01 ottobre 2019

Clarissa Pinkola Estés e la sua interpretazione di Barbablù di Charles Perrault




Trama Barbablù: Barbablù è un uomo ricco e crudele, che ha avuto sei mogli che sono improvvisamente scomparse. Nonostante il suo passato ombroso, riesce a sposarsi con la figlia più giovane di una dama sua vicina, anche grazie all'ostentazione delle sue grandi ricchezze. Non passa molto tempo che Barbablù annuncia alla moglie di doversi assentare per almeno sei settimane, per questioni di lavoro. Prima di partire, egli la guida attraverso l'intera villa, mettendole a disposizione ogni cosa e consegnandole il mazzo con tutte le chiavi della casa. Lei è libera di usare tutto, di aprire tutto, di andare dappertutto tranne che oltre la porta della camera segreta aperta da una particolare piccola chiave che Barbablù le mostra. (fonte Wikipedia)

Non ho mai letto la fiaba “Barbablù” di Charles Perrault ma sono rimasta affascinata dall’interpretazione che la scrittrice Clarissa Pinkola Estés dà ai suoi protagonisti. Ne parla nel libro “Donne che corrono coi lupi”.
La scrittrice vede nel personaggio di Barbablù l’uomo nero che abita la psiche di tutte le donne e nella favola l’intera rappresentazione del dramma che la donna vive.
La donna, giovane sposa, che non ha ancora imparato bene a riconoscere il predatore.
Una donna giovane che non ha ancora la chiave per capire che il suo sposo, con il “permesso” datole di poter fare quello che vuole all’interno della dimora, in realtà la sta tenendo prigioniera. Deve semplicemente attenersi ad una sola regola, non aprire una porta, così facendo limita la donna perché le impone di non dare ascolto alla sua indole che è sempre alla ricerca della verità.
“Barbablù proibisce alla giovane donna di usare quella chiave che la porterebbe alla consapevolezza” cit. Barbablù
Una donna consapevole delle sue capacità è una donna capace di superare qualsiasi avversità.
La consapevolezza che permette di scoprire «quello che sta sotto» che vuol essere tenuto nascosto.
E una volta aperta quella porta e svelato il mistero, la donna deve affrontare l’uomo nero che abita nel suo inconscio. Una volta affrontato e sprigionata dalla sua presenza avrà finalmente conosciuto la sua natura combattiva che dà alle donne la consapevolezza di possedere un’energia tremenda.




Ilaria Matà




21 settembre 2019

MERAVIGLIE alla scoperta della penisola dei tesori di ALBERTO ANGELA


Un articolo di Emiliano Spampinato


Dalla maestosità delle Dolomiti alla scabra magia dei Sassi di Matera, dalle immense pietre dei nuraghi sardi alla Valle dei Templi siciliana, dalla rappresentazione ricca di simboli del Cenacolo di Leonardo, a Milano, alla Reggia di Caserta, in Italia le meraviglie sono ovunque. Non mancano le città d'arte, ma neppure gli splendidi scenari naturali. Ci sono alcune delle destinazioni più famose al mondo, come Firenze, Venezia o le Cinque Terre; e poi ci sono le perle nascoste, autentiche bellezze poco frequentate dai turisti, come il Pozzo di San Patrizio a Orvieto, il Labirinto di Fantanellato, la Laguna veneta o il Lago di Fusaro.
Luoghi che raccontano di un passato glorioso e di uomini e donne che hanno fatto la Storia. Se ci soffermiamo a riflettere, scopriremo che non esiste un secolo in cui in Italia non sia stato creato qualcosa di incredibilmente prezioso.
A essere dichiarati dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità sono stati finora ben cinquantacinque siti in Italia, tantissimi considerate le dimensioni del nostro territorio, una densità che non ha eguali in nessun altro Paese del mondo.
Questi siti esprimono la nostra storia comune, la diversità delle culture, la relazione fra l’uomo e l’ambiente naturale. Rappresentano l’anima e la memoria delle popolazioni e dei territori che le esprimono.
Affermano il valore universale della bellezza e della curiosità, che è la nostra grande ricchezza.
Il nuovo libro di Alberto Angela: "MERAVIGLIE alla scoperta della penisola dei tesori" è il frutto diretto del programma tv e racchiude tutto il bagaglio d’informazioni, esperienze, racconti e curiosità raccolte durante le riprese e la preparazione della serie televisiva "Meraviglie". Si basa sul lavoro corale che ha impegnato per tanti mesi tante straordinarie professionalità nella produzione del programma e nella sua post-produzione.
Un lungo viaggio attraverso l'Italia con la troupe della Rai che ha percorso oltre 10mila chilometri da Nord a Sud. Dai tesori sommersi nel mare di Baia ai mosaici bizantini di Ravenna (170mila abitanti, otto siti), dalla corte di Federico da Montefeltro agli splendori dei Gonzaga, dal barocco di Lecce a quello dei luoghi di Montalbano, in Val di Noto. E poi Roma con i segreti di piazza Navona fino alle glorie del Teatro San Carlo a Napoli.
Ogni monumento viene premiato perché è frutto di una tradizione locale - dice Alberto - ovunque ci sono capolavori, noi stessi abbiamo avuto difficoltà a sceglierli, abbiamo spaziato dal Nord ai paesaggi di Montalbano. Quando ci si trova di fronte a un capolavoro, si resta a bocca aperta, ma noi abbiamo a disposizione una serie di capolavori, la cultura diventa una sinfonia. Credo che questo programma, più che darci l'orgoglio di essere italiani, ci dia un'identità, ci racconta quali sono le nostre radici, ma soprattutto ci spinge a pensare di dover difendere quello che abbiamo. Angela non si ferma: scala il Monte Bianco e va alla scoperta delle Grotte di Frasassi, una meraviglia naturale. "È la mia regola, esplorare i luoghi - racconta - muovendomi sempre, perché il pubblico non si annoi. Dalla Sardegna ad Amalfi, poi Parma, Ragusa, Mantova, Urbino. Ogni pietra racconta una storia, penso che la cosa più bella del mondo sia viaggiare e non smettere di essere curiosi".
Lui, che da ragazzino ascoltava i racconti del padre come se fosse il suo Salgari, oggi ha messo la curiosità al servizio della divulgazione.
Ho viaggiato in tutto il mondo- spiega Alberto - e proprio per questo dico che l'Italia è un Paese tutto da scoprire. Spesso andiamo all'estero a cercare la bellezza e non sappiamo di averla a portata di mano. Val di Noto col suo barocco color miele mi ha colpito, mi ha emozionato la Sardegna, il museo di Cagliari è tutto da scoprire”.
Sul libro si trovano le foto e le descrizioni dei siti che sono stati esplorati, spesso considerati patrimonio dell'umanità dall'UNESCO, arricchiti da curiosità, spigolature e contenuti inediti.
Si avrà anche la possibilità, grazie al QR Code, di vedere sul nostro cellulare le immagini relative ai siti in questione e rendere in questo modo il libro e il racconto più coinvolgenti.
L’autore ha pensato di non mettere i siti in ordine geografico, come tante bandierine su una cartina, ma ha ritenuto fosse più importante metterli in ordine cronologico, partendo dalle civiltà più antiche della nostra penisola fino ad arrivare ai nostri giorni. Emerge così l'incredibile bagliore storico e culturale del nostro passato. È un valore unico su tutto il pianeta che deve servirci anche da guida per il futuro. Non sono parole di circostanza. Se vi chiedete come mai l'Italia sia l'unica nazione ad avere una televisione pubblica che mette un programma culturale sulla sua rete ammiraglia il sabato in prima serata, la risposta la troverete (anche) guardando al nostro passato e al "paesaggio" culturale che ci circonda fin dalla nascita.
Nato a Parigi nel 1962 e figlio del noto divulgatore scientifico Piero Angela e di Margherita Pastore in Angela, Alberto accompagnò spesso il padre nei suoi viaggi sin da bambino. Dopo essersi diplomato in Francia, s’iscrisse al corso di Scienze Naturali all'università La Sapienza di Roma, laureandosi infine con 110 e lode e un premio per la tesi, poi pubblicata. Continuò gli studi frequentando diversi corsi di specializzazione in università degli Stati Uniti d'America (Harvard, Columbia University, UCLA), approfondendo la paleontologia e la paleoantropologia.
È sposato con Monica Angela e ha tre figli: Riccardo (1998), Edoardo (1999) e Alessandro (2004). Parla correntemente, inglese, francese e swahili.
Alla propria attività di studioso ha fatto seguito la professione per la quale è più noto, quella di divulgatore scientifico, in particolare attraverso la televisione.
Ha realizzato in questo settore riprese e servizi in tutti i continenti, su siti archeologici e paleontologici, centri di ricerca, santuari naturalistici e anche su etnie e culture in via di estinzione. Di recente ha ricevuto la laurea Honoris Causa in Filosofia, conferitagli dall’Università del Piemonte Orientale che fa seguito a quella in Archeologia e in Comunicazione del patrimonio culturale .
Fra i suoi libri, tutti best seller tradotti in molte lingue: Una giornata nell’antica Roma, Impero, Amore e sesso nell’antica Roma, Viaggio nella Cappella Sistina, I Bronzi di Riace, I tre giorni di Pompei, San Pietro.
Acquistando questo libro si contribuisce, inoltre, al restauro di un’opera, una vera meraviglia, che è stata salvata dal terremoto del 2016 a Castelluccio di Norcia: la Madonna Adorante, risalente alla fine del Quattrocento.
È un modo anche per non dimenticare la distruzione e le sofferenze di quella tragedia.
Leggendolo e ammirando le innumerevoli immagini delle meraviglie del nostro Paese, sentirete chiaramente un potente messaggio: il nostro patrimonio è la nostra identità.

Emiliano Spampinato




16 giugno 2019

Le Ultime Parole: Un Racconto di Paolo Cortesi


per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html


Io apro la porta dell'ingresso principale dell'Hotel Majestic Royal Splendid.
In effetti, è una grande porta girevole con uno spesso vetro color brandy e tanto ottone smerigliato ai bordi; io sono lì a fianco, a destra, di questa grandiosa porta girevole luccicante; vesto una giacca bianca che sembra quella d'un capitano di marina, ma si vede subito, dall'insieme del mio abbigliamento e altro ancora, che sono un servitore: ho i guanti bianchi, i calzoni neri con un filo d'oro, un berretto a visiera dura lucida.
Sto con le mani unite, una sull'altra, posate proprio sul pube; così resto per i minuti in cui non entra nessuno e la porta compie un lentissimo giro, residuo del moto precedente.
Quando arrivano i signori, io allungo un braccio, tocco appena la porta: la rallento se il signore ha spinto troppo forte, la forzo un po' se il signore non ha spinto abbastanza.
C'è gente che dà dei colpi, preme come se dovesse abbattere un ostacolo. Altri - donne, per lo più - sembra che abbiano paura del gran vetro rotante e lo sfiorano mentre fanno un sorriso timoroso, per far vedere che se sbagliano non è colpa loro.
Appena il signore ha superato il cilindro brillante, non mi guarda più. Prima, mentre doveva vedersela con quella meravigliosa baracca dorata, aveva un po' bisogno di me, o almeno doveva riconoscere che io, se non altro per il lavoro che facevo, sull'aggeggio ne sapevo più di lui.
Così, il tipo magari mi guardava per un attimo, magari sorrideva un poco, come per dire: "siamo accomunati da quest'affare della porta rotante". Ma poi si vedeva anche sulla faccia questo pensiero: "tu sei pagato per aiutarmi con quest'aggeggio".
(Perché, son convinto, una porta rotante non è una porta qualunque, anzi non è una porta vera. La porta, da che mondo è mondo, è una tavola rettangolare che chiude o apre il varco. Ma una porta girevole non esiste in natura; mentre in natura esiste il pietrone che ostruisce la bocca della caverna, e questa è una porta a tutti gli effetti. Dunque, una porta girevole dà sempre un pochino di imbarazzo; ed è per questo che hanno inventato il mio lavoro: quello che aiuta ad usare la porta girevole. E' anche per questo che i ricchi che entrano per la gran porta girevole dell'Hotel Majestic Royal Splendid si aspettano che ci sia lì accanto uno come me che li aiuta, che sorveglia che il loro ingresso sia sciolto, disinvolto, elegante perché chi è ricco non sarà mai più goffo).
Dunque, io regolo la rotazione della porta; e non pensate che dia troppa importanza al mio ruolo perché è quello che faccio io: le porte girevoli sono davvero qualcosa di strano e complicato e ci si può chiedere perché siano il simbolo degli alberghi costosi e preziosi, dato che non sono porte facili.
Credo però che sia anche per questo che la porta girevole è dei grandiosi alberghi padronali: perché è un apparato non facile, ed io so - per anni di esperienza - che ai ricchi piace quello che sanno appare agli altri poco facile.
Un giorno pioveva. Era un temporale grandissimo, che non solo riempiva e scompigliava tutto il cielo, ma arrivava giù fino a terra, fino alla strada che era diventata un fiume nero scintillante, con i tombini che ribollivano della pioggia schiumosa tanto che pareva la risputassero fuori, gorgogliando e spruzzando.
Il traffico si era rallentato; i passanti cercavano riparo sotto tettoie e negli androni dei palazzi, e molti guardavano al cielo, per calcolare quando quel turbinio sarebbe finito, e anche per vedere da quale tempesta si stavano sottraendo in quel rifugio diviso con altri, che stavano zitti, o parlavano sottovoce dell'acqua furibonda.
Io, dentro all'hotel, guardavo il marciapiedi deserto. 
Nella furia dell'acqua, arriva alla porta dell'hotel una donna magra, ricca. La magrezza delle ricche è diversa da quella delle povere: per le ricche, la magrezza è un lusso che pagano. Per le povere, la magrezza è una malattia. Nelle donne ricche, la magrezza ha un aspetto artificiale; si vede bene che loro non sarebbero mai così se non fossero ricche.
E' una magrezza falsa e faticosa.
La donna arriva trafelata alla porta; gocciola. Non ha ombrello ed è inzuppata di pioggia. La riconosco; è una donna che tenta caparbiamente di essere creduta meno vecchia di quanto sia; che vive per combattere contro l'età, che con creme e operazioni di chirurgia estetica ha trasformato il suo corpo di vecchia in un corpo finto, in cui ogni parte - dal dito alla gamba, ai piedi - mostra senza pudore che non è come dovrebbe essere secondo natura.
Conosco la donna ricca: è la moglie di un uomo ricco, che ha lunghissime basette bianche, una pancia sferica e le labbra nere.
La donna arriva alla gran lastra di cristallo; spinge e non avanza. La porta non gira.
La donna guarda la porta con stupore, e subito dopo con stizza.
Spinge ancora, ma ha pochissima forza e poi tiene tra le braccia due scatole e dalla mano sinistra penzola una sporta di cartone, di quelle che danno nei negozi per ricchi, e contengono oggetti costosi, come maglioni di cachemire.
La donna spinge; la pioggia la batte sulla schiena, sulle spalle, le schiaccia i capelli sulla testa e sulla fronte.
Ora la donna dà dei pugni, ma sono i pugnettini delle donne arrabbiate e non fanno niente; fanno solo male alle donne che così diventano ancora più isteriche.
-Ma mi apri o no?!- urla la donna guardandomi con odio.
Io avevo già mosso un braccio verso la porta.
Dico:
-Certo, signora!-
ma la porta è bloccata; qualcosa si è incastrato sotto una lastra; guardo bene: vedo che un grosso lembo della moquette si è alzato e si è ficcato sotto l'anta girevole, bloccandola.
-Signora- dico - non spinga...-
La donna non mi lascia proseguire:
-Eh che cazzo! Che cazzo dici!? devo stare qui a infradiciarmi per te, stronzo!?-
Dà calci alla porta, che vibra un po' ma resta sempre ben chiusa.
-Apri! Apri! Apri!- strilla la donna.
-Sì, signora. Ma se lei spinge, non posso aprire. Vada un po' indietro:- e indico per terra, per farle capire cos'è che ferma la porta girevole.
-Che indietro!? che indietro, stronzo!? mi bagno tutta! non vedi come piove, cretino!?-
Mi inginocchio; cerco di rimuovere il pezzo di moquette che immobilizza la porta, ma la donna di là spinge come impazzita.
-Signora, guardi.- dico - C'è un pezzo di moquette che sta...-
-Pezzo di merda!- urla quella, e ha la faccia prosciugata e deformata da tese pieghe aride, sembra una mummia polverosa, la bocca aperta -Pezzo di merda, mi fai entrare sì o no?-
Qualche passante, nonostante la burrasca, sta a guardare e non capisce.
Allora provo a liberare la porta anche con la donna che continua a spingere. Afferro il pezzo di moquette come meglio posso, fra pollice e indice delle due mani, tiro fino a farmi male.
-Porco! Stronzo bastardo! Mi prendo una polmonite per colpa tua!- urla la donna, ormai ha la voce roca per la rabbia e per il troppo gridare.
Le sono cadute le scatole in terra, la borsa prestigiosa è a mollo in un rigagnolo. Tutta la roba dentro è diventata nera.
-Apri! Direttore! Ma non c'è il direttore!? Non c'è nessuno che cacci questo porco bastardo a calci in culo!?-
Urla pazzamente; pare non possa fare altro per tutta la vita che le resta da vivere. Sulla faccia si schiacciano i capelli bagnati: lucidi e molli sembrano sanguisughe.
-Signora, la prego- dico in un estremo tentativo - mi ascolti, se lei lascia la porta io posso sbloccarla...-
-Vaffanculo!-
-Signora, mi ascolti: non è colpa mia se non può entrare. Vede, c'è un pezzo della moquette che impedisce alla porta di girare...-
-Stronzo! Chiamami il direttore! Subito! Subito! Chiamami il direttore!- grida, e la pioggia fredda sulla faccia la eccita, la aizza; non ascolta, non ragiona.
-Ma signora...-
-Porco! Bestia! Chiamami il direttore! Subito! Ti faccio licenziare com'è vero iddio!- ora più che gridare, la donna rantola. Ha la voce arrochita, la gola brucia.
-Signora, mi sente?-
La donna è esausta, stringe la porta girevole come se mollare la presa le sarebbe causa di morte. Ansima. Per un po' tiene gli occhi chiusi. Si asciuga il naso che gocciola pioggia con il dorso della mano destra. Poi pare mettersi a piangere; vedo per un istante la smorfia che precede le lacrime. Poi le labbra si stringono; la donna dà ancora una spallata alla porta, e dice con voce rotta, faticosamente:
-Vaffanculo.- come fossero le sue ultime parole terrene; il suo lascito.



11 giugno 2019

Vittimismo: l’arte del piangersi addosso, una forma socialmente accettata di manipolazione. Un articolo di Giovanna Modesto




… Alcuni tra gli uomini, che per incapacità non riescono a superare le difficoltà, accusano le circostanze. (Esopo)

Mancanza di empatia, tendenza ad una velata “manipolazione”. Il vittimista, o meglio ancora, la falsa vittima, consiste in chi si lascia attraversare da uno dei più diffusi circoli viziosi che colpisce non solo un singolo individuo, bensì famiglie, gruppi sociali, intere popolazioni e, talvolta, pure ideologie o stili di vita.
Volendo citare uno dei tanti esempi quotidiani chi, oggigiorno, con la scusa della crisi (divenuta oramai la causa di ogni male) che affligge l’intera nazione, se non lo stesso continente europeo, non si tirerebbe indietro anche dal solo ipotizzare un proprio futuro più positivo?

Anche se non lo si trova inserito all’interno del DSM (ovvero il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali), il vittimismo può essere considerato come una vera e propria patologia, che tende alla cronicizzazione che agisce come una sorta di “scudo difensivo” e, allo stesso tempo, un modo per poter catturare l’attenzione.
Appare ovvio che ogni vittima possieda un proprio carnefice, altrimenti non potrebbe rivestire il proprio ruolo ed ecco che appunto, essendoci una “falsa vittima”, vi è necessariamente la presenza un “falso carnefice”. È il caso ad esempio, di una gelosia infondata all’interno di una coppia, oppure dello studente che, non preparandosi bene ad un esame si lamenta di non averlo potuto superare o, se riesce ad essere promosso, di non aver ottenuto il voto da lui desiderato.
Ma, cercando di approfondire ancor più tale tematica, vien da chiedersi: quali sono esattamente le caratteristiche che contraddistinguono un vittimista?
Stando ad un resoconto bibliografico, un vittimista è innanzitutto colui che possiede una visione distorta della realtà, dato che è solito riversare la colpa delle proprie disavventure (spesso fittizie) ad altri, mai a se stesso.
Il vittimista inoltre, vive il paradosso del trovare conforto nel proprio lamento, poiché credendosi vittima di tutto ciò che accade intorno a se, è convinto di non poter far nulla per cambiare le circostanze se non lamentarsi.
Diffidente e costernato da atteggiamenti sospettosi nei confronti di chi lo circonda, il vittimista è sempre alla ricerca di nuovi colpevoli. Egli infatti fa di tutto pur di scovare anche un piccolo errore, una lieve mancanza messa in atto (magari in modo del tutto involontario) da parte di qualcuno a lui vicino, considerandolo, un gesto volto a danneggiarlo.
Altra caratteristica fondamentale del vittimista, è quella di non possedere la capacità di “un’onesta autocritica”  nei confronti di se stesso, dato che la colpa viene attribuita sempre agli altri e, di conseguenza, non si preoccupa minimamente di ipotizzare che potrebbe anche essere sua.

Volendo indagare circa le motivazioni del vittimismo, varie sono le ipotesi a cui possiamo far riferimento per spiegare questo fastidioso modo di agire. Tra le più veritiere vi sono:


  •      Una mancata elaborazione della relazione primaria (caregiver – bambino), ovvero una madre o una qualsiasi persona che, prendendosi cura del proprio bambino, non è in grado di dargli il giusto affetto e, a causa di ciò, viene ritenuta inaffidabile dallo stesso bambino, al quale (automaticamente) trasmette la sensazione di non essere né aiutato né compreso da nessuno, di non essere degno di nessuna attenzione, sensazione che, ovviamente, andrà a consolidarsi sempre più con la crescita.
  •         Una certa difficoltà nell’esprimere le proprie emozioni, come ad esempio: paura, preoccupazioni varie e dolori.
  •         Provare una certa invidia nei confronti di chi, secondo loro, è “più forte”, ovvero chi affronta le vicende quotidiane con più positività rispetto a loro e, addirittura, con chi è sempre disposto ad aiutarli.

Ma ciò che induce queste persone ad entrare in un tale circolo vizioso rendendolo ancor più cronico è la loro mancanza di empatia, il non comprendere lo stato d’animo altrui e, allo stesso tempo, il totale disinteresse anche solo nel provare a farlo. Essi tendono ad individuare i punti deboli del proprio interlocutore, in modo da poterlo colpevolizzare con le loro continue lamentele, facendolo realmente sentire “il loro carnefice”, manipolandolo dunque, nel più inaspettato dei modi, con frasi del tipo: “Ma come hai potuto farmi tutto ciò, dopo tutto quello che ho fatto per te?”

Il vittimismo, come avevamo inizialmente accennato, non si manifesta soltanto in un singolo soggetto, ma anche in intere comunità ed oggi più che mai, trova il suo spazio nei mass media, nei social, poiché sono proprio loro che, la maggior parte delle volte, decidono chi sono le vittime e chi no. Sono loro che riescono a manipolare le menti più sensibili, a dir loro come doversi comportare, quale sentimento negativo provare, innanzi ad un futuro sempre più incerto, ove al posto di pensare a costruire “un mestiere” con le proprie capacità, bisogna piuttosto essere disposti a distruggere ogni speranza ponendo l’attenzione ad una disavventura dopo l’altra.

Ritornando al singolo vittimista, potremmo concludere affermando che: se  costui fosse soltanto più propenso ad accettare il proprio dolore, in modo da poterlo comprendere, rendendosi consapevole della concretezza di tutto ciò che lo circonda, forse comincerebbe a relazionarsi con gli altri, in  modo più costruttivo, più amorevole, evitando così di prendere le sue solite distanze con un atteggiamento freddo e distaccato.
Possa tale riflessione essere un motivo in più per conoscere meglio se stessi per chi, almeno una volta nella propria vita, ha avuto modo di poter sperimentare un simile atteggiamento, essendo allo stesso tempo rincuorati ed incoraggiati da una delle frasi più famose della registra, sceneggiatrice e scrittrice statunitense Nora Ephron: “Sii l’eroe della tua vita, non la vittima.”


Giovanna Modesto


   



02 giugno 2019

1943-1945 Una Ricerca. La Guerra di Liberazione: Alle origini della Repubblica. Il contributo dei Siciliani.





Quell’estate del 1943 i lavori agricoli furono portati a termine come consentì la situazione. Lasciati i rifugi dove avevano trascorso il periodo della guerra, i pietrini sfollati poterono fare ritorno alle loro case. La vita riprendeva il suo corso.
In paese l’atmosfera non era lieta; la guerra era durata poco e aveva provocato modesti disastri ma tante preoccupazioni occupavano il cuore della gente. La liberazione aveva riguardato soltanto parte del sud d’Italia; nel resto della penisola gli Alleati stentavano a sfondare le forze tedesche attestate lungo linee difensive fortificate dal Tirreno all’Adriatico e ad avanzare verso nord. Contingenti militari italiani erano presenti nei vari teatri di guerra, in Iugoslavia, in Albania, in Grecia, in Russia. Le famiglie che avevano congiunti ai vari fronti, non avevano cessato di temere per la sorte dei loro cari. Ma altri eventi politici e militari erano intervenuti in quel periodo a rendere più complicata e difficile la situazione in Italia.

L’armistizio separato.


Nel luglio del ’43,[1] con le forze anglo-americane già in Sicilia, destituito e arrestato il suo capo, Benito Mussolini, l’esperienza del governo fascista, iniziata il 31 ottobre 1922, è finita. Il nuovo esecutivo, presieduto dal generale. Badoglio, concluso separatamente l’armistizio con gli Alleati, ne dà l’annuncio l’8 settembre. Re e Governo in tutta fretta abbandonano Roma e si trasferiscono a Brindisi.
Intanto la guerra continua ma i termini poco chiari del proclama non fatto seguire da precise indicazioni operative (…”ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare”…”le forze italiane reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza ) creano grande disorientamento nelle forze armate italiane, a tutti i livelli, con disastrose conseguenze. I tedeschi, all’annuncio dell’armistizio che considerano tradimento, da nostri alleati (l’Italia era entrata in guerra a loro fianco il 10 giugno 1940) sono diventati forze di occupazione. I generali italiani non sanno cosa fare né quali ordini impartire alle loro unità di fronte alla scelta drammatica se arrendersi ai tedeschi, combattere al loro fianco o contro di essi. Si verificano casi di suicidio da parte di alti ufficiali per non subire l’onta della cattura e della prigionia; episodi di interi reparti che reagiscono con le armi alle condizioni dei tedeschi e cadono in combattimento, (è il caso della Divisione Acqui a Cefalonia) o, se superstiti, vengono barbaramente trucidati[2]. L’esercito italiano è in gran parte formato da contadini del meridione; il primo impulso è quello di tornare a casa e comunque di pensare alla sopravvivenza[3]. Sono i luoghi e le particolari circostanze in cui ciascuno si trova che determinano le scelte individuali e di gruppo. Di quelli che tentano la via del ritorno a casa, molti sono catturati e fucilati o deportati, come successe ai nostri concittadini:


Liborio Meglio, finito nel campo di sterminio di Flossenburg "Lager Friedhof" (Germania) sepolto a Flossenburg (06/09/1912 – 01/05/1944).
Dati tratti dal sito del Ministero della difesa.

Bonfirraro Benedetto, sepolto ad Amburgo (Germania), cimitero militare italiano d’onore (27/11/1922 – 21/03/1945).
Dati tratti dal sito “Dimenticati di Stato”.

Carà Michele sepolto a Francoforte sul meno (Germania), cimitero militare italiano d’onore (14/07/1910 – 24/07/1944).
Dati tratti dal sito “Dimenticati di Stato”.

Puzzo Alessandro, sepolto a Francoforte sul meno (Germania), cimitero militare italiano d’onore (11/05/1908 – 20/03/1945).
Dati tratti dal sito “Dimenticati di Stato”.

Cimitero militare italiano d'onore di Francoforte sul Meno
fonte "Dimenticati di Stato" di Roberto Zamboni
Alcuni riescono, sfuggendo fortunosamente ai rischi della cattura, tra mille difficoltà e dopo molti giorni di cammino: nascondendosi di giorno e camminando di notte, sempre lungo le vie meno frequentate, dormendo, quando possibile, nei casolari ferroviari, nutrendosi di frutta e di quello che offriva la campagna e qualche famiglia di buon cuore. Tale fu l’esperienza di un nostro parente, che, partito il 13 settembre assieme ad altri commilitoni, da Gorizia, dove prestava servizio, giunse a Pietraperzia dopo 23 giorni di viaggio. Intercettati una sola volta, ormai nei pressi di Salerno, da carabinieri italiani e portati al comando inglese, furono trattenuti per due giorni ed impiegati in lavori di scarico viveri da una nave. Fu l’occasione per potersi rifocillare, fare rifornimento di scatole di sardine e di carne. Lasciati inoperosi e senza alcun controllo, ripresero il loro cammino[4]. Altri, invece, isolati di reparti allo sbando, trovano rifugio presso famiglie del luogo con le quali avevano instaurato buoni rapporti, si accasano e lì superano, senza conseguenze, il periodo della guerra civile, e vi rimangono per il resto della loro vita.

I tedeschi, padroni del campo, subito dopo l’armistizio hanno liberato Mussolini prigioniero al Gran Sasso, il quale, con l’intento di far rivivere un nuovo stato fascista, con la parte dell’esercito a lui rimasta fedele e le strutture amministrative del precedente regime, costituisce la Repubblica Sociale Italiana (RSI), di fatto sottomessa al volere dei nazisti. Con il sostegno degli stessi il nuovo governo fascista domina con spietatezza sulle regioni del centro-nord, imponendo alle popolazioni di aderire alla R.S.I. con l’obbligo del servizio di leva pena la condanna a morte per i renitenti.
Dal settembre 1943 al 1945 il nostro Paese, quindi, rimane diviso in due: Regno del Sud corrispondente al territorio liberato dagli Anglo-americani (sede Brindisi e successivamente Salerno) e Repubblica Sociale Italiana R.S.I.(o di Salò dal nome della cittadina in provincia di Brescia, sede del governo fascista).

La lotta armata


Di fronte alla drammaticità del momento tanti ufficiali contrari alla nuova dittatura non indugiano ad abbandonare le caserme: seguiti da molti militari dei loro reparti convinti anch’essi della necessità di una scelta perentoria (il ritorno a casa si presenta estremamente rischioso) prendono la via della montagna e danno vita alla Resistenza armata contro gli oppressori. Alle lotta partigiana che si sviluppa in tutte le zone occupate dai nazifascisti si uniscono i giovani renitenti alla leva, cittadini, uomini e donne di ogni condizione e di ogni orientamento politico: studenti, intellettuali, contadini, operai, sacerdoti che rifiutano di sottomettersi al regime della RSI. Migliaia di persone che via via aumentano di numero. Con il coordinamento politico militare del CNL (Comitato di Liberazione Nazionale) costituito dai partiti democratici, la lotta contro le forze preponderanti del nemico viene condotta con azioni di guerriglia per piccoli gruppi. Le loro armi sono quelle sottratte alle caserme dai soldati prima di lasciarle; altre armi, munizioni, viveri vestiario, fanno giungere ai partigiani le forze alleate con lanci dall’alto. Così, per circa due anni, una feroce e sanguinosa guerra imperversò nel centro-nord d’Italia, una vera e propria guerra civile che coinvolse popolazioni delle campagne e delle città fatte oggetto di efferati eccidi, da parte delle formazioni naziste e nazifasciste (un elenco lunghissimo, tra i più disumani quelli delle Fosse Ardeatine (Roma), di Boves (CN)- Marzabotto (BO) Sant’Anna di Stazzema (LU). Nulla di tutto ciò appresi durante la frequenza delle scuole media e magistrale, forse nessuno sapeva cosa fosse realmente accaduto. Certamente nulla si seppe sino alla liberazione dei deportati da parte delle armate russe, dei campi di sterminio predisposti in segretezza dai nazisti per la sistematica eliminazione degli ebrei: Auschwitz, Birkenau, Buchenwald, Mauthausen sono nomi che mettono i brividi, in essi perirono, assieme ad internati di diverse etnie e condizioni, circa sei milioni di ebrei. Primo Levi ce lo ricorda soprattutto nel suo “Se questo è un uomo”.

Il contributo dei siciliani.


Ma riguardo alla Resistenza la delimitazione nord/sud fu solo geografica. È senza fondamento la convinzione che la lotta per la liberazione dell’Italia dalla dittatura nazifascista sia stata “faccenda”esclusiva della dell’Italia del centro-nord. Certamente lo fu, come si è detto, per le popolazioni delle regioni interessate. Alla resistenza armata parteciparono, con contributo di sacrifici e di sangue, uomini e donne provenienti da tute la parti d’Italia. Perché, se “prevalevano le divise”, nelle formazioni partigiane “si parlavano tutti i dialetti”[5]. Non esistono dati certi circa il numero di meridionali che scelsero di combattere per la libertà dell’Italia. Una stima parziale, fatta dall’Istituto di Storia della Resistenza di Torino (ISTORETO) relativa alle squadre partigiane che operarono nelle province di Torino e Cuneo, ridimensiona al 20%, la precedente valutazione dello storico A. Monti che sosteneva aggirarsi intorno al 40% la presenza di meridionali in quelle formazioni[6]. Per quanto riguarda, in particolare, il contributo dato dai siciliani, in un articolo sul quotidiano “la Repubblica” del 25 /4/2008, si parla di 2.600 partigiani siciliani, riconosciuti dall’Istoreto, che operarono in Piemonte; a parte le province di Biella Novara e Vercelli che dipendevano dal comando di Milano[7]. Ad integrazione di tale dato, portandolo a 2727 unità, l’articolo di Mauro Begozzi, pubblicato sulla Rivista “Nuova Resistenza”, riporta i nominativi di 127 combattenti siciliani presenti nelle formazioni partigiane del novarese e del VCO (Verbano Cusio Ossola, i paesi intorno al lago Maggiore ) tra cui 18 caduti e 3 deportati in Germania[8].
Non sono solo militari ma anche operai, impiegati, ferrovieri, studenti, carabinieri siciliani, giovani e meno giovani, provenienti da tutte le province dell’isola, in Piemonte per precedenti migrazioni o trasferimenti. Situazioni simili si trovavano anche in altre regioni del nord occupate dai tedeschi. Un esempio molto noto è quello di Concetto Marchesi di Misterbianco (CT), latinista, rettore all’Università di Padova, il quale fu tra i primi ad incitare studenti e professori a lasciare la scuola, dandone l’esempio, e a unirsi ai resistenti per liberare l’Italia dal terrore nazista.
Secondo dati ANPI (Associazione Nazionale Partigiani Italiani), 211 furono i siciliani che persero la vita in Piemonte, molti dei quali insigniti di medaglia d’oro (26), d’argento ( 85), di bronzo e di croce di guerra. Altri 70 si immolarono nelle altre regioni d’Italia, 5 perirono nel massacro delle Fosse Ardeatine di cui uno insignito di medaglia d’oro, due d’argento[9]
Tra i caduti è indicato il nome di un figlio di Pietraperzia: Filippo Di Blasi (Pirtusiddu), 12-9-1920, caduto in combattimento a Chiusa Pesio (CN) il 24/3/1945. 
http://www.banchedati.istitutoresistenzacuneo.it/broken_lives/28490
Quella di Filippo Di Blasi è una vicenda toccante; sentirla raccontare dal cognato, Vincenzo Guarnaccia (Vicinzu Caniglia), ci ha procurato intensa emozione. Filippo, in servizio a Cuneo, si è fidanzato con una ragazza di Beinette, piccolo comune di quella provincia, dove i genitori di lei, sig.ri Quaranta, possiedono una grossa cascina. Dopo l’8 settembre Filippo viene accolto dai futuri suoceri, tra l’altro figure di spicco della Resistenza alla quale anche lui ha aderito. Della IV Divisione Alpini, Filippo opera con le bande dislocate nelle montagne della Valle Pesio. Le valli del cuneese, culla delle prime formazioni partigiane, sono le zone in cui più frequenti si susseguono i rastrellamenti e più accesi i combattimenti. Spesse volte, tra molti rischi, il nostro giovane partigiano è sceso a Beinette, in quei venti mesi di vita di trincea, rinsaldando il legame con la famiglia Quaranta, e parlato di matrimonio, da celebrare a liberazione avvenuta. Quando però manca circa un mese alla liberazione, in uno di quegli scontri che si fanno più violenti quando la conclusione si avvicina, Filippo rimane ucciso. La notizia colpisce e addolora la ragazza e i suoi familiari; sono loro che si occupano del recupero del corpo e della tumulazione nel cimitero di Beinette. La Cascina Quaranta, a Beinette, ora si trova in Via Filippo Di Blasi: i Quaranta, membri influenti della comunità, hanno voluto che la strada in cui si trova la loro casa fosse intitolata al ragazzo siciliano che si era immolato per la liberazione dell’Italia.
Tra gli esempi più illustri del contributo dato dai siciliani alla liberazione dell’Italia è annoverato, per il ruolo che vi svolse, l’on. Pompeo Colajanni, classe 1906[10]. Il personaggio sarebbe divenuto molto noto a Pietraperzia: fisicamente inconfondibile per i suoi foltissimi baffi neri, più volte, nel dopoguerra, i pietrini udirono la sua voce robusta risuonare nella Piazza Vittorio Emanuele, durante le campagne elettorali. Egli, nel 1943, tenente di complemento presso la Scuola di cavalleria di Pinerolo, fu tra i primi, subito dopo l’8 settembre, ad organizzare, con altri ufficiali, i suoi soldati e civili, la resistenza, fondando a Borgo San Dalmazzo (CN) la banda partigiana “Carlo Pisacane” da cui si svilupparono le brigate “Garibaldi”. Le imprese da lui condotte, come comandante delle brigate garibaldine della zona del Monferrato, con il nome di battaglia di “Barbato”, sono rimaste leggendarie. Per la sua esperienza e competenza militare fu nominato Vice comandante del Comando Militare Regionale Piemontese del Corpo Volontari della Libertà che riuniva i vari raggruppamenti partigiani di diverso orientamento di tutto il Piemonte. Furono le formazioni partigiane guidate da “Barbato” che liberarono Torino il 28 aprile 1945. Il Comune di Cavour (TO) ha voluto ricordare il grande partigiano apponendo sulla facciata del palazzo comunale, in piazza Sforzini, una lapide con questa iscrizione: «Da Cavour (TO) il 10/9/1943 con alla testa il comandante Barbato on. Pompeo Colajanni un gruppo di militari e civili iniziò la guerra di liberazione nella zona per dare al nostro paese pace libertà e democrazia. L’Amministrazione Comunale e i partigiani superstiti posero il 25 /4/1992. » Torino gli ha dedicato una strada. Un cippo in suo onore ha posto al Giardino Inglese di Palermo l’Amministrazione della città:”Pompeo Colajanni, comandante Nicola Barbato (1906-1987) partigiano, contribuì alla liberazione dell’Italia dai nazifascisti e al riscatto della Sicilia”.
Non meno degno di essere ricordato è il Comandante “Petralia”, nome di battaglia di Vincenzo Modica, classe 1919, di Mazara del Vallo. Ufficiale presso la Scuola di cavalleria di Pinerolo, come Pompeo Colajanni, ma di diversa formazione ed esperienza politica, convinto dal più anziano tenente, lo seguì e ne divenne vice e braccio destro. Si rese celebre come comandante della I Divisione Garibaldina. “Petralia”era al fianco di “Barbato” nella liberazione di Torino. A lui, ferito al braccio sinistro, toccò l’onore di portare la bandiera del CVL ( Corpo Volontari della Libertà) nella sfilata dei partigiani vittoriosi del 6 maggio 1945, a Torino.
Altro celebre esempio di partigiano siciliano è quello di Nunzio Di Francesco, Linguaglossa (CT) 03/02/1924 Catania 21/02/2011.
Giovane di formazione cattolica, militare artigliere a Venaria Reale,(TO ) lascerà la caserma dopo l’8 settembre assieme ad altri siciliani, raggiungerà le “Brigate Garibaldi” di “Barbato”dove sarà il partigiano Athos comandante di un Distaccamento. Catturato dai tedeschi il 18/10/1944 e condannato a morte per aver guidato una banda armata contro la Repubblica di Salò, verrà deportato a Bolzano in attesa della esecuzione e successivamente nel campo di sterminio di Mauthausen, non più persona ma numero-115503, dove assisterà alle atrocità commesse dai nazisti, come scriverà nelle sue memorie[11]. Sarà liberato il 05/05/1945. Ritornato in Sicilia la sua adesione di partigiano alle “Brigate Garibaldi” sarà criticata da parte dei suoi amici di prima e di autorità ecclesiastiche, e troverà ostacoli all’ottenimento della pensione di guerra. Sino al termine della sua vita sarà Presidente dell’ANPI della provincia di Catania, ponendosi come testimone dell’impresa partigiana e dei valori della Resistenza da proporre sempre nella formazione dei giovani; a tale scopo abbiamo voluto fare la presente ricerca.

La data del 25 aprile ’45, giorno della liberazione delle città di Milano e di Torino ad opera dei partigiani segna la fine della guerra fratricida e la liberazione dell’Italia dal nazifascismo. Dovevano passare ancora 14 mesi prima che i prigionieri di guerra potessero tornare alle loro famiglie.. Nel 1946 la data del 25 aprile venne proclamata festa nazionale dal primo governo della Repubblica Italiana presieduto da Alcide De Gasperi.

Salvatore Giordano






[1] Il pronunciamento del Gran Consiglio del Fascismo che destituiva Mussolini  è del 25 luglio 1943.
[2] Montanelli-Cervi, Storia d’Italia-L’Italia del Novecento, Milano, Fabbri Editori, 1998, pp.244-245.
[3]La situazione era quella che avremmo vista rappresentata nel film di Luigi Comencini, Tutti a casa, del 1960, con l’interpretazione di Alberto Sordi.
[4] Testimonianza di Vincenzo Siciliano (Vicinzu Barraggiddu).
[5] Giovanni De Luna, La Resistenza perfetta, Feltrinelli, 2015. Bianco, Dante Livio, Guerra partigiana, Einaudi, 1974.
[6] Amelia Crisantino, I partigiani siciliani liberatori di Torino, la Repubblica, 23 aprile 2005, sezione: Palermo.
[7] Carmela Zangara, Ecco i partigiani di Sicilia, la Repubblica, 25/4/2008.
[8] Mauro Begozzi (a cura di), Dalla Sicilia per la Libertà. I combattenti siciliani nelle fila delle formazioni partigiane del Novarese e del VCO. Su “Nuova Resistenza”, Luglio-Agosto 2007. Inserto speciale.
[9] I dati relativi ai caduti, come quelli che riguardano la partecipazione dei siciliani alla resistenza, sono approssimativi e parziali e non da considerare come esaustivi e definitivi.
[10] Dalla scheda biografica ANPI di Palermo: on. .P. Colajanni, nato a Caltanissetta il 4/1/1906, morto a Palermo nel 1987 ”…fu sottosegretario alla Difesa nel primo governo Parri e nel primo governo De Gasperi, ricoprì diverse cariche politiche di rilievo nel Parlamento nazionale e nell’Assemblea siciliana.  Fu segretario delle federazioni comuniste di Enna e di Palermo.
[11] Nunzio Di Francesco “Il costo della libertà. Memorie di un partigiano combattente superstite del campo di sterminio di Mauthausen e Gausen 2”.Bonanno 2007.