Un libro di ANNA MAROTTA,
Giambra Editori,
prima
edizione giugno 2018.
Come dimostrano i dati del mercato editoriale italiano
degli ultimi anni, i piccoli e medi editori crescono dimostrando serietà e
vivacità culturale, certamente salutari in un panorama spesso viziato dal
conformismo. E proprio da questi editori coraggiosi ci arrivano autentiche
perle come questo libro di Anna Marotta dedicato al famoso bandito Testalonga. Il saggio nasce come Tesi di laurea dal titolo
"Il bandito Antonino di Blasi alias Testalonga" (1728-1767), a
conclusione del corso di laurea in Filologia Moderna, conseguito nel 2016 con
il massimo dei voti e la lode presso l'Università degli Studi di Catania. Il
valore aggiunto del libro consiste nell'aver coniugato il rigore delle fonti
con lo stile narrativo. Lo storico/detective dovrà dipanare un'intricata
matassa, dove non solo storia e leggenda sono intimamente intrecciati, ma dove
il confine tra legge e fuorilegge risulta, come vedremo, assai labile.
Per prima cosa, l'Autrice descrive il contesto storico, politico e sociale nel quale il protagonista, anzi, i protagonisti si trovarono a vivere ed operare: il bandito Testalonga, il suo "antagonista", il viceré Fogliani, i nobili, il popolo e colui che nel libro viene chiamato "l'alter ego" del bandito, che "nel tormentato inseguimento tra guardia e ladro , si scontrò con qualcosa più grande di lui che non avrebbe mai immaginato", il principe di Trabia Don Giuseppe Lanza, nominato Vicario dal viceré con l'incarico di catturare Antonino di Blasi e la sua banda.
Per prima cosa, l'Autrice descrive il contesto storico, politico e sociale nel quale il protagonista, anzi, i protagonisti si trovarono a vivere ed operare: il bandito Testalonga, il suo "antagonista", il viceré Fogliani, i nobili, il popolo e colui che nel libro viene chiamato "l'alter ego" del bandito, che "nel tormentato inseguimento tra guardia e ladro , si scontrò con qualcosa più grande di lui che non avrebbe mai immaginato", il principe di Trabia Don Giuseppe Lanza, nominato Vicario dal viceré con l'incarico di catturare Antonino di Blasi e la sua banda.
Nella Sicilia del Settecento si susseguono ben quattro
dominazioni: quella spagnola, sabauda, austriaca e infine borbonica, ma per i
siciliani cambiava poco o nulla essendo semplici pedine nelle mani dei potenti
e succubi di un sistema dove imperavano i privilegi e gli abusi nobiliari e
l'oppressione tributaria e dove anche la natura faceva la sua parte con
catastrofi, epidemie e carestie di raccolti, come la crisi del grano del 1763.
Sono proprio gli anni in cui il di Blasi si diede alla macchia. Intanto, una precisazione
terminologica e storica: banditismo e brigantaggio sono due fenomeni diversi,
anche se spesso vengono confusi. Tra il Cinquecento e il Settecento venivano
chiamati "banditi" coloro che erano colpiti dal bando, cioè da un
decreto di espulsione dalla comunità; il brigantaggio fu fenomeno successivo e
più complesso, che interessò migliaia di persone che non possono essere
sbrigativamente e sommariamente liquidate come "delinquenti", ma che
ebbe il carattere di una vera "insorgenza", dapprima contro i francesi
e il giacobinismo e che esplose soprattutto dopo il 1860 contro uno Stato che
evidentemente in troppi percepivano come oppressore e invasore. Contro banditi
e briganti il potere rispose con una repressione cieca e selvaggia, fatta di
torture, esecuzioni sommarie, teste mozzate e corpi smembrati. Una triste
pagina di storia che solo di recente è stata raccontata anche "dalla parte
dei vinti". L'altra faccia di questa feroce repressione era rappresentata
dal compromesso, dallo scendere a patti con i malviventi da parte di molti
settori "altolocati" della società.
Antonino di Blasi nacque il 19 febbraio 1728 a Pietraperzia. Ultimo di sette figli, crebbe in un ambiente povero
e privo d'istruzione. A soli 15 anni sposò Antonia Anzaldo che di anni ne aveva
addirittura undici. Non sappiamo esattamente che lavoro facesse il giovane
sposo, comunque per un certo tempo cercò di sbarcare il lunario. Poeti,
romanzieri e cantastorie hanno tramandato il momento in cui Antonino si diede
alla macchia. Lo fece dopo aver ucciso il bargello (nome con il quale si
indicava il capitano militare addetto all'ordine), perché questo gli aveva
assassinato la madre. Una "romantica leggenda" come la definisce Anna
Marotta, che non trova riscontri oggettivi poiché si è potuto appurare
dall'archivio della Chiesa Madre di Pietraperzia che la madre morì quando
Antonino aveva tra i tre e i quattro anni. L'idealizzazione del bandito come
una specie di Robin Hood che rubava ai ricchi per dare ai poveri, anche se
priva di prove che ne dimostrino la veridicità, risponde pienamente all'anima
di un popolo assetato di riscatto e di giustizia. "La leggenda - scrive
Marotta - diventa uno specchio riflettente di quei difficili anni, anche perché
i bargelli, così come i gabelloti e i campieri, rappresentavano gli emissari
dei "nobili" feudatari e loro erano i fautori delle peggiori barbarie
a danno del popolo" Plausibile è la notizia secondo cui Antonino di Blasi
scontò tre anni di carcere ad Agrigento per aver rubato un bue. Rimesso in
libertà incrociò il suo destino con quello dei compagni di (s)ventura Giovanni
Guarnaccia di Pietraperzia e Antonio Romano di Barrafranca. Insieme
organizzarono una temibile e numerosa banda i cui primi movimenti sono
attestati, come si evince dal fondo Trabia presso l'archivio di Stato di
Palermo, a partire dal 1766. Il primo luglio di quell'anno l'Avv. Fiscale Don
Giuseppe Iurato scrive al viceré Fogliani mettendolo in guardia sulle malefatte
della banda ed invocando i necessari provvedimenti. Viene subito promulgato un
bando con cui si mette una taglia di cento onze sui tre principali capi della
banda: Testalonga, Guarnaccia e Romano. Da questo momento non sono più semplici
ladri, ma "abbanniati", banditi. L'attività principale della banda
consisteva nell'assaltare le masserie ed estorcere ai benestanti il denaro con
cui Testalonga creò una fitta rete di complicità, anche ad alti livelli, tanto
da dimorare tranquillamente presso nobili ed ecclesiastici. Alla banda viene
attribuito un solo omicidio, quello del Tenente dei barrigelli di Butera, ma
non imputabile al Testalonga. In seguito al bando, il Guarnaccia si separò dal
resto della banda seguito da tre compagni, ma nel mese di ottobre vennero
catturati a Regalbuto e il 10 novembre furono impiccati a Palermo nella Piazza
della Marina. Testalonga, Romano e gli altri, per nulla intimoriti,
continuarono le proprie scorribande assaltando feudi e masserie. Ed ecco
entrare in scena Don Giuseppe Lanza Principe di Trabia che, come abbiamo già
detto, viene nominato Vicario Generale Viceregio. Una volta ricevuto l'incarico
dal vicerè, egli organizzò il suo quartier generale a Mussomeli e promulgò
subito un bando nel quale si fissava la taglia per ciascun bandito. Deciso a
stroncare l'attività della banda, il Vicario inviò corpi armati a perlustrare
campagne e grotte e non esitò ad assumere come spie e capitani elementi della
malavita. Dai suoi informatori e dalle numerose lettere anonime ricevute, Don
Giuseppe Lanza compilò una lista dei complici e protettori del Testalonga, ai
quali intimò di consegnare il bandito vivo o morto. Siamo all'epilogo della
storia. Il 18 febbraio 1767 Testalonga e il suo fedele compagno Romano, in
seguito ad un conflitto a fuoco, vennero catturati in una grotta nei pressi di
Castrogiovanni (l'attuale Enna), traditi proprio dai principali protettori, i
baroni fratelli Trigona di Piazza. Di Blasi e Romano, insieme ad altri
componenti della banda, vennero portati a Mussomeli, torturati e condannati
alla forca, sentenza eseguita il 7 marzo 1767. L'indomani i corpi vennero
squartati e le teste tagliate, quella del di Blasi portata come trofeo a
Palermo, la testa di Romano venne esposta a Barrafranca. Un potere corrotto a
tutti i livelli si accanisce in modo barbaro sui cadaveri, ma nessuno dei
numerosi protettori, prima additati dal Vicario, venne punito, anzi,
intascarono riconoscimenti e ricompense. E allora, la domanda che più volte
emerge scorrendo le pagine del volume, risulta pienamente legittima:" CHI
SONO I VERI BANDITI?".
Anna Marotta ha compiuto un lavoro straordinario, da
vera storica/detective ha consultato le carte con pazienza certosina (un intero
capitolo è dedicato agli Archivi) restituendoci nella sua interezza la figura
del bandito Testalonga e la sua epoca. Un libro che non può mancare nella
biblioteca di ogni studioso o semplice appassionato della nostra storia.
Salvatore Marotta
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