Innanzitutto grazie al sign. Di Gregorio per il suo accurato e accorato commento. Mi riempie di gioia vedere come il nostro non sia un blog di “sola lettura”, perché le sue parole hanno cucito attorno alla mia intervista il sottile filo di un dialogo che ha dato a me preziosi spunti e da cui spero ciascuno possa ricavarne altri.
Le mie parole (e insieme di Tomasi) “dovremmo far vituperio
di tutta la Storia e riscriverla come si fa con un romanzo, ma da noi stessi!
Quella sì sarebbe vera Storia”, sono volutamente sarcastiche, di amara ironia. Sappiamo benissimo che la Storia e la
Letteratura sono due approcci completamente diversi alla realtà – l’una
oggettiva e basata su fonti storiche (o almeno così dovrebbe essere), l’altra
soggettiva e basata sulla personale visione di uno scrittore che si fa filtro e
lente per l’interpretazione della realtà stessa - anche se a volte, nel
cosiddetto «romanzo storico» le due tendono a intrecciarsi. Ma, considerate le
verità parziali e distorte che i libri
di storia ci raccontano sul Risorgimento (non è un caso che in riferimento agli
eventi di quegli anni si parli sempre di
«retorica del Risorgimento» o di «mito del Risorgimento», diciture che
tradiscono già una discrepanza fra la Storia e la realtà del fatti), talvolta
il lettore troverà più verità in un romanzo che in un manuale.
Consideriamo, per esempio, i plebisciti di annessione. Lei
scrive che «nel 1860, la stragrande maggioranza dei siciliani partecipò
schierandosi in favore della soluzione unitaria e facendo propria la
parola d’ordine “Italia e Vittorio Emanuele”». Prendiamo in esame un manuale, una fonte
storica e un romanzo.
Le
parole che seguono sulla dinamica delle votazioni sono di Filippo Curletti,
agente segreto di Cavour, modenese che partecipò in prima persona alla gestione
dei seggi nella sua città. Prima di morire Filippo chiamò un notaio e fece le
sue confessioni, immediatamente intercettate e segretate dal governo militare, pubblicate
solo 150 anni dopo. Afferma Curletti:
«Ci eravamo fatti rimettere i
registri delle parrocchie per formare le liste degli elettori. Preparammo tutte
le schede per le elezioni dei parlamenti locali, come più tardi pel voto
dell’annessione. Un picciol numero di
elettori si presentarono a prendervi parte: ma, al momento della chiusura delle
urne, vi gittavamo le schede, naturalmente in senso piemontese, di quelli che
si erano astenuti.
Non è malagevole spiegare la facilità con cui tali manovre hanno potuto
riuscire in paesi del tutto nuovi all’esercizio del suffragio universale, e
dove l’indifferenza e l’astensione giovavano a maraviglia alla frode, facendone
sparire ogni controllo [...] In alcuni collegi, questa introduzione in massa
degli assenti nelle urne, - chiamavamo ciò “completare la votazione”, - si fece
con sì poco riguardo che lo spoglio dello scrutinio dette un numero maggiore di
votanti che di elettori inscritti».
Sottolineo che Curletti è
modenese e afferma che «d’altronde le cose non avvennero diversamente a Parma ed
a Firenze». Figurarsi al Sud! L’On. Angelo Manna, che nel 1991 chiedeva in
Parlamento di desecretare dei documenti che lo Stato tiene ancora oggi
nascosti, nella sua storica interpellanza parlamentare, ribadiva come a Napoli appena
l’1,9 % degli aventi diritto si fosse veramente recato alle urne in quel
fatidico ottobre del 1860. Quel Sud dove i cosiddetti “Briganti”, i quali altro
non erano che patrioti e partigiani in lotta per liberare il loro Regno invaso,
lottarono per più di dieci anni dopo l’“unificazione” e dove lo “Stato
unitario” chiuse le scuole per ben 14 anni (fino al 1875) per evitare che l’insurrezione
si spandesse a macchia d’olio.
Riporto qui di seguito la versione che Giuseppe Tomasi di
Lampedusa dà del medesimo plebiscito nel suo romanzo storico, dalla prospettiva
di Donnafugata. Capitolo III, datato proprio ottobre 1860:
« Alla folla invisibile
nelle tenebre [Don Calogero] annunziò che a Donnafugata il Plebiscito aveva
dato questi risultati:
Iscritti
515; votanti 512; "si" 512; "no" zero.
[...] Il fresco aveva disperso la sonnolenza di
don Ciccio, la massiccia imponenza del Principe aveva allontanato i suoi
timori; ora a galla della sua coscienza emergeva soltanto il dispetto, inutile
certo ma non ignobile. In piedi, parlava in dialetto e gesticolava, pietoso
burattino che aveva ridicolmente ragione.
"Io, Eccellenza, avevo votato
'no'. 'No,' cento volte 'no.' Ricordavo quello che mi avevate detto: la
necessità, l'inutilità, l'unità, l'opportunità. Avrete ragione voi, ma io di
politica non me ne sento. Lascio queste cose agli altri. Ma Ciccio Tumeo è un
galantuomo, povero e miserabile, coi calzoni sfondati (e percuoteva sulle sue
chiappe gli accurati rattoppi dei pantaloni da caccia) e il beneficio ricevuto
non lo aveva dimenticato; e quei porci in Municipio s'inghiottono la mia
opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro. Io ho detto nero e loro mi fanno dire
bianco! Per una volta che potevo dire quello che pensavo quel succhiasangue di
Sedàra mi annulla, fa come se non fossi mai esistito [...]
A questo punto la calma discese su Don
Fabrizio che finalmente aveva sciolto l'enigma; adesso sapeva chi era stato
strangolato a Donnafugata, in cento altri luoghi, nel corso di quella nottata
di vento lercio: una neonata, la buonafede».
(Il Gattopardo, Feltrinelli,
Milano, 2006, pp. 122-125).
Ecco il senso delle mie parole: considerate le bugie e le
omissioni della Storia ufficiale, c’è talvolta più verità nella letteratura che
non altrove, soprattutto quando la letteratura si fa interprete di un’esigenza
di ricostruzione storica, come nel caso del Gattopardo.
E non perché ognuno debba scriverla come gli pare, ma perché nel paradosso
di una “Storia” ufficiale che non ci racconta la verità, un romanzo – in questo
caso il Gattopardo – sa essere più vero della “Storia”.
Con ciò non nego assolutamente l’operato e gli intenti
completamente diversi di chi un’idea di Italia ce l’aveva eccome. Non nego i
misfatti e il malgoverno dei Borbone (soprattutto dell’ultimo, e soprattutto in
Sicilia, lontana da Napoli e perciò non gestita allo stesso modo). Non nego il valore delle insurrezioni che avevano
preceduto il 1861 né le divisioni interne e le debolezze del Regno delle Due
Sicilie, che altrimenti non sarebbe affondato in quel modo (nessun generale si
sarebbe fatto vergognosamente corrompere come il Landi a Calatafimi). Non nego
la volontà di liberazione dallo straniero che ferveva nel cuore di veri
patrioti. Dico semplicemente che il
tutto è finito nell’alveo della strumentalizzazione delle idee, piegate ad
esigenze altre.
Fra qualche anno gli “storici”- o meglio i “propagandisti”
al servizio del potere costituito, che bisogna distinguere dai veri storici - scriveranno sui manuali che i primi decenni
del XXI secolo sono stati caratterizzati da numerosi attacchi terroristici ad
opera di folli kamikaze che terrorizzavano il povero Occidente causa la
diffusione dell’assurdo credo in un dio Allah, in nome del quale si combatteva
una guerra santa contro gli infedeli da convertire a suon di bombe. Ma in pochi
diranno che “jihad” in realtà in arabo equivale al tedesco “Streben”: “aspirazione" "tensione",
una “tendenza infinita al superamento del finito” in direzione di Dio e di un
sé più autentico. In pochi diranno che la strumentalizzazione che ne ha fatto il
potere politico, l’ha trasformata in una guerra tra fratelli, mentre chi vuole
veramente tutto questo rimane nell’ombra. E la storia vera, quella di un ISIS
orchestrato dalla CIA, per autorizzare gli USA a combattere per quelle risorse
economiche, che guarda caso pullulano in quei territori, diverrà “Controstoria
del Terrorismo” - così come le reali vicende del Risorgimento passano oggi sotto l'etichetta di "Controstoria del Risorgimento" -. La democrazia resterà un costume da scena, da far indossare di
volta in volta a questa o quella guerra, per mascherare le vere cause di
appropriazione di risorse che la sottendono. Perché aiutare solo certi popoli a
“conquistare” la democrazia? E gli altri? Gli altri forse non la meritano? No. Gli altri non possono dare nulla in
cambio.
Ecco, la dinamica di "liberazione dallo straniero" di un Regno come quello delle Due Sicilie, governato da sovrani che erano spagnoli sì, ma napoletani da quattro generazioni, mi riporta sulla medesima scia delle "democratizzazioni" forzate di oggi, fatte più per interessi economici che non per un intento reale di Liberazione.
Lei mi chiede perché la definisco «pseudo-unificazione».
- Già nel 1832 Ferdinando II di Borbone aveva proposto al cugino Carlo Alberto di Savoia una “Confederazione di Stati”, ma nel rispetto delle libertà di ognuno di essi, per dare vita ad una compagine territoriale forte e indipendente nei confronti delle mire degli stati stranieri. Il Regno delle due Sicilie, che cercava di difendere a tutti costi il proprio diritto di neutralità, era, inoltre, il più ricco d’Europa dopo le stesse Inghilterra e Francia. Questo chiaramente disturbava l’Inghilterra che, da potenza navale mondiale qual era, non poteva permettere che proprio nel cuore del Mediterraneo – porta d’accesso a ben tre continenti quali l’Africa, l’Asia e l’Europa stessa – dominasse una potenza in continua crescita come quel Regno la cui flotta era passata da 2.387 navi nel 1818 a 9.848 navi nel 1860. Nel 1869 si sarebbe ufficialmente aperto il Canale di Suez e gli inglesi dovevano assicurarsi a tutti i costi il pieno controllo del Mediterraneo a scapito dei francesi e degli stessi Borbone (questo era anche lo scopo del Protettorato e spiega anche la corsa forsennata per quel piccolo pezzo di lava emerso al largo delle coste siciliane già nel 1831). Il Protettorato di cui parla lei, visto da questa prospettiva, acquista una luce del tutto diversa: gli inglesi non ricoprono un ruolo filo-borbonico perché favoriscono i Borbone né tantomeno perché vogliono “ripristinare l’ordine”: essi vogliono assicurarsi di non perdere il controllo su quei territori. Con gli stessi accordi di Plombières ancora Napoleone III sperava di collocare sul trono bonbonico un nipote di Gioacchino Murat, ma gli inglesi non l’avrebbero mai permesso. Spodestare un nemico al centro del Mediterraneo per assistere all’ascesa di uno ancora più grande come la Francia sarebbe stato contro ogni logica. Meglio tenere sotto scacco Cavour e il piccolo Regno del Piemonte, favorire la sua espansione e farlo ri-nascere come stato direttamente dipendente dall’Inghilterra fin dalle sue stesse origini. L’Inghilterra supportava economicamente già da tempo i tentativi del piccolo Regno del Piemonte di inserirsi nello scacchiere politico europeo, poiché aveva intuito che renderlo dipendente da un punto di vista finanziario, sarebbe equivalso ad asservirlo a sé da un punto di vista politico. E così fu: al momento dell’ “unificazione” il Piemonte aveva già un debito di un miliardo di lire con le banche londinesi ed era sull’orlo del fallimento. Come rimediare? Era conveniente per il Piemonte annettere un Regno che aveva due volte più monete (chiaramente indice, oltre che di ricchezza in sé, di una florida economia) di tutti gli altri Stati della penisola uniti assieme. Quello che segue è il quadro della situazione finanziaria dei Regni della penisola al momento dell’annessione.
Quantità di monete circolanti nella Penisola per un tot. di
668 milioni così ripartiti:
Regno delle
Due Sicilie milioni 443,2
Lombardia 8,1
Ducato di Modena 0,4
Parma e Piacenza 1,2
Roma 35,3
Romagna, Marche e Umbria 55,3
Sardegna 27,0
Toscana 85,2
Venezia 12,7
(Da Francesco Saverio Nitti, Scienze delle Finanze, Pierro, 1903, p. 292)
Ma il Piemonte non avrebbe mai potuto sostenere da solo il peso
di quella conquista. Lo stesso Garibaldi nelle sue memorie dichiara: «senza
l’aiuto di Palmerston Napoli sarebbe ancora borbonica e senza l’ammiraglio
Mondy non avrei potuto giammai passare lo Stretto di Messina». Come avrebbero
potuto appena mille uomini conquistare un intero regno nel giro di qualche mese,
se la massoneria inglese non avesse investito una montagna di denaro per "comprare" generali borbonici, bande criminali e pagare lo stesso Garibaldi? Ecco,
io questa non la definirei “unificazione”, ma “corruzione” e “conquista
militare”, peraltro di basso grado, fatta com’era senza nemmeno una
dichiarazione di guerra.
- Non prelude certo ad una degna unificazione uno sbarco fatto in Sicilia assicurandosi prima la collaborazione delle cellule criminali presenti sul territorio. Totò Riina al processo degli anni Ottanta affermò: «Io amo l’Italia, per la quale la mia famiglia ha dato il suo fondamentale appoggio preparando lo sbarco di Garibaldi». E Antonio Patti, mafioso, al Sostituto Procuratore della Repubblica di Palermo nel 1997: «Garibaldi poté sbarcare e spostarsi liberamente in Sicilia perché il Piemonte versò i soldi alla mafia assicurandosene la collaborazione». Non stupisce, al momento dell’instaurazione della dittatura garibaldina in Sicilia, leggere fra i Decreti dittatoriali del 17 agosto: «si ordina dichiararsi nulle, e come non avvenute, tutte le condanne emesse su i fatti, che durante il governo borbonico, si consideravano come reati, ed i condannati doversi intendere rientrati ipso jure nello esercizio di tutti i diritti civili e politici». Lo stesso Rocco Chinnici, capo del Pool Antimafia coadiuvato da Falcone e Borsellino, giudice assassinato nel 1983, affermava: «la mafia come associazione e con tale denominazione prima dell’Unificazione non era mai esistita in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia». A Napoli il Prefetto di polizia Liborio Romano, futuro ministro del Regno d’Italia, in segreto contatto con Camillo Benso conte di Cavour e Garibaldi, convocò Salvatore de Crescenzo, capo delle locali bande camorriste, e lo arruolò nella Guardia cittadina insieme ai suoi affiliati. Ora la camorra era in coccarda tricolore e Tore ‘e Crescienzo, forte di legittimazione e protezione, diveniva affermato camorrista. Nell’ottobre dello stesso 1860 ebbe l’incarico di vigilare sulle urne a voto palese in occasione del plebiscito di annessione. Il potere costituito scende a patti con la criminalità, ne legittima l’operato e così si assicura l'assenso dei territori da annettere. Ecco, io questa non la definirei “unificazione”.
- Massimo d'Azeglio pronunciò la famosa frase "Fatta l'Italia bisogna fare gli italiani". Ma ci sarebbe stato bisogno di "fare" un popolo se questo si fosse sentito già tale? Quello che seguì l' "unificazione" fu un abominevole sterminio, che i libri di storia tacciono o citano sotto la semplicistica e fuorviante etichetta di "brigantaggio", lasciando intendere che lo stato unitario dovette quasi sobbarcarsi una immane campagna di lotta alla delinquenza (in un Sud che d'improvviso si era affollato di malfattori rifugiatisi sui monti). E sì che ai veri briganti gli stessi Borbone avevano dato la caccia, ma non erano migliaia, e non avevano le divise borboniche addosso, come quelli che i piemontesi trucidavano ancora più di dieci anni dopo l'Unità; non erano donne, vecchi e bambini come quelli che il generale Cialdini massacrò a Pontelandolfo e Casalduni; non erano inermi contadini come quelli che il generale Pinelli trucidò in Abruzzo e nel Molise. Ogni anno piangiamo sugli ebrei e sulla barbarie nazista, ma nessun giorno della memoria ricorda le migliaia di soldati borbonici (sembra siano stati almeno 70.000) morti nei primi lager della storia europea (molto tempo prima dei più famosi Auschwitz o Dachau!), che venivano deportati a Genova e da lì smistati nei vari campi di concentramento. A Fenestrelle coloro che si rifiutavano di rinnegare il giuramento a Francesco II, venivano spogliati, imprigionati e, malnutriti com'erano, una volta morti venivano sciolti nella calce viva. Ecco, io questa non la definirei "unificazione", ma "eccidio". Ancor più grave se ad essersi macchiati le mani di sangue sono stati quelli che avrebbero dovuto essere loro "fratelli".
Nessuna vena di
rimpianto, dunque, per il Regno delle Due Sicilie, né nostalgia (nel senso proprio greco del termine: nóstos
= ritorno), giacché non si può avere voglia di tornare a qualcosa
che non si è nemmeno vissuto. Da donna del XXI secolo, italiana e cittadina
europea, ex-universitaria che è vissuta per anni a contatto con il resto
d’Italia (che amo e stimo proprio per la sua diversità e per la ricca varietà
di cultura, tradizioni e stile di vita), non sono di certo neoborbonica, né
potrei esserlo. Ciò che sento, e che credo debba essere l’intento che muove
ogni studioso e ogni singolo uomo, è un grande desiderio di Verità.
Valeria Bongiovanni
Salve signora Valeria, complimenti a lei ed al signor Di Gregorio, per il vostro bagaglio culturale e le vostre riflessioni. Nel merito dell'articolo, non oserei nemmeno entrare, sia per mancanza di conoscenza dei fatti specifici, sia perchè ciò che conosco, non è altro che ciò che viene insegnato nelle scuole, etichettato ovviamente come verità. Proprio su questo vorrei porre l'attenzione, la verità diventa ciò che la scuola ci insegna o un'istituzione, ciò che la cultura, la famiglia o la religione tramanda, la verità è ciò che si trova nei documenti e viene filtrato dalla nostra mente e dalle nostre conoscenze, verita è quella sua signora Valeria, altresì verità è quella del signor Di Gregorio. Detto ciò mi chiedo, facendo mie le famose parole di Ponzio Pilato, di fronte ad un'altra verità, "quid est veritas?"
RispondiEliminaGentile lettore,
RispondiEliminagrazie per i complimenti e per il suo commento. La ricerca della verità è una vocazione che attraversa i secoli e il tempo e nella veste di varie discipline (dalla geografia alla teologia, dalla scienza alla filosofia) l'uomo mira a fare chiarezza sull'universo che lo circonda. Credo che la ricerca della "verità" sia una delle vie maestre per il conferimento di senso all'esistenza. La parola "verità" deriva da una radice indoeuropea "vrta" = 'scelto' 'selezionato', ed è vero che talvolta non ce n'è una sola, ma tante; come uno che nel buio decidesse di volta in volta con una torcia di far luce ora su questo ora su quell'altro dettaglio. Ma, come diceva Leonardo Sciascia "UN FATTO E' UN FATTO", e nel caso della Storia, che DEVE essere descrizione oggettiva di fatti avvenuti, verità è ricostruzione di fatti attraverso fonti e documenti. Può accadere che essi siano andati perduti, ma nel caso del Risorgimento essi sono stati in parte segretati (ve ne sono migliaia protetti dall'Archivio dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito) e tutt'oggi è impossibile consultarli; in parte sono stati distrutti, come quelli che portava Ippolito Nievo, custode dei resoconti contabili e amministrativi della spedizione dei Mille e del governo garibaldino in Sicilia. Quest'uomo, scrittore meglio noto come l'autore de "Le confessioni di un italiano", il 4 marzo 1861 portava a Napoli a bordo di una nave le prove di ciò che era accaduto in Sicilia. La nave fu affondata e lui stesso perse la vita. Negli anni '60 si scoprì che essa non era affondata per una tempesta, come fu fatto credere, ma aveva un buco nella carena e il baule contenente i documenti era vuoto: erano stati rubati. Ancora nel 1912 Giolitti raccomandava "molta prudenza nell'aprire gli archivi del nostro Risorgimento" poiché "non è bene sfatare leggende che non sono belle". Ecco, noi non vogliamo leggende, perché uno Stato è come un uomo: deve camminare in avanti, ma può farlo solo sapendo chi è e cosa è stato. Solo così il futuro è nelle sue mani.
Salve signora Valeria, non mi deve ringraziare, prendo solamente atto di ciò che scrive e le riconosco la meticolosità, la preparazione e la cultura annessa all'argomento, frutto sicuramente di una approfondita ricerca, sua e del signor Di Gregorio.
RispondiEliminaDetto ciò, mi perdoni se sposto di nuovo l'attenzione sul punto focale della mia domanda. Non voglio entrare nel merito della storia del risorgimento o altro, la mia domanda era "quid est veritas?" Se faccio riferimento al mio vissuto posso dirle che, un evento ha delle dinamiche che portano ad un fatto, nei documenti, negli scritti, nei giornali, viene attestata un'altra "verità", in modo tale che chi legge e non è a conoscenza delle dinamiche reali, acquisce ciò che legge e/o ciò che trova nei documenti come verità, ma come può dirsi tale se non la si è vista con i propri occhi? Come può dirsi tale, anche se si vede, se non se ne conoscono le vere motivazioni? Un proverbio arabo dice che: "la verità è come uno specchi in frantumi, del quale ogni persona che ne raccoglie un frammento crede di averla per intero", quindi la verità non la si raggiunge con dei documenti o altro in modo frammentario, ma in primis vivendo ed avendo chiare le dinamiche che intercorrono nei processi che si studiano e dei quali si cerca di dare un'interpretazione, chiamata verità. Non solo riguardo il risorgimento, ma molti altri fatti a noi pure vicini, vanno nella tomba con i custodi dei segreti, ciò che viene affidato ai documenti, alle carte etc, mi creda è solo una piccola parte di verità, il resto vine lasciato alla fulgida fantasia ed ipotesi dei vari adetti. Molte religioni, scienze, eventi e storie varie si basano su falsità (moderne fake news) alle quali si da il titolo di verità. Galileo fu costretto a ritrattare le sue teorie, poichè i documenti sacri ed ufficiali di allora, la verità incontestabile diceva una cosa, che andava a cozzare con la realtà.
Leggendo i vostri articoli, volendo "filosofare" trascendendo in merito la discussione, mi chiedevo fra me e me, domandando a voi, chi ha ragione, chi dice la verità? Se interropghiamo un cristiano ed un musulmano, entrambi sono nel giusto ed hanno la verità in mano, ma cos'è la verità, carissima signora Valeria? Non sono forse le persone con la verità in mano, ad esser le più pericolose, quelle che uccidono in nome di essa? Non sono le persone che si credo nel vero a condannare e screditare gli altri? La persona che vive nel dubbio, non condanna e non uccide, bisogna scendere dal piedistallo delle convizoni storiche, religiose, politiche etc e non adagiarsi su di esse, ma nella saggezza del dubbio, vivere e spronarsi per andare avnti, d'altronde anche la fisica quantistica ad oggi attesta che un fenomeno non esiste di per sè, ma varia in base all'osservatore, quindi di assoluto, di certo, da qualunque fonte provenga, non c'è nulla, tranne che non vogliamo convincere noi stessi.
Detto ciò mi perdoni per i miei voli pindarici, mi scuso se mi sono intromesso in una discussione specifica ed ho fuorviato l'argomento. Ovviamente ciò che scrivo, in primis, per me non è un dogma, ma il mio punto di vista, prettamente personale, istintivamente leggendo ciò, mi sorgeva questo dubbio che ho voluto porre alla vostra attenzione, "quid est veritas?"
Gentile "Anonimo" Vuole provare lei a rispondere? La sua "intrusione" , per la verità, (scusi il facile gioco di parole), è stimolante. Per rispondere alla sua domanda si può pensare che nessuno dei due abbia ragione. Vuole provarci lei, e dirci, in generale, "quid est veritas?" Oppure dobbiamo ritenere che tutto è relativo e niente è veramente conoscibile?
EliminaSalve, la ringrazio per la sua risposta, mentre per la sua domanda, qualora rispondessi in modo dogmatico, entrerei in contraddizione con quanto detto prima. Posso risponderle in modo prettamente personale, posso dirle il mio punto di vista, ciò su cui ho riflettuto tanto. A mio modico parere, ciò che si chiama verità è sempre e comunque relativo, spesso nemmeno chi compie un'azione è cosciente della "verità" delle sue azioni, le vere motivazioni che spingono all'agire, detto ciò come può capire un altro che guarda esternamente? Non saranno interpretazioni o inferenze, che cambieranno anche nel soggetto, dipende dal suo stato d'animo e dai propri schemi mentali e dlle proprie conoscenze. Oppure potrei conevncirmi di una verità religiosa, politica, culturale, etc. Ciò che le scrivo non è verità, ma il mio punto di vista frutto del mio vissuto. Chje tutto sia relativo, che male c'è (qialora sia vero?) o dovrei forzare la "verità" a scendere alle mie convinzioni e creare noi e gli altri? Preferisco vivere nel dubbio e nel rispetto altrui, poichè come me, espone dei punti di vista frutto del suo vissuto, quindi siamo uguali in ciò, non abbiamo ne torto nè ragione, ciò che dico non è più vero di ciò che dice lei, la signora Valeria o chicchessia, infatti chiedevo solo un parere in merito, non parlo ex cathedra, non ho nulla da insegnare a nessuno e credo che "socraticamente" ognunoi debba partorire le proprie convinzioni, etichettandole come verità assoluta si è ad un passo dall'estremismo. Forse, le ripeto, sono uscito un pò fuori dal seminato, ho acquisito molti dati importanti, molte nozioni e informazioni utili, altresì ho voluto attenzionare una parte del discorso che mi è balzata nella mente, chiedendo pure a voi cosa ne pensavate, non per provocare, nè per ricevere verità assolute, ma solo per capire ulteriormente. Ho voluto restare anonimo, solamente per non condizionare chi legge, poi per il resto se ho sbagliato in qualcosa, se mi sono espèresso in malo modo, non esprimendo bene il pensiero, chiedo scusa e vi ringrazio per la cortese attenzione ed il proficuo dialogo. Per il resto complimenti per il vostro lavoro ed il vostro operato!
RispondiEliminaApprezzo molto il suo tono garbato e i suoi modi socratici in termini maieutici nel voler sollecitare sia Valeria Bongiovanni quanto Di Gregorio a riflettere sulla sua domanda, alla quale mi auguro rispondano, magari più agevolmente, con un articolo. Lei non ha sbagliato e non è stato interpretato male. Sarei anzi contento se vorrà intervenire con più compiutezza, su questo o su altri temi di suo interesse, direttamente scrivendo nel blog. Può mettersi in contatto utilizzando il “modulo di contatto” (in alto a destra) o se preferisce scrivendo un email a: amicibiblioteca100@libero.it
RispondiEliminaIl suo indirizzo resterà assolutamente riservato e se vorrà potrà utilizzare un nom de plume.
Salve, sono io a ringraziare voi per la cortese e stimolante discussione. Certamente coglierò il suo invito a scrivere sul blog, ovviamente, come dice lei, in modo più compiuto. Non appena sarò nuovamente "ispirato", sarà mia premura farvi pervenire il tutto, in modo da esser vagliato e qualora lo riteniate opportuno, pubblicarlo sul vostro blog.
RispondiEliminaNel frattempo vi rinnovo i miei più sinceri complimenti, per il vostro lavoro e le vostre ricerche e vi ringrazio per il proficuo dialogo!
Gentile lettore,
RispondiEliminami scuso se la mia risposta si è fatta attendere, ma sono stata in viaggio e in quei momenti per me il mondo parallelo di Internet non esiste.
Immaginiamo che la Vita sia una campagna sterminata, la cui estensione a perdita d'occhio ci circonda costantemente. Ecco io credo che la Verità sia il sentiero che ognuno di noi decide di tracciare su quella distesa e su cui decide di allungare i suoi passi. Non si deve essere estremisti, ma una posizione bisogna prenderla. Il dubbio è divino perché ci permette di sollevarci oltre le apparenze e le verità propinate dagli altri, ma bisogna tracciare da sé una via, altrimenti il nostro percorso nel mondo è un vagabondare, non un viaggiare. Il tutto sempre nel rispetto dei sentieri che coloro che sono accanto a noi si sono tracciati. La crisi del mondo contemporaneo è data proprio dal fatto che il relativismo ha permeato fino all'osso le nostre convinzioni, e il disorientamento che si percepisce è spaventoso. Diceva Pirandello "Guai se non vi tenete forte a ciò che vi par vero oggi, a ciò che vi parrà vero domani, anche se è l'opposto di ciò che vi pareva vero ieri!". La verità è la nostra zattera sull'oceano della vita, caro lettore. E se ognuno di noi non sale sulla propria, qualcun'altro lo trascinerà sulla sua o l'oceano lo inghiottirà.
Ciò vale per la Vita. La Storia, invece, è una concatenazione di cause ed effetti e dunque una verità esiste eccome! Che poi ognuno la vesta a proprio favore come con un costume di carnevale, questa è altra storia.
Grazie per il suo dialogo maieutico
Signora Valeria,
Eliminanon deve scusarsi di nulla, anzi il dialogo è stato molto proficuo e costruttivo, ergo grazie a lei!
La sua risposta, mi ha suscitato alcuni dubbi, che per la lunghezza degli stessi, proverò a scriverle in un post.
Sperando che il nostro dialogo non si fermi solamnete alle nostre vedute, ma possa esser arricchito da chiunque abbia il piacere di farlo.
Grazie ancora ed una buonanotte!
Con vero piacere, caro lettore. Attendo con ansia i suoi nuovi spunti.
EliminaVB
Il piacere, carissima signora Bongiavanni, è reciproco! A prestissimo!
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