11 gennaio 2019

Invito alla lettura: "Verso la Foce" di Gianni Celati



Il libro di Celati è fatto di quattro diari di viaggio. La raccolta è in tre
tranche: maggio 1983 (divisa in due diari), maggio 1984, maggio 1986. Sono pubblicati dall'ultimo al primo. Il viaggio è un lento andare che documenta ciò che si lascia dietro. Si tratta di un camminamento nella Pianura Padana che si trasforma, nel diario dell’83, in un viaggio “sapienziale” alle foci del Po. Il percorso è disorganizzato. È intessuto di quotidiano e non vi sono immagini degne di nota. È un viaggio di recupero di una visione normale, sulle cose e sul mondo. Si diffida, nel diario, delle cose straordinarie, fuori dall’ordinarietà che è lecito che ancora appartenga ad un luogo.

Il libro di Celati è anche il resoconto di un frammento di territorio e di umanità della pianura Padana. Su di essa grava il presentimento di stare per essere spazzata via, così com'è, forse da un evento di portata storica e inesorabile. Quale sia l’evento, se climatico, ambientale, economico, sociale, antropologico, se ci sia stato, si sa e non si sa. Questo non viene detto, ma aleggia una malinconia che vi allude possibilmente. La prima sezione del libro (Un paesaggio con centrale nucleare) è del 1989: lo scoppio della centrale di Černobyl. Lo scrittore fa un’inchiesta, seria nelle intenzioni ma a tratti estemporanea, chiede alle persone che incontra quanto ne pensano riguardo all’esposizione del Nord Italia alle radiazioni, registra le paure di un paese alla frase d’una barista: “Guarda che se non fa il bravo le dò latte contaminato, eh?”.

Questo sentimento di un mutamento che stravolge il volto della Pianura Padana non si esime da un resoconto particolareggiato di ciò che sembra destinato a svanire. Con occhio zelante, quando anche disattento, penetrante ma da lontano, Celati spiega la natura di quelle zone e chi le abita. Grossi stabilimenti industriali, un benzinaio grasso in ciabatte che si volta dall’altra parte mentre riempie serbatoi di benzina.
I luoghi descritti si trovano spesso nel punto di tensione fra un’offerta sentimentale del loro paesaggio naturale e lo squallore di elementi inquinanti che li hanno turbati. È l’inquinamento dei rifiuti delle industrie. Ma è anche una mutazione antropologica: i negozi dalle luccicanti vetrine delle grandi città sono riprodotti uguali nei cuori mutati dei piccoli borghi. Lo scrittore prende nota, cammina oltre, per “raggiungere una foce dove tutte le apparizioni si eclissano ridiventando detriti”.
Celati ricompone un’immagine cara al Novecento letterario: i detriti. Ma ricerca i relitti della realtà da un luogo metaforico ad un paesaggio ambientale: le foci del Po.
Questo diario è anche, se mi si passa l’espressione, un pamphlet di sapore profetico sulla fine del mondo. Si veda la quarta sezione (Verso la foce): quando il protagonista si trova a Scardovari, un paese nei pressi del Po di Gnocca, sta giocando ad un flipper in un bar semivuoto. Il gioco del flipper si basa sulla missione di due astronauti, Voltan e Vanda. Nel flipper, i due astronauti si devono allontanare dall’Empire State Building e dalla Statua della Libertà di New York per arrivare all’astronave che li salverà. Da che cosa? Dalla fine del mondo.
Celati non sale sull’astronave, né vuole farlo. Forse non può, e la navicella potrà prelevare le persone di una generazione successiva alla sua. Celati, col suo libro, si è fermato a fissare i resti del mondo, prima di una fine che non conosce.

Lo stile è quello di un libro fatto sorgere sulle frasi spezzate dagli appunti presi su un taccuino durante il viaggio. Talvolta, scritti mentre camminava, per cogliere l’essenza normale, diretta delle cose che vedeva. Oppure, lo scrittore è abile a fare risalire lungo questo filo, quello di una composizione immediata. Celati fa una prosa descrittiva, dura e senza sbavature, ma nutrita di lontananze e riflessioni su sé stessa. È asciutta, anche quando è tenuemente paesaggistica; quando è apocalittica, assegna alle parole un peso specifico.

Il personaggio Celati è solo un occhio che osserva. Questa è la visione copernicana in cui anche un altro scrittore, che sembra opposto a lui, ha impegnato la sua opera: Italo Calvino. Ma ogni occhio rimanda linee che attraversano spazi diversi, assegna vettori portatori di significati distinti.
Lo scrittore si abbandona agli spazi, ma si dà l’imperativo di evocarli a parole. Non sta pensando di descriverli: perché “anche le parole sono richiami, non definiscono niente, chiamano qualcosa perché resti con noi. E quello che possiamo fare è chiamare le cose, invocarle perché vengano a noi con i loro racconti”. È una singolare sconfessione della forza cognitiva della scrittura, pronunciata da un professore universitario di Lettere.

Celati, con la parola, richiama un mondo. Il mondo resta fisso, ma, ugualmente, sfugge dalle mani e svanisce. Celati diviene un personaggio inconsistente del suo libro. Teme di perdere la sua identità, ha dubbi, è attaccato morbosamente a qualcosa che fugge, gli importa di carpire qualcosa che accade fuori di lui, in un luogo che, perché non cambia, è a rischio. Celati è un fantasma che cammina su una terra che scompare se la nomina.
Nell’ultima sezione del libro, si annota la presenza di un ponte di ferro. Celati è a destinazione del viaggio: zona di Porto Tolle, all’imboccatura del Po di Gnocca. I piloni del ponte sono immersi nell’acqua alta del fiume. Attorno ad essi, la corrente fa gorghi d’acqua. Fuori da essi, una lattina è rigettata a dai cerchi dei mulinelli, li insegue mentre si spostano, e si rigetta nel loro occhio. Poi ricomincia.
Il libro di Celati – l’occhio di Celati - è fra l’osservazione emozionale dei mulinelli d’acqua e la focalizzazione della lattina inquinante, inquietante che rigettano.

Alessia Borriello





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