Cari lettore con questa
puntata si conclude il racconto Carcàri e Ciaramitàru
a Pietraperzia. Con una meticolosa descrizione delle fornaci e della cottura delle tegole
e dell’enorme fatica per approvvigionarsi della paglia necessaria. Culmone ci
riporta ad una realtà di vite vissute nella precarietà, preludio
all’emigrazione di intere famiglie. L’articolo si chiude con un glossario dei
termini dialettali e modi di dire pietrini, molti dei quali ormai persi nella
memoria di un tempo che le ultime generazioni non hanno conosciuto.
LA FORNACE DEL TEGOLAIO
Sta di fatto
che a Pietraperzia, almeno dal 1708 e fino all’inizio del 1960 a lu ciaramitàru
si producevano canàla, madù̢na, pantòfuli e, qualche antica testimonianza afferma, quartàri, bbù̢mmula
e llancèd̩d̩i.
La fornace
circolare a cielo aperto, di circa tre metri di diametro, era realizzata su
terreno leggermente scosceso in modo di avere la camera di combustione
facilmente accessibile a piano terra da una parte ed il vano cottura sopra,
accessibile anch’esso a piano terra dall’altra. Il pavimento del piano cottura
era il soffitto della camera di combustione e questi comunicavano attraverso
vari fori rotondi di circa quindici centimetri di diametro. Con la camera di
combustione attiva fiamma e fumo passavano attraverso i buchi nella camera di
cottura. Il soffitto portante della camera di combustione era realizzato a
volta con cocci di terracotta e malta refrattaria locale taju. L’apertura per
governare la combustione non superava il metro di altezza talché gli operai che
si alternavano a tenere accesa la fornace svolgevano il loro servizio sempre in
ginocchio per tutta la durata della cottura che si protraeva per 16, 18 ore e a
volte oltre. Negli angoli di base v’erano due prese d’aria calamì̢ti che portavano
ossigeno alla fiamma prodotta dai continui pugni di paglia o d’altro lanciati
all’interno dall’operaio in ginocchio.
Notevole importanza
era data alla disposizione dei manufatti crudi nella camera di cottura, senza
mai trascurare la massima attenzione riservata a lu palummàru. “Palummàru” era detta una serie di buchi
intercomunicanti tra camera di combustione e camera di cottura, disposti a
cerchio nel pavimento della camera di cottura vicino la parete esterna della
fornace. Le tegole, disposte sempre in verticale, una accanto all’altra
occupavano l’intero pavimento, tenendo conto dei vari buchi che dovevano
lasciar passare la fiamma. Quando tutta l’area di base disponibile veniva
occupata da tegole si procedeva a formare un secondo strato. Lo stesso criterio
veniva adottato per tutti gli altri strati successivi che potevano arrivare a
cinque. Era d’obbligo però chiudere il tutto e sovrapporre all’ultimo strato di
tegole e piastrelle almeno due strati di mattoni pieni, posti in orizzontale,
che fungevano da coperchio alla fornace. Ultimato il riempimento, gli operai
ormai fuori, usciti da sopra la fornace, pensavano a chiudere in muratura,
sempre con cocci di tegole e taju, il passaggio utilizzato
servito a riempiere parte della fornace. La muratura così realizzata veniva
rivestita con uno strato di malta di gesso.
Di tanto in
tanto durante la cottura, un operaio esperto, con molta prudenza, si avvicinava
alla sommità della fornace per verificare lo stato di cottura delle tegole che
riconosceva dalla colorazione assunta dagli ultimi mattoni pieni di copertura.
All’occorrenza, per rendere uniforme la cottura, lanciava su mattoni pieni già
arroventati cocci di tegole colmi di cenere imbevuta d’acqua per spostare la
fiamma in altre zone della fornace.
Percepita
l’avvenuta cottura si arrestava l’alimentazione della camera di combustine e si
lasciava raffreddare lentamente il tutto. Tegole ed altri manufatti si tiravano
fuori dopo una settimana circa.
Bbù̢rgiu (pl. Bbù̢rgia) era un enorme mucchio di
paglia od altro, a forma rigorosamente geometrica, prevalentemente cono o
parallelepipedo, che a volte arrivava e superava i 3 metri di altezza, con la
sommità sistemata in modo da assicurare al contenuto protezione contro piogge e
intemperie. Li bbù̢rgia, e se ne vedevano tanti, in vicinanza di fattorie
agricole, presso abitazioni rurali di agiati coltivatori diretti, davanti alle
semplici abitazioni di contadini che avevano scelto di vivere
stabilmente in campagna, erano veri contenitori di fieno e/o paglia destinata
all’alimentazione degli animali da soma. Bburgì̢si, letteralmente possessore di bbù̢rgia, voleva significare opulenza, benessere, ricchezza ed
il termine, a Pietraperzia, si affibbiava a gente agricola benestante.
Li bbù̢rgia
di issàra
e di canalàra,
realizzati all’interno o in prossimità degli spiazzi della loro industria,
erano contenitori di combustibili per alimentare le fornaci: si realizzavano
con paglia e scarti di paglia di ogni tipo di cereale.
Gli agricoltori
costruivano a volte bbù̢rgia per mancanza di spazio al coperto e per soddisfare
l’enorme richiesta di foraggio necessario a sfamare i tanti animali di
allevamento e da soma Costruire u-bbù̢rgiu
di finu non era difficile: bastava ricavare uno spiazzo pianeggiante,
accostare i covoni nella quantità che si voleva, disposti a formare
generalmente un rettangolo, sovrapporne altri fino all’altezza di tre metri
circa o oltre e, alla sommità, rivestire il cumolo con paglia onde ottenere la
copertura a botte o a spioventi fortemente in pendenza. A volte si copriva il
tetto, o solo parti, con strisce di tessuto riciclato e si zavorrava con
pesanti massi per limitare i danni che potevano essere prodotti
da imprevedibili venti impetuosi.
Per costruire u-bbù̢rgiu
di paglia la procedura non era altrettanto semplice. Prima bisognava dare forma
alla paglia, sostanza amorfa; si cominciava con lo stenderla sullo spiazzo
pianeggiante o reso tale e poi vi si ammucchiava altra paglia fino a superare
un metro di altezza. La si pressava calpestandola o battendola con forconi o
tridenti e poi si passava al taglio delle pareti. Prima a grandi bracciate si
prelevava la paglia dai lati e la si buttava sopra al mucchio e poi con
forconi, togliendo dai lati la paglia ritenuta in esubero, si ottenevano
pareti, a volte, perfettamente verticali. Si continuava ad ammucchiare e
pressare paglia sempre più in alto servendosi di scale a pioli appoggiate al
cumulo in formazione. La professionalità di quella gente era così alta che
riusciva a formare solidi perfetti, parallelepipedi sormontati da prismi, che a
volte raggiungevano e superavano i tre metri di altezza. Alla fine, ritenuta
sufficiente l’altezza, si passava alla realizzazione degli spioventi. Nella
sommità individuata come spartiacque, alcuni sistemavano un serpentone di
stoppie precedentemente preparato, grosso quindici-venti centimetri lungo la
dimensione maggiore; altri due, uno a destra e l’altro a sinistra del primo li
collocavano lungo gli spigoli per fungere da gocciolatoi. Alla fine si copriva
il tutto con pula fortemente compattata e si passava volendo alla zavorratura
di protezione. Le procedure di copertura erano diversissime e spesso venivano
adottate tecniche strettamente personali.
Realizzare un bbù̢rgiu
di issàra o di canalàra, per una serie di concause,
era molto più faticoso e impegnativo. Li issàra e li canalàra non erano
produttori di paglia e dovevano procurarsela. Ottenerne anche piccole quantità
era quasi impensabile, dovevano accontentarsi degli scarti abbandonati dai
contadini e anche per questo a volte subivano torture psicologiche: venivano
assimilati a ladri se non avevano chiesto per tempo l’autorizzazione a
prelevare ciò che era stato abbandonato.
Per esigenze
insite all’attività, li bbù̢rgia di li issàra e di li
canalàra dovevano essere costruiti in prossimità delle fornaci, e
pertanto, a volte, la materia prima per arrivare a destinazione subiva lunghi
trasferimenti. Il trasporto, dall’aia di produzione alle pertinenze della
fornace, spesso lontana diversi chilometri, avveniva, per i gessai, a dorso
degli stessi asini che prima avevano soddisfatto in paese le richieste di gesso
dei clienti, a dorso di altri animali da soma ed ancora asini per i tegolai.
Per mancanza di strade carrabili raramente venivano utilizzati i carretti. Il
tragitto dall’aia alla fornace non si faceva per viottoli interpoderali, per
abbreviare il percorso si attraversavano, senza al-cuna autorizzazione, diversi
poderi privati. Generalmente i proprietari dei poderi tolleravano tale sopruso
stagionale ma a volte si scatenavano delle diatribe che si concludevano, quasi
sempre, benignamente con la cessione di qualche sacco di gesso o poche decine
di tegole al proprietario del podere violato.
Per il
trasporto li issàra e li canalàra non usavano li
rutù̢na, grandi reti di corda con scannàgli usati dai contadini per
trasportare grossi carichi di paglia, dall’ària a la paglialòra dall'aia al
pagliaio, ma sacchi di paglia, sacchi fatti apposta per il trasporto della
paglia.
Li rutù̢na
sarebbero stati più vantaggiosi ma non erano adatti al trasporto degli scarti.
Li sacchi di
ji̢ssu, sacchi per il trasporto del gesso, erano in tessuto di tela olona
della capacità standard di due stai du tù̢mmina; dopo il riempimento non
si legavano all’imboccatura, come si fa con i comuni sacchi, ma il tessuto in
esubero, circa 25 centimetri fino all’orlo, si ripiegava sul contenuto,
chiudendo il sacco come si fa con una busta.
Li sacchi di
paglia, sacchi per il trasporto della paglia, anch’essi in tessuto di tela olona,
erano molto capienti, muniti di circa tre metri di cordicella terminavano con
quattro cappi equidistanti attaccati all’orlo superiore.
Dopo il
riempimento vi si pressava all’interno più contenuto possibile e alla fine lo
si rimboccava con grosse bracciate di paglia e si legava fortemente con la
cordicella passante per i diversi cappi. Il peso di ogni sacco così riempito a
volte superava i venticinque chili ma quando gli scarti erano sterrosi, (come
sabbia) il peso diventava enorme per l’operaio che doveva sollevarlo dopo
l’asfissiante operazione di riempimento. Se ne caricavano tre ad ogni animale
da soma, asino o mulo, due ai lati e uno sul basto.
Al tempo della
trebbiatura tradizionale li issara facevano il giro delle aie
nelle diverse contrade limitrofe allo scopo di accaparrarsi, a scapito di altri
concorrenti, paglia di scarto e se possibile, anche buona paglia. In presenza
di aie di fave, trigonella finug̵ricu o veccia, insistevano per
ottenerne tutta la paglia; sapevano che gli animali da soma non la gradivano e
i contadini, anche se a volte la usavano per concimare il terreno, erano
propensi a cederla in cambio di pochi tù̢mmina (stai) di gesso a qualche
decina di canàla (tegole). Tale forma di baratto larvato, messo in atto
dai contadini, veniva accolto benevolmente dai gessai e tegolai che
soddisfacendo le loro esigue richieste raggiungevano il proprio obbiettivo. Le
richieste erano veramente esigue: si chiedevano pochi tumoli di gesso o poche
decine di tegole per riparare la manciatu̢ra di la stad̩d̩a
o lu
tettu di l’appinnata (la greppia della stalla o quella esterna sotto la
tettoia), o per riparare la tannù̢ra (fornellone a legna della
cucina) o la tucchjèna ( ripiano multiuso esterno addossato alla casa).
Una minima
quantità di paglia di grano, di fieno greco, di veccia o di fave era necessaria
per la stabilità di lu bbù̢rgiu quando si raccoglieva anche la pula. La sola pula,
adoperata dai gessai, anche se fortemente compressa, sarebbe scivolata e
venendo giù come frana avrebbe rovinato il parallelepipedo che si voleva
costruire. Per evitare ciò, durante la costruzione, sistemavano ai margini la
paglia più lunga e la si pressata in modo da fungere da parete per contenere la
pula che successivamente vi si scaricava al centro.
I proprietari
di fornaci optavano per questo tipo di combustibile perché era a buon prezzo e
costava quasi niente. Realizzare u-bbù̢rgiu significava assicurarsi
la produzione per l’anno a venire e garantire il sostentamento alla famiglia.
Capitava, e non
di rado, che questi grossi serbatoi, realizzati a fatica e con grandi
sacrifici, per ragioni diverse, invidia, oltraggio, vendetta, vandalismo od
altro, andavano in fumo. E quando ciò avveniva era un dramma. Il danno
economico enorme si riversava su tutti gli addetti alla produzione. Al danno
non c’era alternativa: o arrestare la produzione per un anno, che significava
rinunziare ad ogni forma di guadagno, compromettendo la sopravvivenza delle
famiglie interessate, o ricorrere all’acquisto oneroso di altri combustibili.
In questo secondo caso, che era quello a cui quasi sempre gli interessati
ricorrevano, i proventi dell’attività subivano una drastica riduzione perché
dal totale degli incassi bisognava sottrarre il costo del combustibili.
Fortunatamente che le fornaci accettavano di buon grado qualsiasi combustibile.
Bruciavano ligna di mìnnuli e d’aulì̢va fascine di mandorlo e di
ulivo, scorci di mìnnula bucce legnose di mandorla, nùzzulu
sansa, truppiḍḍù̢na tronchetti di legna da ardere, e scarti di ogni
tipo purché combustibili.
Raccolta delle
tegole già asciutte ed accantonate sulla piazzuola in attesa della cottura.
Sullo sfondo della foto in biano e nero si vede la villa del Barone Tortorici in contrada
Fondachello. Donna e bambino sono parenti della famiglia dell’operaio.
Operai al
lavoro sullo spiazzo davanti argilla essiccata pronta per la frantumazione.
Dietro oltre alla donna si vede parte del fabbricato dei
Napoli e dei Tortorici. Per la
frantumazione dell’argilla si usava una grossa e leggera mazza di legno màzzu.
Davanti In
basso a destra un tratto della strada provinciale 191 con tre paracarri in
pietra; più giù, oltre l’albero, tre “bbùrgia”
e il caseggiato dell’azienda “ciaramitàru”.
Vi si lavorava l’argilla estratta in loco e si producevano tegole, piastrelle,
mattoni pieni, vasi e brocche. Nell’ingrandimento della parte interessata si
possono evidenzia tre forme e dimensioni di “li bbu̢rgia” manufatti di allora che per anni caratterizzarono gli
agricoltori
benestanti e l’artigianato di issàra e canalàra.
Ex operaio, già
emigrato all’estero, fattosi riprendere assieme alla moglie, nel luogo dove per
tanti anni aveva svolto la sua attività. Alle sue spalle il locale per lo
stoccaggio dei manufatti in attesa della cottura e davanti alle due porte,
oltre alle sterpaglie che evidenziano l’abbandono, un mucchio d’argilla rimasto
allora in attesa di essere frantumato. Ancora più avanti a terra e a destra una
macchia nera segnala l’area dove insisteva la base della fornace. Tutto lo
spiazzo pianeggiante era impegnato per la lavorazione e l’esposizione al sole
dei manufatti.
L’alto
pennacchio di fumo evidenziava l’attività della fornace che continuava ad
ardere ininterrottamente per 16/18 ore. Le persone attorno erano quasi
tutti addetti
ai lavori. Quella che si vede nella foto è la parte fuori terra della fornace
che già conteneva i pezzi da cuocere, ordinati con rigoroso criterio, (3000
tegole, 1000 piastrelle e 1400 mattoni pieni all’incirca). La camera di
combustione a paglia, separata dalla camera di cottura, era alimentata da sotto
da operai in ginocchio con lanci continui all’interno di pugni di paglia o di
altro.
Dietro la
fornace erano visibili i locali per lo stoccaggio dei manufatti e sullo sfondo
la collina crestata delle “Rocche”.
Michele Ciulla
del 1912, uomo di consolidata ed indiscussa memoria visiva, testimone oculare
di quell’attività artigianale, con questi tratti di grande valore artistico,
descrive ed anima uno squarcio di vita che un tempo era al centro di
quell’attività: tegole ad asciugare e da cuocere, operaio che impasta argilla,
operaio che realizza tegole, attrezzi sul tavolo, parte della fornace fuori
terra, bbu̢rgia.
GLOSSARIO
appinnàta sf.
tettoia a sbalzo per fare ombra o riparare dalla pioggia.
bbù̢mmulu sm.
orcio, recipiente di terracotta con due manici, simile e più piccolo della lancèḍḍa.
2. bù̢mmulu crù̢du, (termine
offensivo riferito a persona) rozzo e di poco intelletto.
bbù̢rgiu sm.
(pl. bbù̢rgia) enorme mucchio di
paglia pressata, a forma di parallelepipedo, con la sommità sistemata in modo
da costituire una protezione contro le intemperie. Bbù̢rgia se ne vedevano in gran quantità
presso
fattorie, abitazioni rurali e cave di gesso: era un modo di conservare la
paglia per tutto l'anno senza dovere ricorrere a locali chiusi.
calamì̢ta sf.
calamita, magnete.
2. cappa e canna fumaria per imbrigliare fumi e portarli all'esterno.
3. presa d'aria, a condotta interrata, posta alla base della camera di
combustione delle fornaci di gesso.
canalàru sm.
tegolaio, costruttore o rivenditore di tegole.
canàli sm. (pl. canàla) tegola.
2. (canàli) curritù̢ri, tegola di scorrimento utilizzata nella parte concava
per raccogliere e fare defluire l'acqua.
3. (canàli) cupìrchiu, tegola di copertura utilizzata nella parte convessa per
convogliare la pioggia dentro li
curritù̢ra.
4. lu canàli, costruzione, tuttora esistente, che convoglia e fa scorrere,
attraverso 25 cannelle, l'acqua della sorgente S. Giovanni, permettendo ai
Pietrini, prima della realizzazione della rete idrica (anni 30/40), di
usufruire dell'acqua necessaria per i bisogni idrici di persone e animali.
càpu di vardù̢ni sm, corda del basto lunga 5 metri circa, serviva ad assicurare il
carico al basto.
cchiàccu sm.
(pl. cchiàcchi) cappio, laccio, nodo scorsoio.
2. fig. tranello.
3. cunżàri lu cchiàccu, preparare il
tranello.
4. paràri li cchiàcchi a li cunì̢glia, predisporre lacci per la
cattura di conigli.
5. cchiàccu di fù̢rca, delinquente.
cciàppa sf.
sottile strato di terreno agrario su roccia.
2. attrezzo del gessaio: era formato da un lungo spiedo con semicerchio
di lamiera di dieci centimetri di diametro, attaccato di traverso alla punta,
adoperato per rimuovere la cenere, durante la cottura del gesso, nella fornace
di li carcàri.
.
ciaramitàru sm.
officina del vasaio.
2. luogo dove si lavora l'argilla.
3. fornace per la produzione di tegole e mattoni.
4. zona periferica di Pietraperzia, in contrada Piano Noce (di fronte
all'attuale macello Comunale) e confinante con la zona Canale e con la zona
Madunnùzza, dove fino agli anni '50 del secolo scorso vi erano fabbriche
artigianali di tegole e mattoni di argilla.
cudèra sf. sottocoda, posola:
cinghia di cuoio, larga 10 cm. circa, che veniva ancorata al basto dell'animale
da soma, dopo averla fatta passare sotto la sua coda; aveva la funzione di
mantenere fermo il basto sull'animale specialmente su strade o viottoli
scoscesi
finug̶rìcu sm.
trigonella.
furcèḍḍa sf.
forcella, attrezzo agricolo costituito da un'impugnatura di legno a manico
lungo e da una parte finale, di legno o di ferro, a forma di Y.
2. attrezzo usato dai gessai per spruzzare paglia nelle fornaci durante
la cottura del gesso.
3. attrezzo domestico per appendere abiti.
4. legno della fionda.
g̶ràsta sf.
(pl. g̶ràsti) vaso di terracotta per
piante e fiori.
2. coccio di tegola o di terracotta.
3. parte finale di una brocca rotta (muzzù̢ni)
usata come contenitore di acqua o di crusca per dare da bere o da mangiare alle
galline.
issàru sm. (pl. issàra) lavoratore nella cava di gesso.
2. produttore e venditore di gesso.
lancèḍḍa sf.
(pl. lancèḍḍi) recipiente di
terracotta con due manici, di capacità intermedia tra la quartàra e lu
bbù̢mmulu di cui è simile per forma.
2. lancèḍḍa di mù̢stu, recipiente usato per trasportare
mosto.
lì̢gna sm. pl. legna da ardere.
2. fàri
lì̢gna, cercare legna da ardere.
3. un fàsciu di lì̢gna, un
fascio di rami secchi.
madù̢ni sm.
(pl. madù̢na) mattone.
2. madù̢ni di crì̢ta,
piastrella di terracotta per pavimenti.
3. madù̢ni di Valènża,
piastrella smaltata usata per pavimentare e rivestire pareti.
maniù̢ni sm.
arcione, legno di ulivo o di castagno, piegato a caldo ad U.
La sua
conseguente stagionatura consentiva la cofezione del basto (vardù̢ni).
màzzu sm. mazzo, insieme di
qualunque cosa.
2. màzzu di lavù̢ri, di fàvi, insieme di 20 covoni di
frumento, fave o altro. Cinque stravulàti
di quattro g̶règni formavano un màzzu.
3. màzzu di càrti, l’intera
serie delle carte da gioco.
4. scopino di ampelodesmo usato
dai pastori per la pulitura degli attrezzi destinati alla produzione dei
latticini.
5. grosso martello di legno usato dai tegolai per frantumare l’agilla
essiccata.
manciatù̢ra sf.
mangiatoia, greppia.
2. guadagno illecito.
mìnnula sf.
(pl. mì̢nnuli) mandorla.
2. mìnnuli mì̢si ràppi ràppi,
abbondante infruttescenza di mandorle.
3. cì̢nniri di mìnnula, cenere
potassica ricavata dal mallo delle mandorle, usata come detersivo.
4. mìnnula lug̶uisèḍḍa,
varietà di mandorla.
5. mìnnula marzù̢ḍḍa, varietà
di mandorla.
6. mìnnula muḍḍì̢sa, varietà
di mandorla.
7. mìnnula di lu munżì̢ḍḍu,
varietà di mandorla.
8. mìnnula niculètta, varietà
di mandorla.
9. mìnnula nuciḍḍàra, varietà
di mandorla.
10. mìnnula pizzù̢ta o mìnnula strazzavisàzzi, varietà di
mandorla.
11. mìnnula sancisù̢ca, varietà
di mandorla.
12. mìnnula san giuuànnì̢sa,
varietà di mandorla.
13. mìnnula di la sciàrra,
varietà di mandorla molto gustosa.
14. mìnnula siciliàna, varietà
di mandorla.
15. mìnnula vì̢nci a ttù̢tti,
varietà di mandorla.
16. bbèḍḍu spì̢cchiu di mìnnula
amàra, soggetto poco raccomandabile, di buona apparenza ma di cattiva
sostanza.
mòdulu sm. modello di legno su cui i
tegolai pietrini modellavano le tegole (coppo siciliano)
nùzzulu sm.
sansa, ciò che resta delle olive dopo l'estrazione dell'olio. Tale scarto
organico veniva usato per ardere il forno.
pantòfalu sm.
mattone pieno di terra cotta, si fabbricava anche a lu ciaramitàru.
pistulèna sf.
striscia di cuoio o di resistente tessuto, passante sopra le natiche
dell'animale e agganciata alla cudèra,
per impedirle di scivolare verso il basso
pruvulàta sf.
esplosione di una mina.
quartàra sf.
(pl. quartàri) brocca di terracotta
con due manici. Si differenzia da lancèḍḍa
e da bbù̢mmulu solo per dimensione.
2. quartàra di żżì̢ṅġu,
brocca di sottile lamiera di zinco.
3. fig. quartàra χaccàta: a)
brocca lesionata; b) fig. persona
malaticcia.
4. truzzàri la quartàra ccu lu
mù̢ru, fig. detto del debole che
voglia cozzare col potente, per sottolineare il fatto che è inevitabile che
egli soccomba così come è inevitabile che si rompa la brocca sbattuta contro il
muro.
Proverbio: la
quartàra va all'àcqua fì̢na ca si rù̢mpi: chi persiste nelle malefatte è
destinato ad essere scoperto.
stàḍḍa sf. (pl. stàḍḍi) stalla, locale chiuso e coperto dove si
tengono equini, bovini e altri animali domestici.
tàju sm. marna friabile di colore
giallo pallido; impastata con acqua veniva usata come malta refrattaria per
costruire e rivestire forni a legna.
tannù̢ra sf.
(pl. tannù̢ri) cucina,
uno o più fornelli a legna: era realizzata in malta di gesso e tondini
di ferro su cui si poneva la pentola per cucinare. Sotto la pentola bruciava la
legna ed il fumo veniva catturato da una grossa cappa in gesso comunicante col
comignolo esterno, formato da tre tegole, disposte in verticale e leggermente
inclinate con la parte convessa all'infuori.
2. nomignolo
truppiḍḍù̢ni sm. (pl. truppiḍḍù̢na)
tronchetto di legna da ardere.
tucchjèna sf.
sedile di pietra o in muratura, addossato al muro esterno di una casa di
campagna, usato spesso come tavolo per deporvi il cibo da mangiare. 2. pianerottolo di accesso preceduto da
pochi gradini.
vardù̢ni sm. (pl. vardù̢na) basto. Il basto veniva
costruito artigianalmente da bastai (vardunàra):
si prendeva lu maniù̢ni (arcione),
fatto di legno di ulivo o di castagno, reso curvo a fuoco e già fatto
stagionare adeguatamente: si preparava per le due parti di esso una copertura
rettangolare in tessuto di olona, cucito nei laterali e lasciato aperto nella
parte centrale per imbottirlo con fine paglia e reso rigido con un arnese di
ferro (fuḍḍatù̢ri). Prima che il
legno nudo venisse coperto dal tessuto di tela olona si attaccavano saldamente
sullo stesso legno due corde di cinque metri ciascuna (càpi) mentre nella parte centrale si poneva altra corda (cchiàcchi) cucita su pezzi di cuoio di
sostegno. Se il cuoio ricopriva tutta la parte centrale, oltre i laterali, si
diceva: vardù̢ni ccu li fàlli; se il
cuoio si cuciva solo nella parte bassa si diceva: vardù̢ni ccu li mèzzi fàlli. Elementi di collegamento
indispensabili erano: cudèra, pistulèna e
cì̢ṅġa.
vèccia sf. veccia, rampicante delle
leguminose che serve come biada. Anche vì̢zza.
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