20 gennaio 2018

CARCÀRI E CIARÀMITARU DI PIETRAPERZIA di Giovanni Culmone - 3^ Parte



I Tortorici a Pietraperzia



Padre Dionigi, storico locale, a pagina 340 del suo libro “Pietraperzia dalle origini al 1776”, nel capitolo dedicato a “Miracoli e Grazie concessi da Dio a’ Petrini ad intercession di Maria della Cava” riporta che Giuseppe Tortorici la mattina del Lunedi 20 Agosto 1775:

 «...portatosi al proprio forno delle tegole, ossivvero canali, non lungi da Pietrapercia, scesevi ad oggetto di ripulirlo, e situarvi le tegole crude: A pena cominciato aveva a sterrare, che sconquassato da ogni lato il forno di altezza 22 palmi circa, restò senza poterne uscire, sotto palmi ormai nove di sterro massiccio, dicendo solamente: “Maria della Cava ajutatemi”. Fu innumerabile la gente, che di ogni condizione, e sesso concorse ad un avviso così lagrimevole: iva la Genitrice con la famiglia del Turturici: ma giunta costei avanti la Chiesa di S. Domenico; (la chiesa del Rosario) incontrò chi l’esortasse a ritornar a casa per prepararla col solito lutto, come praticò, giacché (naturalmente discorrendo) il di lei figliuolo era d’un subito morto. L’Ingegniere dell’Università M. Giuseppe Fiore con altri Fabbri, e Manuali corse frettoloso più d’ogni altro, qual affine del Turturici, acciocché facendo scavar la terra, ritrovasse tantosto il Cadavere, per compiere la di lui funebre scena. Ed oh portento! Dopo tre ore, dacché toglievano sterro, udirono un affannoso sospiro, che tutti atterrì. V’era tutta la ciurmaglia, che lo raccomandava alla nostra Imperadrice, e vieppiù incalzavano le preghiere. Alla fine dopo altra ora e mezza, eccovi affacciar il capo quel creduto estinto, che altro non disse: “Viva Maria della Cava”. Lo presero intanto con grandissimo giubilo, rendendo lode alla divina liberatrice, e condottolo a casa vidde a occhi aperti sua madre, che con i suoi piangevalo, come Defonto colle mura della casa vestiti di lutto. Vi fu chi de’ fisici consigliò di doversi porre dentro un Crasto: Ma l’accorto Giovine volendo tutto il miracolo attribuire alla Regina della Cava, rifiutò con quella ogn’altra medicina, andando poco dopo per le strade a publicarlo col silenzio medesimo».

È certo che l’evento descritto e circostanziato, miracolo o meno, riguardante Giuseppe Tortorici tegolaio è una testimonianza storica ed evidenzia l’esistenza dell’industria della terracotta a Pietraperzia almeno dai primi anni del 1700.
Giuseppe Tortorici, rimasto sotto 2 metri (9 palmi) di macerie della fornace era nato il primo Giugno del 1752 e alla data dell’incidente era scapolo di 23 anni.
Essendo figlio d’arte il mestiere di tegolaio si può far risalire quantomeno al 1708 anno di nascita del padre.
Dalla descrizione si apprende, tra l’altro, la fornace era alta m. 5,72 (22 palmi circa, un palmo misura cm. 26), dimensione ben compatibile con le conoscenze e i riscontri attuali, cosa che avvalora e rende molto credibile la testimonianza.
È evidente che per continuare l’attività Giuseppe ricostruì la fornace e due anni dopo il 5 novembre 1780 sposò Anna Maria Puzzo da cui ebbe Vincenzo nel 1787 e Stefana nel 1789, morì il 23 marzo 1806 lasciando l’attività ai due figli ancora minori.
Il figlio Vincenzo nel 1827 sposò Rosaria Costa ed a seguire gli eredi diretti Gaspare del 1841, Giuseppe del 1891, Gaspare del 1921 e Giovanni continuarono l’attività artigianale fino alla chiusura dell’azienda avvenuta alla fine degli anni 1950.
Stefana, comproprietaria dell’azienda, nel 1808 aveva sposato Liborio Sollima da cui ebbe un’unica figlia sopravvissuta che appena sedicenne diventò moglie di Calogero Napoli che da neo proprietario continuò l’attività della terracotta a fianco dei Tortorici.
Rosaria Sollima figlia di Stefana Tortorici e moglie di Calogero Napoli muore il 7 Luglio del 1890, si può dire, alle soglie del XX° secolo.




I NAPOLI CO-GESTORI DELL’INDUSTRIA DELLA TERRACOTTA

Nella seconda metà del 1700 e fino ai primi anni del 1800 arrivavano a Pietraperzia molte famiglie provenienti da ogni dove perché attratti, oltre che dal clima salubre, dalla nomea di benessere che ne derivava da un vasto territorio agricolo molto fertile e produttivo. Ed è in questo contesto che Giovanni Napoli, proveniente da Licata, figlio di Giuseppe ed Agata, il 25 Maggio del 1806 sposa la pietrina Biagia Costa. Rimasto vedovo, il 27 aprile del 1815 si risposa con Maria, sorella minore della prima moglie. Nato a Licata nel 1784, muore a Pietraperzia all’età di 45 anni circa, dopo avere messo al mondo 8 figli di cui Vincenza che sposerà Salvatore Ferrugia, anche lui immigrato, proveniente da Campobello di Licata.
I figli maschi Antonino, Calogero e Giuliano sposano a Pietraperzia e originano tre lunghi filoni i cui eredi arrivano ai nostri giorni. Pare che i primi Napoli che si riscontrano a Pietraperzia, a partire dal 1711, non appartengano ai filoni originati da Giovanni.
Calogero, come già detto, appena ventenne, sposa Rosaria Sollima sedicenne, figlia di Stefana, Sorella di Vincenzo Tortorici, e come marito di Rosaria si ritrova comproprietario della fornace.
Da questo momento a Tortorici si affianca il Napoli e i neo proprietari benevolmente si assegnano gli immobili e così le aziende diventano due con ragioni sociali diverse.
Nel caseggiato ogni famiglia disponeva di locali propri d’adibire allo stoccaggio e alla messa in sicurezza dei manufatti da cuocere e di altri locali abitativi per le esigenze più immediate che a volte utilizzavano come dimore fisse. Ognuno dirigeva la propria azienda, disponeva di uno spiazzo davanti al caseggiato, di una fornace e di un pozzo nella zona per cavare l’argilla necessaria alla lavorazione.


ESTRAZIONE E LAVORAZIONE DELL’ARGILLA

I pezzi d’argilla, scavati nei pozzi non molto profondi, 2, 3, 4 metri, a secondo la convenienza, si lanciavano fuori per essere poi raccolti. A volte si portavano a spalla, dentro coffe, contenitori realizzati con palma nana siciliana, ragionevolmente maneggevoli, a volte con l’utilizzo di scale a pioli, venivano portati fuori a passamano per poi essere trasportati nello spiazzo per l’esposizione al sole.
Tutta l’argilla essiccata, poi ridotta quasi in polvere con l’aiuto di mazze di legno, màzzi, liberata da eventuali corpi estranei, conchiglie ed altro, si versava in contenitori, poco profondi 50/80 centimetri, scavati a terra, vi si versava acqua, fino a coprire di 3 o 4 centimetri il tutto e vi si lasciava macerare. Al momento opportuno, uno degli addetti, munito di pantaloncini corti o di sole mutande, entrava in buca e affondava i piedi nudi nell’argilla a ritmo costante, fino ad ottenerne un pastone omogeneo, indurito al punto giusto con l’aggiunta di altra argilla in polvere, fino a renderlo pronto per la lavorazione.


NASCITA DI UNA TEGOLA

Si portava sullo spiazzo dell’azienda il banco per la lavorazione: un normale tavolo di legno su cui erano adagiati: a destra dell’operatore il pastone d’argilla che si rimpinguava di continuo; a sinistra lo stampo in legno con manico mòdulu, poggiato su quattro mattoni pieni; fuori dal tavolo, più in basso, poco sollevato da terra, un recipiente con acqua. A centro del tavolo, tra il pastone e lo stampo mòdulu, vi si spargeva una manciata di cenere e un pugno di polvere d’argilla, per non fare attaccare la pasta della lavorazione al piano del tavolo. Vi si adagiava la finèstra, un telaio di circa 55 x 35 spesso 2 e con bordi che non superavano i 5 centimetri dotato di un anello di cordicella scorrevole lungo tutto il perimetro.
L’operatore, dopo avere prelevato, la giusta quantità d’argilla, la spingeva con forza nella finèstra, la livellava con un’assicella di legno, togliendo la parte in esubero, immergeva le mani nell’acqua del recipiente predisposto, si liberava dai residui d’argilla e con le mani bagnate rendeva perfettamente liscia la superficie visibile. Con molta perizia e bravura sollevava la finèstra con tutto il contenuto e dopo averlo sistemato al punto giusto sulla forma mòdulu, procedeva al taglio facendo scorrere l’anello di cordicella lungo il perimetro della finèstra.


La sfoglia ottenuta si adagiava sullo stampo mòdulu e ne assumeva perfettamente la forma. L’occhio esperto dell’operatore dava gli ultimi ritocchi, modificando qualcosa all'occorrenza, e poi, sempre con mani bagnate, rendeva perfettamente liscia la superficie visibile. 


Ultimate tutte le operazioni di rifinitura, sollevava il tutto, si portava sullo spiazzo e sfilando lo stampo mòdulu poggiava la tegola a terra e la lasciava ad asciugare. Tutte le tegole già asciutte venivano ben conservate fino al raggiungimento del numero che poteva contenere la fornace.
Una pioggia improvvisa sulle tegole esposte al sole sarebbe stata una vera iattura: avrebbe annullato il duro lavoro e cancellato tanti bei sogni perché avrebbe afflosciato tutto a terra e reso ogni manufatto irrecuperabile.

Giovanni Culmone

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