, la gola brucia.
-Signora, mi sente?-
La donna è esausta, stringe la porta girevole come se mollare la presa le sarebbe causa di morte. Ansima. Per un po' tiene gli occhi chiusi. Si asciuga il naso che gocciola pioggia con il dorso della mano destra. Poi pare mettersi a piangere; vedo per un istante la smorfia che precede le lacrime. Poi le labbra si stringono; la donna dà ancora una spallata alla porta, e dice con voce rotta, faticosamente:
-Vaffanculo.- come fossero le sue ultime parole terrene; il suo lascito.



19 maggio 2019

Preghiera a Dio: Un Racconto di Paolo Cortesi





per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html

La notte del 5 agosto 1934, alle tre di notte del 5 agosto 1934, Ernestina Duranti scelse il coltello.Lui, il marito, Luigi, era tornato ancora una volta ubriaco. Lei stava sveglia ad aspettarlo, con gli occhi che le bruciavano per il sonno negato e un ronzio acuto e discontinuo nelle orecchie che sembrava il sibilo del silenzio di quella notte calda. Aspettava alzata perché doveva vedere com'era la sbornia del marito: certe volte rincasava piangendo, lamentoso e con brevi gesti incerti, come se tutto in lui si fosse rimpicciolito, o ammalato. Ma altre volte, ed era più spesso, tornava furibondo, strillava e dava gran calci ai muri delle case lungo la strada, e lei lo sentiva arrivare di lontano e iniziava ad avere paura.Allora, si affacciava senza mostrarsi e guardava Luigi: le faceva schifo. Le faceva ribrezzo la sua figura scura e gonfia, da cui spiccavano solo la pancia e i capelli arruffati, come se fossero stati tirati. Lo vedeva barcollare, restare a lungo immobile, tentando di trovare equilibrio sulle gambe deboli; restava fermo, come assorto, mentre invece era stordito dal vino e non camminava perché non poteva vedere niente.Lo vedeva accostarsi ad un angolo, portare le mani al ventre, sbottonarsi a fatica i calzoni e pisciare. Con un braccio si appoggiava al muro. Il rivolo correva, luccicante, nero, verso il centro della strada; e anche pisciando lui ondeggiava e parlava, urlando qualcosa e non pareva nemmeno voce di uomo.Lei stava nascosta dietro le persiane, e lo guardava e lo detestava sempre di più mentre contava i minuti che la separavano dal suo entrare in casa. Sentiva che lui tentava di infilare la chiave nella serratura, ma non ci riusciva. Prima, lui cercava anche mezz'ora di aprire da solo; ora invece, dopo avere preso la chiave dalla tasca, iniziava a gridare e a dare pugni terribili alla porta.Lei, mesi prima, accorreva in fretta, perché non voleva farlo arrabbiare, ma ormai sapeva che l'avrebbe picchiata anche se gli avesse aperto subito, così lo lasciava fuori di casa più a lungo. Luigi gridava, ruttava; i vicini, nel caseggiato, non uscivano più sulle scale e nessuno diceva più niente, perché tutti avevano paura di lui che era un ubriaco cattivo e che, sobrio, era una spia dell'Ovra e poteva rovinare chi avesse voluto.Anche quella notte del 5 agosto avvenne tutto come sempre. Lo sentì arrivare prima ancora di vederlo svoltare l'angolo della strada. Cantava la stessa strofa d'una canzone, la ripeteva all'infinito e si capiva che gli piaceva tanto, mentre a lei sembrava come il verso delle bestie che non cambia mai.Una finestra d'una casa si accese: il rettangolo giallo s'aprì nel buio confuso del palazzo; un uomo in canottiera, calvo, guardò giù; aveva gesti irosi, muoveva le mani ed avrebbe di certo imprecato, o scaraventato un catino d'acqua, ma vide che era Luigi Tanacci, il sarto che faceva il confidente dell'Ovra (lo sapevano tutti e a lui non dispiaceva), così disse qualcosa a voce bassissima e tornò dentro. La luce si spense. La strada tornò muta, come un varco scavato in una montagna nera.Luigi Tanacci fece due passi sbilenchi in avanti, poi altri due passi indietro. Poi restò fermo, ma con la schiena un po' curva, le braccia penzoloni, cercando l'equilibrio, come fanno quelli che si trovano sulle barche. Alzò la testa, con la nuca toccò le spalle. Urlò qualcosa, mentre arruffava la camicia, mentre frugava nelle tasche dei calzoni bagnati di piscio.Entrò dal portone che era aperto e cominciò a salire le scale. Solo una lampadina, appesa a un filo elettrico contorto, faceva luce, ma era una luce stinta, come trattenuta, che faceva un po' di giallo sul pavimento dei pianerottoli e accendeva le chiazze di muffa viola nelle pareti.Ernestina stava dietro la porta chiusa, vi era appoggiata con la schiena, teneva le mani giunte davanti alla bocca e pregava: "Signore, fallo morire. Schiantalo d'un colpo secco prima che tocchi questa porta. Per amore di Gesù, ammazzalo, questo porco maledetto. Aiutami".Lui arrivò. Il primo calcio che dette alla porta fece balzare Ernestina che trattenne il respiro. E poi lui dette altri calci e altri pugni, mentre gridava:- Apri, apri, brutta scimmia! Apri schifosa! Apri cagna! Apri ché ti spacco la testa! -Ernestina pensava: "E se lo lasciassi fuori tutta la notte? magari gli passa la sbornia...", ma concluse che sarebbe stato peggio, che avrebbe di certo sfondato la porta e la sua furia sarebbe stata maggiore. Allora, già sapendo precisamente come e quanto l'avrebbe colpita (perché, dopo un po', lui si faceva male alle mani e si stancava, e si buttava bocconi sul letto e dormiva con la bocca aperta da cui usciva la saliva acre di vino), già sapendo che il primo schiaffo sarebbe stato alla faccia, tra zigomo e naso, aprì la porta. Alle tre di notte, Luigi crollò a letto; l'aveva pestata così tanto che si era spaccata la pelle sulle nocche della mano destra. Ernestina, allora, andò in cucina. Mise uno strofinaccio sotto il rubinetto e lo bagnò, poi se lo premette sulla faccia, sulle labbra; era tutta gonfia e sentiva il sangue battere sotto gli ematomi ancora caldi. Aprì il cassetto della credenza, dove c'erano le poche posate buone del servizio che erano rimaste (le altre se l'era vendute tutte lui, per pagarsi il vino). E guardò un coltello: la lama era lunga e sottile, ma non tanto da sembrare fragile, era anzi una lama larga due dita, lucente, con la punta come una sciabola; sembrava la scimitarra del sultano che aveva visto, una volta, al cinematografo.Scelse quel coltello, lo nascose nel cassetto del suo comodino, di fianco al letto, e giurò a dio che, alla prossima volta che lui fosse tornato ubriaco e l'avesse battuta, lei lo avrebbe ucciso: gli avrebbe infilato tutto il coltello nel cuore mentre stava dormendo. E se anche la mandavano alla fucilazione, non le importava niente, perché tanto quella non era vita da vivere.Nelle giornate seguenti, come sempre, Luigi non ricordò neppure l'ubriacatura e le botte. Era come se non fosse successo niente. Usciva al mattino per aprire la bottega, tornava ad ora di pranzo e scambiava anche qualche parola con la moglie: -Oggi è venuto a farsi la barba il cavalier Rosati. Quello che ha la macchina.- ; -Ma com'è calda questa estate!- ; - Buone queste polpette...-Lei rispondeva appena "sì" e "no". Lui vedeva i lividi, il grumo bruno di sangue cristallizzato che si apriva, come un piccolo minerale, sul labbro; lui vedeva la palpebra tumefatta, ocra, che restava semiaperta tanto era enfiata. Ma non diceva niente.Qualche tempo prima, Luigi aveva promesso a se stesso che non avrebbe più bevuto e che avrebbe smesso di sfinire a botte quella poveretta che non aveva nessuna colpa. Poi, però, il gusto di continuare a fare quello che voleva fu troppo forte. Rinunciare al bere gli sembrò un sacrificio eccessivo e inutile. E, in fondo, due sberle ogni tanto non avevano mai ammazzato nessuno; così - con pensieri che non erano un vero ragionamento ma piuttosto una sensazione cui non si presta troppa attenzione perché naturale, come la fame o la sete - il proposito di non bere più svanì; divenne tanto remoto che lui, quando ci ripensava, quasi si trovava ridicolo.Gli piaceva bere, come a tutti gli uomini, e non era colpa sua se il vino e la grappa gli davano alla testa peggio che ad altri. Non si sentiva colpevole di quelle ubriacature più di quanto si sarebbe sentito responsabile di capogiri o di una cattiva digestione: era natura, era fatto così. E le mogli devono avere pazienza, pensava confusamente, e lei gli doveva tutto: un appartamento che non avevano nemmeno i professori del liceo mentre lui era arrivato solo alla terza elementare; poi lei aveva vestiti per l'estate e per l'inverno, scarpe senza buchi, mangiavano bene. Non si sentiva in difetto per niente.Dunque, Luigi concluse che la sua passione per il bere, e le cose che faceva dopo, erano sì qualcosa di rumoroso e non proprio bello da vedere, ma c'era molto di peggio e già nel loro caseggiato lui poteva citare come esempio più riprovevole un tale di nome Rebonati Adelmo che era scappato con una ballerina del circo, lasciando moglie e tre figli piccoli.La sera del 13 agosto 1934, Luigi andò all'osteria. Ernestina capì che sarebbe tornato ubriaco perché, ormai, sapeva interpretare un certo sguardo incupito e distante, come se stesse pensando ad affari strani e difficili. Appena lui uscì, Ernestina andò al comodino, lo aprì e guardò il coltello che aveva avvolto in un tovagliolo candido. Lo prese in mano e avvertì il peso, la forma piena e liscia che riempiva la mano stretta attorno al manico tornito.-Questa notte glielo pianto nel cuore.- disse. Non lo pensò soltanto, ma lo disse proprio, a voce bassa ma chiaramente, come lo annunciasse in segreto a qualcuno lì vicino a lei.Lui tornò verso le quattro. Ma, quella volta, non strillava: piagnucolava, si faceva il segno della croce, cadeva in ginocchio e farfugliava. Lei lo osservò stupita, ma sempre disgustata e sempre col timore che, da un momento all'altro, lui iniziasse a batterla. Poteva accadere, perché un ubriaco è imprevedibile e fa spesso quello che si teme di più. Quella notte, però, Luigi aveva una sbronza triste e fiacca. Bussò alla porta di casa con pochi colpi nemmeno troppo forti, tentò di abbracciare la moglie ma lei lo scostò con le dita tese e girò la faccia verso il muro per evitare il suo fiato acido.Sentì, tra i gemiti, delle parole: - Perdonami, perdonami... perdonatemi tutti....- E ancora, mentre si strisciava il fazzoletto sugli occhi: -Sono una canaglia... sono una spia... quanti ne ho fatti finire in galera!... quanta gente ho fatto piangere... sono un farabutto... -Allora, Ernestina, senza dire nulla, gli cinse la vita con un braccio e con l'altra mano si mise il suo braccio sulle spalle; lo portò a letto e lo distese; lui lasciava fare e ripeteva con la voce stridula:- Quanto sei cara... quanto sei buona con me... non merito... non merito niente....-Ernestina iniziò a spogliarlo. Quando sbottonò la giacca, esalò un soffio caldo e umido, un sentore marcio di sudore e di sporcizia che le dette disgusto. Lui tentò di accarezzarle la testa; lei gli fermò la mano e il braccio cadde molle e pesante sul materasso; lui aveva iniziato a russare.Ernestina gli sfilò la camicia, gli tolse la canottiera giallastra. Appoggiò l'orecchio destro al petto per sentire dov'era il cuore. Prese il coltello, lo puntò, dritto perpendicolare, nel punto del torace che aveva individuato; mise le due mani sul manico del coltello e vi si appoggiò con tutto il peso del corpo, a braccia rigide. La carne si aprì con un colpo duro di lacerazione, il sangue uscì prima come un piccolo sputo poi non se ne vide più perché colava lento.Luigi inarcò la schiena e dette un grido atroce; lei gli mise una mano sulla bocca e con l'altra spingeva e ruotava il coltello dentro il petto. Poi lasciò la lama quasi completamente dentro il corpo e portò le due mani alla gola dell'uomo; lo strozzava.Lui fece qualche gorgoglio brutto, ebbe alcuni scossoni e lei pensò, per un istante, ai conigli che ammazzava con una bastonata dietro al collo - mentre li teneva per le orecchie - e che si dimenavano in guizzi velocissimi ma brevi.Tutto il lenzuolo era inzuppato di sangue, che cadeva a filamenti larghi sul pavimento. Le sembrò che anche il sangue puzzasse di vino. Andò alla finestra aperta; respirò forte e restò in piedi, ferma, appoggiata, a guardare la strada deserta piena di angoli colmi d'ombra. C'era solo un lampione, all'altro capo della via, e vide tante falene e tante farfalle che giravano frenetiche in cerchi obliqui.


30 aprile 2019

"CAMPANA" di Paolo Cortesi




per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html

Dino Campana l'altro giovane favoloso
Dicevano che era matto. Io, che lo vidi e ci parlai due volte, non so dire se lo fosse davvero: so soltanto che mi sembrava sempre o più saggio di ogni saggio, o più folle di ogni pazzo; ecco: un uomo eccezionale, che rivelava poco di sé e forse nascondeva il meglio. Certo, questo - forse- vuol dire essere matti, ma la sua pazzia (se pazzia fu davvero) era luminosa e forte, non tetra e muta e crudele come la pazzia che disperde le parole, spegne lo sguardo in una lucentezza dura di bilia.
Lo incontrai la prima volta che la terra fumava d'una nebbia opaca e lenta. Sembrava, la terra, un gigantesco animale nero dal cui dorso saliva un vapore biancastro, come si vede sulle schiene dei cavalli dopo un lungo galoppo. Era una bruma opaca, lattiginosa, che stratificava in bande più spesse attorno a cespugli e tronchi neri, e diradava fino a sparire, creando un varco che lacerava quella misteriosa tela aerea.
Pareva, anche, che la terra respirasse, che da lei salisse a un ritmo sconosciuto quel respiro che prendeva forma visibile d'una brina fluttuante nell'aria.
Eravamo a Casetta di Tiara, l'autunno incupiva, veniva vento freddo dalle cime delle montagne e le nuvole erano grosse e scure, piene di pioggia.
Io, a quel tempo, volevo fare il pittore; ero giovane, ero ingenuo, e credevo che la nostra vita sia veramente nostra. Non è così. Ho imparato, con dolore, che la nostra vita è quello che ci lasciano vivere gli altri, quelli che decidono, che comandano, che hanno i soldi e vivono come vogliono; quelli che dicono sempre "eh, la vita è fatta così, bisogna accontentarsi"; ma loro, invece, non si accontentano di nulla che non sia ciò che a loro piace.
Insegnano la rassegnazione e la pazienza, ma loro -i signori, i ricchi, i padroni- non farebbero mai nulla di quanto dicono agli altri: non vogliono nient'altro di ciò che decidono per sé.
A quel tempo, io ero giovane e sognavo di fare il pittore. Mi dicevo: "sono bravo, ho studiato, l'arte è una cosa nobile e bella, perché non potrei fare il pittore?". Ero giovane e sprovveduto, credevo che uno avesse tutto il diritto di scegliersi la vita che vuole; mentre invece non è così; per noi, non è così.
Ero andato ad abitare per l'estate in una casa di pietra che mi aveva affittato una vecchia zitella.
Avevo una camera con appena un letto, due sedie e un tavolo, ma ero molto felice e sentivo che lì un pittore poteva lavorare molto bene. D'estate uscivo al mattino presto, subito dopo essermi lavato la faccia nel catino di smalto. Il monte brillava dentro la luce del sole che saliva; era come attraversato dal chiarore che si dilatava in un polverio infinito di schegge di luce bianchissima.
Portavo il cavalletto e la tela e la scatola dei colori e pennelli. Era faticoso e spesso dovevo aggrapparmi agli alberi per issarmi, per non scivolare. Ricordo ancora la superficie ruvida, come arsa, dei carpini.
Un'altra cosa bellissima di quei giorni lontani è il profumo dell'olio di lino che si mescolava con l'odore della terra calda brulicante, delle foglie che splendevano al sole come cocci verdi delle bottiglie. Era tutto caldo e quieto, e io sentivo ronzare gli insetti che non si vedevano.
Dipingevo tutti i giorni, per diverse ore, ed ero molto felice. Non sapevo che era tutto inutile e che non sarei mai stato pittore, ma in quel tempo ero così felice, tanto ingenuo e ancora sicuro che ciascuno potesse essere ciò che si sentiva dentro.
Adesso che ci penso, forse il matto mi aveva visto molto tempo prima, perché lui nel bosco ci girava come se fosse tutto suo: si muoveva non solo con sicurezza (anche i montanari del luogo sapevano tutti i sentieri), ma anche con una certa franca scioltezza, direi con eleganza.
Io non lo vedevo, ma lui certo vedeva me, ma non volle mostrarsi. Non credo che si nascondesse, credo anzi che non temesse nulla da un pittore, ma evidentemente non voleva ancora farsi vedere.
Passò l'estate; era l'estate del 1916 e la gente che mi vedeva di certo si domandava perché mai quel giovane non fosse andato alla guerra, e io ormai non mi curavo più di far sapere che ero tisico, come se dovessi giustificarmi del fatto che non ero ancora morto, perché così dovevo finire: morto d'uno sputo di sangue o morto con una palla in testa, così dovevo finire, per la gente.
Arrivò l'autunno; io vivevo ancora nella piccola casa di pietra; passava meno gente per il sentiero davanti alla mia porta. Gli alberi si fecero più sottili e persero ogni colore, diventando segni neri scomposti che solcavano il cielo fumoso. Tutto divenne più silenzioso.
Un mattino - ricordo che era un sabato - ero andato a fare schizzi al torrente Rovigo: volevo cercare di ricreare l'effetto di trasparenza senza riverberi dell'acqua sotto il cielo bianco. Ero troppo ambizioso, a quel tempo; come tutti i giovani inesperti sapevo trovare belle idee ma non avevo la forza per realizzarle. Me ne stavo intirizzito, sentivo che non riuscivo a disegnare ciò che avevo pensato, ma volevo ostinarmi, insistevo, convinto che con uno sforzo più intenso avrei ottenuto ciò che desideravo.
Non l'avevo visto arrivare, così, quando parlò alle mie spalle, ebbi uno scossone, terrorizzato, e mi si spezzò il respiro.
Lui disse con voce molto bassa:
-Fate male ad intestardirvi.-
Io fui sorpreso non solo del fatto che quello era arrivato come una foglia caduta da un ramo, ma ancor più perché pareva avermi osservato a lungo, abbastanza a lungo da vedere la mia ostinazione senza successo.
Dissi qualcosa sulla difficoltà dell'effetto di luce che cercavo di rappresentare e lui rispose:
-Voi cercate l'inessenziale, per questo fallite.-
Capii che così non parlava un contadino.
-Anche voi siete pittore?- gli domandai.
Mi volsi verso di lui. Era un uomo giovane, non alto, massiccio, aveva la faccia larga, occhi chiari e capelli rossicci, baffi e barba un poco più scuri. Stava a braccia conserte sul petto e teneva le gambe una davanti all'altra, quasi cercasse un migliore equilibrio, come un marinaio sulla tolda quando il mare è mosso.
-Sono poeta.- rispose -Sono l'ultimo poeta barbarico.-
Non mi stupivano i tipi bizzarri: ne avevo conosciuti tanti fra i miei amici pittori.
-Voi siete barbarico?- gli chiesi molto incuriosito.
-Sissignore. L'ultimo dei germani. Nella mia anima alberga la purezza originaria della parola.-
-Attento a parlare di germanici, amico mio. Con questa guerra non è bene dire certe cose.-
Il giovane sbarrò gli occhi e mi fissò sbalordito.
-Voi siete un poliziotto?- mi domandò.
-Ah no! No, proprio no!-
Fece due tre passi indietro; ora la sua straordinaria agilità e il suo perfetto equilibrio sulla terra scoscesa erano diventate una postura incerta, e lui s'era come ingobbito, curvato sotto un peso invisibile.
-Ah cane!- esclamò agitando le mani -cane d'un italiano! cane d'una guardia! cane d'uno sbirro!-
Scappò via; lo sentii parlare da solo.
Firenze, quando c'è il sole, diventa grandissima e leggera.
I palazzi, che pure sai essere enormi masse di mattoni e marmo e pietra, sembrano così lievi che il vento potrebbe farli ondeggiare, come grosse foglie. E le facciate delle case, delle chiese rimandano la luce, che si moltiplica, schiarendo, in un quieto vortice di luminosità e scintillii abbaglianti.
Quando c'è il sole, Firenze diventa calda come una mano che tocca il forno. E', infatti, un tepore pieno e sano di cosa viva, che fa star bene, che rassicura e conforta.
E la gente a Firenze, quando c'è il sole, è più serena e sembra assorbire nel corpo il calore vitale che scende dal cielo brillante, che sale dalle strade.
In quei giorni, ero tornato dai monti del Mugello. Non sapevo più niente di me: se ero o no pittore, se avrei potuto vivere della mia arte, se ero o no felice. Ero giovane, mi illudevo di poter giudicare e vivere la mia vita, e solo la fatica e l'amarezza mi hanno fatto piegare la testa e fissare la realtà, e capire che noi tutti siamo anelli di una catena di cui non vedremo mai le estremità.
Ero andato a Firenze, quell'estate del 1917, con gli ultimi risparmi rimasti. Pochi giorni ancora e non avrei avuto di che pagare vitto e alloggio e vestiti: la tassa sull'esistenza. In quegli istanti di accettata incoscienza, andai al caffè delle Giubbe Rosse; mi dicevo: se fra poco sarò un barbone sotto il Ponte alle Grazie, tanto vale che mi conceda adesso, finché ho tre lire in tasca, un po' di piacere, un po' di lusso. E questa mia decisione -che riconoscevo stupida e inutile- mi dette un po' di coraggio.
Entrai al caffè e subito mi avvolse una frescura di caverna. C'era tanta gente e io guardai tutti con curiosità, quasi con cura: guardavo e mi dicevo "ecco, vedi, questi sono tutti più fortunati di te e quando torneranno a casa troveranno una bella famiglia, i domestici premurosi, i guanciali soffici".
Sedetti al tavolo più vicino all'ingresso, così da poter guardare il passeggio nella piazza che si apriva davanti alle vetrine e all'ottone delle Giubbe Rosse. Chiamai il cameriere e quello arrivò subito, ma restò un attimo perplesso vedendo le mie scarpe sporche e il mio vestito liso. Presi di tasca i soldi, li passai nell'altra tasca solo per farglieli vedere (e questo mi pare lo tranquillizzò) e dissi con finta noncuranza:
-Per piacere, favoritemi una birra ghiacciata.-
Il cameriere fece un cenno con la testa, che non mi parve lo stesso inchino che faceva agli altri clienti -quelli vestiti bene-, ma piuttosto un assenso. Aspettavo la birra e guardavo fuori; non pensavo a niente, non volevo pensare perché il pensiero è il peggior nemico di chi è povero.
La gente che camminava nella piazza mi sembrava, tutta, tranquilla e sazia, pareva che tutti avessero un posto da raggiungere in fretta, un posto in cui ciascuno sarebbe stato bene. All'improvviso apparve davanti a me, oscurando la visione della piazza, un uomo.
-Mi riconoscete?- domandò a voce un po' troppo alta. Alzai la testa e lo guardai sorpreso.
Mi parve di averlo già visto, ma non riuscivo a capire, a fissare l'idea.
L'uomo mi fissava e sorrideva, aveva lo sguardo divertito dal mio stupore. Riconobbi gli occhi chiari e accesi, i capelli rossi e scomposti.
-Ah ma voi siete il poeta della montagna!- esclamai alzandomi in piedi.
Lui rise forte e la gente si girò a guardare. Diceva:
-Il poeta della montagna! Sì! Sono il poeta della montagna!-
Si sedette al mio tavolino senza aspettare che lo invitassi. Mi chiese cosa facevo a Firenze e io gli dissi un po' di me.
-Non è importante essere un grande artista.- fece lui -Ciò che conta davvero è essere un puro artista.-
-Dite bene, voi. Ma anche il puro artista mangia e veste panni.-
-Lo so.- rispose duramente, forse deluso dalla mia osservazione.
-E come pago l'affitto di casa? Con i quadri?- continuai, quasi incattivito.
-Arte e soldi non hanno niente in comune. Si escludono a vicenda come la luce e il buio. Dovete scegliere: o arte, o soldi.-
-Sì, capisco. Ma se muoio di fame, la mia arte finisce lì.-
-Sbagliate: l'arte è la sola risposta dell'uomo alle pretese della morte.-
-Questo lo credevo anch'io.- dissi -Ma adesso non la penso più così. L'arte deve comunicare, deve aprirsi al mondo, deve essere di tutti; se no non esiste. L'arte chiusa nel cassetto non è arte.-
-Ma non può essere neppure un mestiere.- ribatté il mio interlocutore- Il muratore deve obbedire al capomastro; il falegname deve accontentare chi gli chiede un armadio. L'artista non può avere un padrone e dunque non può avere un mestiere.-
-Eppure ci sono grandi artisti pieni di soldi.- dissi.
L'uomo non rispose; affondò la destra sotto la maglia e ne estrasse un libriccino sottile, con la copertina d'un giallo sbiadito.
Me lo porse e io lessi il nome di Dino Campana e il titolo "Canti Orfici".
-Avete una lira e mezza?- mi chiese il giovane uomo, porgendomi il librino.
-Ne ho tre in tutto e devo pagare la birra.-
-Datemi allora una lira.-
Nella voce di quell'uomo sentivo una trepidazione dolorosa.
-Forse è meglio se offrite il vostro libro ad un altro.- dissi.
Temevo che quel tipo strambo avrebbe insistito, magari avrebbe gridato; invece Campana non ebbe alcuna reazione.
Ora, penso che egli era abituato a certi rifiuti e non gli facevano più male.
Ripose il libro sotto la maglia, disse "buona fortuna" e se ne andò.
Uscì dall'ombra del caffè e, sulla piazza, fu avvolto dalla luce polverosa che fece più sottile la sua figura. Lo guardai andare verso via degli Strozzi. Camminava pestando i piedi, con le braccia pesanti lungo i fianchi, come fanno i montanari, come andando contro un vento sempre contrario.





12 aprile 2019

"Il Passatempo del Commendatore" di Paolo Cortesi





per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html


La notte prima dell’incontro con Kradar, Antonio non dormì.
Non dormì mai, neppure in quello stordimento pesante che spegne la coscienza e che sembra affondare la mente in un nero senza fine.
Restò sveglio, fervoroso, con dozzine di pensieri incalzanti, strani, irrefrenabili e imprevedibili, ma tutti – al loro inizio o al termine – convergevano sulla stessa domanda:
“Cosa vorrà da me?”
Questa angosciosa interrogazione subito ne portava un’altra:
“Come ha fatto a sapere di me?”
Come poteva l’uomo più ricco d’Italia sapere dell’esistenza in vita di Antonio Mosca, che faceva il fornaio a San Leo?
Filiberto Kradar era un padrone; aveva fabbriche e negozi, aveva ville, cavalli, barche, un teatro e vigneti.
Stava a Milano, in un palazzo che sembrava una reggia e che era stato fotografato per La settimana Incom.
A San Leo era arrivata una gran macchina americana lucida e nera, con le gomme bianche; nella piazzetta d’acciottolato ci stava appena. Si fermarono tutti a guardarla; la gente scendeva dalla bicicletta e restava a cavalcioni; le donne uscivano dalle botteghe e anche i negozianti interrompevano la spesa e scostavano la tende di perline, restavano sulla soglia e guardavano senza parlare.
L’autista, col berretto a visiera, rimase in auto. Due signori vestiti di scuro uscirono; richiusero le portiere con un botto che pochi conoscevano. Un bambino si mise a piangere. I due entrarono nel forno di Antonio Mosca. Le donne che compravano il pane erano attonite.
-Scusi, signore- disse un uomo con le spalle larghe e i denti radi. Si accostò ad Antonio che stava dietro al vetro del bancone di mattonelle bianche.
-Lei è il signor Antonio Mosca?- gli domandò.
Mosca non rispose, sbarrò gli occhi e restò con un filoncino in mano. Guardò implorante le donne che fissavano lui.
-Scusi, parlo col signor Mosca Antonio fu Guglielmo?-
-Sono io. Cosa volete?- rantolò il fornaio.
-Devo recapitarle un invito da parte del commendator Kradar.-
-Kradar?…Quello che… Kradar quello ricco?-
-Il commendator Kradar – ripeté l’uomo in nero – la prega di recarsi presso il suo ufficio centrale di Milano.-
Antonio non capiva. Non udiva le parole, ma un ronzio basso da cui si staccarono solo due suoni: Kradar e Milano.
L’uomo si rese conto del caos di Antonio, allora ripeté l’invito più lentamente, sillabandolo come se parlasse a un bambino; poi chiese:
-Lei può venire domani a Milano?-
-Ma come ci vado a Milano?- fece Antonio.
-Se preferisce la accompagneremo noi in automobile. Partiremo domattina alle otto. Va bene?-
Antonio taceva, sempre col filoncino in mano e gli occhi disperati.
-Naturalmente le sarà rimborsata la giornata di lavoro persa e anche il disturbo. Lei sarà ospite del commendatore per tutto.-
-Tutto…- ripeté inconsapevolmente il fornaio, con la voce strozzata.
-Allora, signor Mosca, va bene? Partenza domattina alle otto. La passeremo a prendere da casa.-
-Ma sapete dove abito?-
L’uomo in nero per la prima volta sorrise. Disse:
-Via San Gregorio dodici, vero?-
Antonio annuì. Se non avesse sentito in mano la forma e il peso del filoncino di pasta dura, avrebbe pensato di stare sognando.

Accompagnato dai due uomini vestiti di scuro, Antonio aveva attraversato sale di marmi e percorso corridoi lunghi e scintillanti. Da molte porte aperte, aveva visto segretarie austere e uomini tristi. Aveva visto tanti quadri, e scritte, e mappe di città, disegni colorati, ma nella sua mente frastornata tutto si era mescolato e trasfigurato in una indistinta chiarità riverberante.
Lo fecero attendere in un salottino con gonfie poltrone azzurre. Su una parete c’era la fotografia gigantesca del commendatore Kradar ritratto mentre baciava la mano di papa Giovanni XXIII.
Sul tavolino splendente come un largo cristallo c’erano riviste, bottiglie e bicchieri, scatole di cioccolatini e portasigarette. Antonio osservava senza comprendere.
L’uomo in nero che lo aveva condotto là sfogliava un giornale; pareva fingere di essere intento a qualcosa per non curarsi di lui.
Finalmente, si accese una lucetta verde accanto alla porta e l’uomo in scuro balzò in piedi, lasciò cadere il giornale sulla poltrona. Disse sottovoce:
-Prego, mi segua.-
Poi, fatti pochi passi verso una porta che stava all’estremità di un breve corridoio:
-Parli solo quando il commendatore le fa la domanda. Parli a voce bassa perché il commendatore non sopporta le voci acute. Permette?- e si arrestò, facendo fermare Antonio.
Dalla tasca della giacca, l’uomo prese una boccetta di profumo e ne spruzzò qualche goccia sul collo di Antonio.
-Scusi, ma il commendatore ha un olfatto delicatissimo.-
Antonio entrò in uno studio grande, dal soffitto alto decorato, con una grandiosa vetrata dietro la scrivania di mogano alla quale sedeva Kradar.
Questi era un uomo piccolo, calvo, grasso, con la faccia larga e lustra, gli occhiali d’oro. Si alzò dalla poltrona e porse la mano ad Antonio, che sentì nella sua delle dita piccole e grosse, un po’ fredde.
-Grazie, signor Mosca, d’avere accettato il mio invito.-
-Grazie.- mormorò Antonio.
Kradar lo esaminò; ad Antonio parve che lui stesse confrontando l’uomo che vedeva con quello che si era immaginato.
-Fatto buon viaggio?- domandò il commendatore sorridendo.
-Sì sì. Grazie.-
-Le piace Milano? Eh? Visto che città?-
-Ma… non saprei… ho visto poco…-
-Se vuole, dopo la faccio accompagnare in un bel giretto turistico per tutta la città. Vedrà che bella. Anche se San Leo deve essere un grazioso paese, vero?-
-Sì.-
-Dev’esserci l’aria buona lassù, eh? Qui l’aria, certe volte, è un po’ sporchina, ma è sporca di industria, di fabbrica, di opificio, cioè di lavoro. È il lavoro è pane per tutti. Dico bene, sciur Antonio?-
-Sì sì. È lavoro…-
-Dunque, caro Antonio, lei ora vuole sapere perché l’ho fatta venire qua. Vero?-
-Sì. Non so proprio cosa pensare, perché io…-
Kradar mosse appena un dito delle mani che teneva giunte sulla scrivania. Antonio zittì e il commendatore parlò più lentamente:
-Lei ce l’ha un passatempo, Antonio?-
-Eh? Come? Che cos’ho?-
-Lei, dopo che ha lavorato al forno, che fa?-
-Io? Io vado al caffè Turchini e vedo degli amici e magari giochiamo a carte.-
-Ecco. Visto, Antonio? Il suo passatempo è giocare a carte con gli amici. Io ne ho un altro, di passatempo. Io scavo dentro la gente.-
Antonio pensò: “Questo è matto. Come faccio a tornare a casa da Milano?”
-Io scavo nella vita delle persone.- riprese il commendatore, serio, quasi severo – Vado fino in fondo, ne conosco tutto fin nei minimi dettagli. Scopro tutto di loro, fin quello che loro stessi non sanno ancora o non ricordano più.-
-Vuol dire che… ma che gente? Parenti? Amici? I suoi dipendenti?-
Il commendatore sorrise.
-No. Sa cosa faccio? Prendo a caso un elenco telefonico d’una provincia d’Italia. Apro a caso. Butto un dito: trovo l’uomo ed è quello il mio oggetto di studio.-
-E lei ha fatto così anche con me?-
-Sì, Antonio. Ho trovato a caso Mosca Antonio panettiere di San Leo.-
-E poi?-
-Ho mandato i miei collaboratori a fare ricerche su di lei.-
-Ma io non ho visto nessuno. Non ho parlato con nessuno e nessuno mi ha detto niente.-
-Infatti. Io faccio svolgere ricerche segrete e minuziosissime. Io so tutto di lei. Tutto tutto.-
Aprì un cassetto della scrivania; ne estrasse un fascicolo grosso come una scatola da scarpe che posò sul tavolo.
-Guardi. Qui dentro c’è tutto lei, Antonio. Dalla nascita, anzi da prima, perché ci sono i suoi genitori. E c’è tutta la sua vita. Ma proprio tutta. Le cose belle e le cose brutte.-
Kradar sembrò avere un’espressione soddisfatta. Antonio guardò il fascicolo e domandò:
-Ma perché lo fa?-
-Gliel’ho detto: è il mio passatempo. Grazie a dio ho i mezzi per permettermelo. E non bado a spese, sa? Pensi che per avere le confidenze di certi suoi amici ho dovuto spendere fino a trecentomila lire.-
-E cosa le hanno raccontato di me?-
-Tutto, le dico. Tutto. Fin da quando marinava la scuola. Fin da quando era garzone del fornaio Bortoli. Poi il fidanzamento con la Rosa, che poverina morì di peritonite. Poi il servizio militare, a Caserta. Poi il matrimonio con la Antonietta. Pensi: conosco persino quella storia poco piacevole di debiti, ma non gliela voglio ricordare.-
-Debiti?- fece Antonio.
-Col farmacista Carli, che le prestò seimila lire. Poi litigaste.-
-Ah sì sì. Carli. Roba vecchia.-
-Già. Vede, Antonio, io sono il suo miglior biografo.-
-Cosa vuol dire?-
-Che potrei scrivere la sua vita tutta intera.-
-Ma cosa può interessare a un gran signore la vita di un disgraziato come me?-
-Gliel’ho detto: è il mio passatempo. C’è gente che legge i romanzi, ma sono solo storie inventate. Io sono uno che bada al sodo; a me piacciono le storie vere. Mi piace conoscere tutto di persone che stanno a centinaia di chilometri da me. Io pesco un nome, e di quel nome voglio scoprire tutta l’esistenza. Nessuno ha segreti per me, se voglio sapere tutto. Io pago quello che c’è da pagare ma vado fino dove non arrivano nemmeno i carabinieri: scopro le magagne segrete, i peccati grandi e piccoli, le cose belle e quelle vergognose. I miei romanzi sono persone in carne e ossa. Siete voi.-
Antonio vide gli occhi stretti e fermi di quell’uomo; non gli piacquero.
-E lei fa venire a Milano tutti quelli che studia?- domandò.
-No. Ho chiamato solo lei, da quando ho questo passatempo, e sono anni…-
-Perché io?-
Il commendatore premette un pulsante e si aprì in silenzio una porta a scomparsa. Apparve un cameriere che accennò ad un inchino.
-Vuole niente, Antonio? Un caffè? Un brandy?-
-No no. Grazie.-
Kradar mosse la mano e il cameriere sparì.
-Vede, Antonio, io in tutti questi anni ho sempre trovato quello che cercavo. Non ci sono mai stati segreti per me. Pensi che una volta mi sono fatto raccontare da un prete quello che un tale gli aveva detto in confessione. Mi è costato due milioncini tondi, ma ho saputo quello che volevo sapere. Capito?-
-Sì.-
-Le dico che non ho mai dovuto tenermi una curiosità, Padri, madri, figli, mogli e mariti, fratelli, tutti insomma mi hanno detto tutto di tutti. Io chiedevo il prezzo e loro dicevano. Così ho saputo segreti che nemmeno può immaginare. Per me non è questione di soldi, che grazie a dio non mi mancano. Per me è una missione, un puntiglio; lo chiami come vuole. Io non sopporto di avere zone vuote nei miei fascicoli. Se mi occupo di uno, io devo sapere tutto di lui, come se fossi la sua coscienza. E in particolare voglio sapere quello che nessun altro potrà sapere mai. Glielo ripeto: è il mio passatempo e ci spendo quello che voglio. In fondo, c’è gente che spende i soldi alle partite, o per il giardinaggio; non trova?-
-Sì.-
-Ecco. Io spendo per il mio passatempo, che se vogliamo è anche una cosa seria, perché mi interesso delle persone, mi avvicino alle loro piccole storie di umili, è una cosa bella, no?-
-Sì.-
-Questo glielo dico perché sia chiaro che non è questione di soldi. Quello che lei mi chiede, io lo pago.-
-Ma cosa vuole?- esclamò Antonio, che non badò a tenere bassa la voce.
-Antonio, io ho saputo che nel 1951, nel… - il commendatore prese un foglio dall’incartamento sulla scrivania; lesse – nel marzo del 1951 sua moglie ha abortito. Però non ho potuto sapere niente sulla causa di quest’aborto. Ecco, Antonio, io vorrei sapere perché sua moglie ha abortito. Cos’è successo? Una disgrazia o un aborto procurato? Un figlio della colpa? Mi manca solo questo tassello in tutta la sua storia. E io non ci posso restare con questa curiosità. Mi racconti di questo aborto, mi dica tutto. Mi dica quanto le devo per il disturbo, perché forse le farà dispiacere ricordare quella faccenda. Ma lei sa che i soldi non sono un problema.-
Antonio guardò la testa dell’uomo che stava seduto davanti a lui. Il cranio calvo e lucido aveva l’aspetto dell’uovo di un uccello tropicale, con pomfi rossastri e chiazze quasi ocra.
La luce attraversava la cartilagine delle orecchie ed il colore che così avevano ricordava ad Antonio carni di conigli spellati.
Antonio fece:
-Ma…- e sembrava un verso di animale, nemmeno una parola uscita dalla bocca d’un uomo.
Kradar sorrideva e aspettava.
Antonio fece ancora:
-Ma io… io…-
Il commendatore sorrideva sempre, ma qualcosa nella sua faccia rivelava una certa stizza: “così perdono la pazienza i ricchi”, pensò Antonio che fissava gli occhi fermi dell’altro, le tre grinze parallele che segnavano la fronte come tre crepe in un muro.
-Allora, Antonio?- esclamò Kradar quasi festoso, ma si sentiva che non era abituato ad aspettare così a lungo – Cosa c’è? Non ricorda? O pensa alla cifra?…- e rise a bocca aperta, spingendosi all’indietro, avvolto dall’enorme schienale di cuoio morbido della poltrona.
-Ma io…vede, non saprei… Cosa devo dire?-
Il commendatore balzò in avanti, forse spinto dal molleggio segreto della grossa poltrona; rise ma non c’era nulla di lieto o amichevole in lui:
-Ohilà, signor Antonio! Ma è così che lei vende il pane a San Leo? Eh? Così poco… così poco sveglio, diciamo? Via, sciur Antonio! Non ha capito? Devo ripetere la domanda?-
-No no. Quella l’ho capita. È che…-
Kradar aveva adesso un mezzo ghigno; non tentava neppure più di sembrare sorridente.
-Allora?- incalzava – Allora? Via, diciamola questa cifra. Si vergogna? Guardi che siamo solo io e lei. E non lo saprà mica nessuno!-
Antonio alzò un po’ lo sguardo e vide la faccia del commendatore; i suoi occhi erano come quelli dei serpenti tropicali che aveva visto in un film di Tarzan. Erano mostruosi, perché erano occhi che avevano guardato solo bestie spaventate, bestie che cercavano di fuggire e vivere.
Antonio trovò il coraggio di alzarsi.
Kradar lo osservò basito, come se il panettiere avesse preso fuoco all’istante, lì davanti a lui.
-Mi lasci stare.- disse Antonio, aveva la voce stanca, sembrava un vecchio – Non voglio niente. Mi lasci stare. Buongiorno.-
Kradar non disse nulla. Rimase a guardare l’uomo che usciva dalla stanza. Lo guardava con occhi terrorizzati.




22 marzo 2019

Malato: Un Racconto di Paolo Cortesi





per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html


Mario non scorderà mai per tutta la vita la faccia che aveva il medico quando gli disse che suo figlio aveva la tubercolosi.
Il medico aveva la finestra alla spalle; il sole era basso sull’orizzonte; i rami di un grande albero erano neri contro la luminosità larga e forte della palla di fuoco fermo. La luce attraversava le orecchie del medico, che apparivano perciò rosse, traslucide, come spellate e venate di lampi di sangue.
Tutta la testa del medico era scura, come i rami dell’albero là fuori.
C’era quella testa nera, con un ciuffo di capelli storti; le orecchie rosse e opalescenti: il malato sembrava il medico, non Attilio.
E invece il ragazzino era a letto, sotto le coperte che la madre gli tirava fin sopra il mento. Coprirlo bene, e tenerlo ben coperto, era la sola cosa che lei poteva fare per credere di essere utile al figlio; così gli stava seduta accanto al letto; teneva le mani posate sul grembo e le muoveva – subito – appena Attilio scostava un po’ il lembo della stoffa che lo avvolgeva.
Il medico scrisse la ricetta, che posò sul tavolo. Disse che ci voleva aria sana e tanto sole, aria asciutta. La montagna, ci voleva. Montagne alte e al sole.
Attilio (che fissava medico e genitori come figure sconosciute che non avrebbe mai più incontrato) Attilio pensò che sarebbe andato in montagna e fu contento, ma segretamente.
Mario accompagnò il medico alla porta. Tornò indietro presto, perché la stanza era una sola e la porta era quasi davanti al letto.
Mario guardò la moglie Elvira, non era nemmeno triste perché le notizie brutte, anche le più brutte, non ti schiantano quando le aspetti da tanto, ma ti seppelliscono vivo solo un po’ di più, e che differenza fa stare sotto tre metri di terra invece che due?
Che differenza fa?
Mario guardava la moglie: lui e lei apparivano stanchissimi. Attilio temeva che si arrabbiassero con lui, perché era malato e sapeva – lo sapeva da anni – che le medicine costano, e se il medico Frisoli era buono e non si faceva pagare, invece la cura in montagna sarebbe stata troppo costosa.
Restarono tutti e tre zitti per diversi minuti, finché Attilio non decise di dare un colpo di tosse.
Allora il padre si alzò dalla sedia; sembrò scavarsi una nicchia nell’aria diventata all’improvviso, misteriosamente, grossa e pesante. Disse alla moglie:
-Allora io vado.-
Era come un segnale, come l’inizio di una cosa preparata da tempo. Attilio ebbe un po’ paura; temeva che andasse a prendere dalla zia la siringa, per fargli fare le iniezioni.
Ma il tempo passava e il padre non tornò. Attilio si addormentò, perché nel letto faceva caldo; stava disteso e immobile.
Quando si svegliò, vide il babbo seduto dove stava prima di uscire; ora leggeva a sua moglie un pezzo di carta; era una lettera, su un foglio bianchissimo, con le pieghe ben dritte. Mario lo teneva in mano con delicatezza e quasi con timore, come si fa con oggetti fragilissimi.
Leggeva a voce bassa, per non svegliarlo, ma ora Attilio ascoltava:
…che come un buon padre tanto ha a cuore la salute della fresca giovinezza d’Italia. Duce, a voi ricorrono con illimitata speranza due poveri ma onesti genitori, che non possono permettersi le costose cure per ridare la salute al loro amato figlioletto. Un vostro cenno, Duce, e la benefica volontà vostra dispiegherà gli effetti della…
Attilio ascoltava con attenzione perché era un po’ preoccupato. Non aveva mai sentito suo babbo parlare così, né lo aveva nemmeno sentito leggere, e non capiva il significato di quelle parole, che erano belle, suonavano bene, molto diverse e importanti; erano parole – si sentiva – scelte bene e messe assieme molto bene. Sembrava di sentire il prete quando faceva la predica, ma erano parole più strane, anche un po’ più importanti, almeno così pareva.
Mario vide che il figlio si era svegliato. Lo guardò un istante e lesse a voce appena un poco più alta:
…i sottoscritti genitori osano sperare che la bontà vostra…
La mamma volse la testa verso Attilio; gli sorrise. Sembrava sempre sfinita, come immobilizzata da un peso troppo grande.
Mario concluse la lettura. Posò la lettera sul tavolo con ogni riguardo; la moglie prima si sfregò le mani sul grembiule, controllò che fossero pulite poi prese il foglio con una delicatezza di cui Attilio fu quasi geloso.
Stava leggendo; lo si vedeva dal movimento delle pupille che andavano e venivano.
Poi disse:
-Scrive bene. Scrive proprio bene il figlio della Velia.-
Mario annuì.
-Mi voleva dare anche la busta e il francobollo, ma io ho detto di no. Sembrava che ci approfittassimo.-
-Hai fatto bene.-
-Adesso vado a prendere la busta col francobollo.-
Si alzò e mise la mano in tasca. Contò il denaro. Erano monete nere, consunte, lustre.
Mario guardò il figlio e gli fece un gesto con la mano, lo salutava.
Attilio tirò fuori la mano dalle coperte e salutò il padre.