05 gennaio 2019

Via 4 Novembre e dintorni: C’era una volta – 1^ Parte

C’era una volta la casa di via 4 Novembre


Trascorso il periodo della guerra e cessati i pericoli, con la liberazione dell’isola da parte delle forze alleate, tornammo in paese nella nostra casa di Via 4 Novembre. Noi abitavamo al civico n° 72 della via prima parallela a nord del Corso Umberto I, la strataranni.
Dedicata com'è alla data della vittoria della I Guerra Mondiale, la Grande Guerra (1915/1918) che completò l’unificazione dell’Italia, la via 4 Novembre ben si inserisce, e ne costituisce coronamento, nel gruppo di strade della zona intitolate ad eventi e personaggi della storia patria, siciliana e pietrina. Essa si estende, infatti, da via Giuseppe La Masa alla Discesa Leone, per tutta la lunghezza del più noto corso di lu ringu di sutta. La via Tortorici Cremona la separa dalle vie Garibaldi e Capitano Bivona; è attraversata dalla discesa Giovanni Corrao e, a poco meno della metà del suo percorso, incrocia la discesa Rosolino Pilo, perpendicolari al corso Umberto. Esattamente a quell’incrocio sorgeva (e sorge ancora, abitata da altri) la nostra casa. L’abitazione, che era composta dalla parte anteriore ristrutturata del piano terra e dal piano superiore dello stabile che era stato lu tarpitu della famiglia di papà, ne formava l’angolo, la cantunera nord/ovest; mamma e papà vi andarono ad abitare subito dopo il loro matrimonio. In quella casa di via 4 Novembre ebbe inizio la vita di noi, quattro figli; è lì che abbiamo trascorso la nostra infanzia e parte della giovinezza, fino agli inizi degli anni ’60 del ‘900.
La casa aveva un balcone sopra l’entrata dell’ex frantoio e una finestra che dava sulla discesa Rosolino Pilo, ma non aveva sbocco sulla via Tortorici Cremona, lu ringu di ncapu. Da quel lato confinava con l’abitazione della famiglia di Antonino Pagliaro, sposato con la signora Maria Matanza. Lu massaru Ninu coltivava le sue terre assieme al figlio minore Giuseppe; Santo, il figlio maggiore, si occupava di edilizia, campo in cui era diventato un esperto capomastro; Maria Anna, Mariannina, la figlia femmina, faceva la maestra. Attraverso la parete nord, che divideva la nostra casa da quella dei Pagliaro, sentivamo ogni parlottare e ogni minimo movimento provenienti dalla loro casa. Spesso, bambini curiosi, appoggiavamo l’orecchio al muro per indovinare dal rumorino che avevamo udito a chi della famiglia poteva attribuirsi. Mariannina sposò Salvatore Marotta, lu Cacucciularu, allora, e per molti anni, custode del cimitero. Da tutti, in paese, era chiamato Sarvaturi e nominarlo evocava la sua funzione. Alto e di bell’aspetto, baffi e pizzo pronunciato ben curati, una certa ricercatezza nell’abbigliamento (cappello nero a larghe tese ed eleganti abiti scuri di sartoria), il portamento serio e distinto erano tutti elementi che abbinavamo al suo ufficio e che ce lo facevano percepire come personaggio dotato di particolari poteri e guardare con una certa apprensione.
Di fronte alla nostra, la casa abitata dalla vedova signora Ada Callari costituiva l’angolo sud/ovest dell’incrocio. L’angolo opposto, la cantunera a sud-est, era formato dalla casa dell’antica famiglia Nicoletti, abitata da donna Caterina, ultima discendente del casato, signorina avanti negli anni che vi viveva da sola. Alla porta della casa di donna Catarina si arrivava dopo aver salito i gradini di un alto ed ampio ballatoio protetto da una ringhiera di ferro e, superata quella, situata sullo stesso ballatoio, della casa della famiglia di Vincenzo Di Romana sposato con Vincenzina Lo Presti, noti in paese come li Vinci.
L’angolo nord-est, di fronte a donna Caterina Nicoletti, era costituito dalla casa di don Filippo Rabita, don Filippu Pruni, noto maestro falegname, che vi abitava con la moglie, signora Giuseppina Aiesi, e con i tre figli, tra i dodici e i quindici anni di età all’epoca della nostra nascita: Vincenzo, Giuseppe e Piera, Pitrina.
Gli abitanti delle case di quell’incrocio furono i nostri vicini più prossimi, quelli che, per la vicinanza, vedevamo quotidianamente e con i quali più frequenti erano le occasioni di incontro. Nel numero rientrano pure i componenti della famiglia del dottor Vincenzo Vitale, la cui abitazione confinava con la nostra dal lato ovest: sulla via 4 Novembre si affacciavano i due balconi della casa, ma l’ingresso si apriva sulla via Tortorici Cremona.
Tanti ricordi della nostra vita di allora sono legati a quella via, alle strade vicine, alle persone che vi incontrammo e conoscemmo. Di quell’incrocio sentiamo i rumori, gli odori, le voci. Lo scalpitio dei muli dei contadini che di buonora transitavano per la discesa Rosolino Pilo per recarsi in campagna; il crocevia disseminato di una infinità di neri “confettini” e il lezzo penetrante che, poco più tardi, impregnava l’aria dopo il passaggio del capraio che tutte le mattine portava il latte alle clienti. Esse lo aspettavano sulla porta ccu la cicara mmanu ed egli la restituiva piena del bianco e nutriente liquido ancora fumante, munto direttamente dalle capre che si portava appresso; il vociare dei ragazzi che passavano da un gioco all’altro tra innocenti litigi; il gridare delle madri che si affacciavano e continuavano, non udite, a chiamarli quasi a squarciagola; lo starnazzare delle galline disturbate, nel loro pacifico razzolare, da qualche improvviso rumore; il richiamo degli ambulanti venditori di merce varia; il grido del banditore, Micheli l’urbu, che, fermo al centro dell’incrocio, lanciava il suo avviso o annunciava la novità:
O figliuli,
ad-ha arrivatu lu pisci friscu,
trigli mirluzzu picaredda, sardi…
va iti a la piscarija…;

o figliuli …
cu- ha ttruvatu na mula
ca jè di
va purtaticcilla ca c’è lu viviraggiu; …
e mamma a ripeterci quel curioso annuncio che le era rimasto in mente da quando glielo avevano raccontato:
O populu di Summatinu,
cu ha ttruvatu un papì masculu
ca jiera di li Chinnici
ca havi tri ghiorna ca la criat’è sutta.
“O popolo di Sommatino, chi ha trovato un tacchino (sappia) che era di proprietà della famiglia Chinnici; ora son tre giorni che la serva (accusata del furto) è in prigione”
La via 4 Novembre era una strada allietata da un gran numero di bambini e bambine. Quel tratto di strada, allora in terra battuta, tra l’incrocio con via Rosolino Pilo e Discesa S. Orsola, molti ne raccoglieva di tutto il vicinato, perché ben si prestava ai giochi di femmine e di maschi: a li cchiè, a li rrummula, a li castedda, a la stacca, a li petri, a la fussetta. Era un cinguettio continuo, che poteva anche dar fastidio a persone anziane meno tolleranti nei confronti dei bambini, specie in certe ore della giornata. E mentre tra le bambine l’idillio era quasi perfetto, tra i maschietti piccole baruffe avvenivano per questioni legate al gioco, fino a sfociare, qualche volta, in vere e proprie liti. E tuttavia mai tra le mamme ci furono discussioni, dal momento che nessuna di esse fu mai indulgente nei confronti del proprio figlio, né intervenne a prenderne le difese. Capitava che si affacciassero alle finestre all’udire il clamore della lite o al pianto, ma le loro parole erano: «Cosi di carusi su, vinu l’anni e mintinu li sinzii, cresceranno, capiranno». E ciascuna richiamava il proprio figlio. Del resto, passata la buriana, i ragazzi erano di nuovo insieme a giocare, dimentichi di tutto.
All’astricu della casa di Vincenzo e Vincenzina Di Romana, genitori di Masinu e Lina, di qualche anno più piccoli di noi, seguivano due piccoli ballatoi, du’ tucchineddi, a breve distanza l’uno dall’altro, alti poco più di un metro, con quattro-cinque gradini e privi di ringhiera: appartenevano alle abitazioni delle famiglie di Rocco Zappulla, Roccu Zzappudda, e di Giuseppe Emma, Pippinu Palazzu. Il primo era sposato con la signora Giovanna Di Gregorio, la zi’ Giuannina, della numerosa famiglia di li Mazzariddi (o li Cilij), sorella di nostra zia Damiana madre di Pasqualino; il secondo con la signora Concetta Barrile, Cuncittina la Padedda. Appresso veniva il portoncino della casa della famiglia di Nunzio Pace. Tra i quattro Zappulla, Totò, Nino, Paolo, Antonietta, altrettanti dei Pace, Vincenzo, Pino, Anna, Rocco, e due della famiglia Emma, Filippina e Sebastiano, erano altri dieci bambini che gravitavano attorno a quelle centinaia di metri quadrati di terra vicino al nostro incrocio. Ad ovest, accanto alla casa della signora Callari, abitava la famiglia di Paulu Vavaluciu e Mariuzza la Buttafoca, Paolo Corvo e signora Maria Buttafuoco, famiglia che nel corso degli anni raggiunse i dieci componenti: genitori e otto figli di cui i maggiori, all'incirca della nostra stessa età, furono i primi nostri compagni di gioco e di litigate. Tre maschi, Salvatore, Pino, Pasqualino; tre femmine, Costanza, Filippina e Agatina, a cui si aggiunsero i gemelli Michele e Vincenzo. «Fu soprattutto con Totò Zappulla, Vincenzo e Pino Pace e spesso anche Rino Mendola (nipote del dottor Vitale) ed altri ragazzi della zona», dice Salvatore, «che mi trovavo a giocare tra gli altri a li castedda, e a scinni scinni rininedda[1], giochi che ricordo come divertenti e impegnativi, in cui mettevamo tutta la nostra anima per eseguirli nel rispetto delle regole e dei ruoli che definivamo dopo una serie di discussioni. Come tra gli adulti, gli inevitabili diverbi sorgevano quando c’era da attribuire la responsabilità della sconfitta della squadra, ma venivano presto risolti per riprendere subito il gioco».
«Con Anna Pace», dice Maria, «non ricordo di aver diviso tanti momenti di gioco, ma tra noi c’era una sincera amicizia; frequentavamo l’Azione cattolica e spesso facevamo assieme la strada per raggiungere la Parrocchia così come anche la domenica per recarci a Messa. Eravamo due donnine e spesso aiutavamo in casa. Le nostre mamme si stimavano a vicenda, si chiamavano cugine e lo erano realmente: la madre di Anna, zia Maria Balestrieri, era nipote di nonno Pasquale; suo padre era figlio di Giuseppina Costa che, vedova Balestrieri, aveva sposato in seconde nozze Calogero Messina, nostro bisnonno materno».
Fu in quella strada polverosa che insieme ai compagni di gioco apprendemmo concretamente le prime regole del vivere sociale e si stabilirono rapporti di amicizia che ci consentirono, dopo che ciascuno col tempo aveva preso la propria direzione, di riconoscerci e definirci, nella “grande rimpatriata” dell’aprile del 2012, “amici di sempre”, “amici per sempre”.
Molta tristezza suscita vedere ora quelle strade deserte e silenziose a tutte le ore del giorno; e molti pensieri attraversano la mente di chi le ha vissute in momenti in cui gioia, allegria, vivacità di bambini e via vai di adulti predominavano. Pavimentazioni rifatte con pietra di Catania, pulite ma ciuffi di erba vi crescono ai bordi e tra gli interstizi dell’acciottolato; moderni lampioncini ad applique ai muri delle case di Via Garibaldi, della discesa Rosolino Pilo; case ristrutturate fornite di nuovi portoncini, anche eleganti, accanto ad altre coi muri scrostati, le serrande e i segni della loro vetustà. Ma tutte porte chiuse, non una finestra aperta, non una donna al balcone a stendere panni, non un bambino per la strada. La casa della nostra infanzia aveva già subito un primo intervento di cui presentava le tracce nelle porte esterne sostituite, nei muri ritinteggiati e soprattutto nel balcone con ringhiera di ferro che la circondava per tutta la sua estensione sino a dopo l’angolo con la discesa Sant'Elia. Una tenda da sole vi era stata montata sopra la porta finestra. Ma nessun segno di vita come in tutte le altre. Vi avessi scorto una presenza umana avrei chiesto di entrare: mi sarebbe piaciuto verificare quali modifiche vi erano state apportate all'interno. (continua)

Maria e Salvatore Giordano
[1] Vd. la voce rininedda sul Vocabolario Siciliano cit.



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