L’eccidio dimenticato di Pietraperzia
Gli
avvenimenti che si verificarono a Pietraperzia il 1° gennaio 1894 sono una
pagina di storia dimenticata e sconosciuta ai più. il tumulto che sconvolse,
all'epoca, Pietraperzia causò molte devastazioni e l’uccisione di 9 nostri
concittadini e tra questi un bambino di 5 anni.
Una
strage di Stato nell'Italia unificata dai Savoia. Le sommosse e le uccisioni si
ripeterono in molti comuni siciliani per tutto il 1893 e anche dopo lo stato
d’assedio dichiarato dall'allora capo del governo: il siciliano Francesco
Crispi.
Qui
vogliamo ricordare e onorare le vittime dell’eccidio che si consumò a Pietraperzia.
Dopo
l’iniziale fervore per fare l’unità d’Italia seguirono decenni di dolorose
disillusioni economiche e sociali. Le miserevole condizioni di vita dei
contadini, dei braccianti agricoli, dei minatori non erano cambiate. In Sicilia
persisteva ancora uno stato sostanzialmente feudale. La maggior parte delle
terre era in mano a poche famiglie arricchite di gabellotti. I cosiddetti
“galantuomini” formavano una oligarchia dominante, e nei paesi erano i veri
detentori di un potere incontrastato. Sindaci e consiglieri comunali venivano praticamente
nominati tra queste poche famiglie. Gli elettori votavano per censo; a
Pietraperzia nel 1893 il “corpo elettorale” era composto da circa 700 persone.
L’imposizione di dazi e tasse era un’arma in mano alle amministrazioni che usavano
spietatamente per colpire nemici ed avversari politici. Si favorivano parenti
ed amici togliendoli dal Ruolo, a tutto danno dei poveri. Gli introiti
derivanti dall'imposizione delle varie tasse non bastavano a coprire le spese
obbligatorie del Comune e gli amministratori, anziché pensare a fare economia
per pagare i debiti, formulavano nuovi progetti in funzione dei loro interessi personali. Non si facevano riunioni del Consiglio ed in una
sessione si arrivava a non più di due sedute. Il sindaco passava diversi mesi dell’anno
a Palermo, bloccando di fatto l'azione amministrativa; non si poteva
sollecitamente avere un certificato, non si potevano fare richieste di matrimonio,
non si sorvegliava sul servizio degli impiegati. Si concedevano gratis terreni demaniali agli amici; invece piccoli e
piccolissimi proprietari senza titoli, che non riuscivano a far fronte ai
debiti, venivano espropriati dei loro terreni da chi già ne possedeva la
maggior parte. Tale era l’impunità dei grandi proprietari, che non
esitavano ad appropriarsi di terre demaniali, praticare l’usura e taglieggiare
i contadini con condizioni di mezzadria che lasciava loro pochi e precari
mezzi per una stentata sopravvivenza. Questi parvenus, questi don Calogero Sedàra, presero a modello la vecchia e parassitaria nobiltà
feudale per riprodurne il modo di vivere nei loro
paesi di nascita.
È
in questa situazione amministrativa, sociale ed economica
che in Sicilia tra il 1889 e il 1892 sorsero, sotto le bandiere del
“socialismo”, i Fasci Siciliani.
A
Pietraperzia il Fascio dei lavoratori fu fondato nel settembre del 1893 per
iniziativa di Francesco Tortorici Cremona, (inteso don Ciccio Cuḍḍuzzo), poeta, autore di componimenti tuttora letti e
conosciuti da molti pietrini.
Il
Fascio dei lavoratori di Pietraperzia arrivò a contare 306 aderenti composto
quasi esclusivamente da contadini. I capi oltre al Tortorici Cremona erano
Giovanni Santogiacomo, macellaio, Antonino Di Dio e Luigi Rabita, barbieri.
Dopo
le prime manifestazioni, che si riducevano a pacifiche “passeggiate” con coccarde
e qualche sciarpa rossa, la ricca borghesia di Pietraperzia e le autorità di polizia
iniziarono a temere la
tendenza insurrezionalistica dei Fasci. Conseguenze
violente si sarebbero potute ripetere anche a Pietraperzia come già in
altri comuni siciliani. Tortorici Cremona, forse
per pressioni delle autorità locali o per convinzioni personali, si
dimise accampando motivi che sembrano solo pretesti per scansare un pericolo
che sente avvicinarsi. Alla presidenza del Fascio gli subentrerà Giovanni Santogiacomo,
un pregiudicato con precedenti penali per reati contro le persone.
Il
28 dicembre 1893 il barone Tortorici scrive al prefetto di Caltanissetta una lettera che
descrive i Fasci dei lavoratori come una organizzazione composta da anarchici e
pregiudicati, che approfitta della credulità e dell’ignoranza del popolo per
suscitare odio tra le classi. La miseria dei contadini, scrive il barone Tortorici,
è soltanto un falso pretesto perché i contadini sono tutti proprietari di terra,
i dazi sono miti, le tasse quasi inesistenti. L’incredibile lettera si conclude
con la richiesta di una compagnia di soldati per garantire l’ordine pubblico.
Il
1° gennaio 1894 fin dal primo mattino per le strade di Pietraperzia si verifica
un’inconsueta animazione. Questo insolito movimento di persone fa pensare a un
passaparola per organizzare, come già in altre località, manifestazioni di
protesta contro le autorità municipali.
Verso
le ore 13.00, all’interno della matrice, si riuniscono un gran numero di
persone. Uomini e madri di famiglia con i figli portati in braccio.
Usciti
dalla chiesa si avviarono verso il piano Santa Maria (piazza Vittorio Emanuele)
al grido di “Abbasso le tasse!”, “Siamo affamati!”. In piazza trovarono una
forza schierata di 30 soldati. La folla fu invitata a sciogliersi, e anziché
accogliere l’invito a tornarsene a casa partì una sassaiola contro i soldati
ferendone alcuni. Una sassata in testa se la prese pure il Tortorici Cremona
che assisteva da lontano alla manifestazione. I soldati, nonostante avessero
sparato alcuni colpi in aria, furono sospinti verso il muro della chiesa, a
questo punto fu ordinato di sparare sulla folla, restarono sul selciato 15
feriti e 9 morti:
1)
- BEVILACQUA
Salvatore, di anni 5.
2)
- DI CATALDO
Vincenzo, di anni 30.
3)
- GIARRIZZO Vincenzo,
(Filippo), di anni 51.
4)
- MANCUSO Vincenzo,
di anni 35.
5)
- PUZZO Paolo, di
anni 50.
6)
- RINDONE Pasquale,
di anni 22.
7)
- SIGNORINO Angelino,
di anni 21.
8)
- TRIGONA Rosario, di
anni 60.
9)
- VINCI Filippo, di
anni 50.
Dopo
l’eccidio i soldati si rifugiarono all'interno del convento di Santa Maria, lasciando il paese in mano al furore della folla. Furono distrutti l’ufficio
del telegrafo e ne incendiarono l’edificio. Fu appiccato il fuoco all'ufficio
del registro e al municipio. Pietraperzia allora era sede di pretura, fu
incendiata pure la pretura. I casotti daziari agli ingressi del paese furono
abbattuti e bruciati. Furono assaltati e devastati i due casini dei
“galantuomini”, fu tentato l’assalto alle carceri situati nel castello ma furono
respinti per due volte. Quando assalirono gli uffici dell’esattoria e della
posta, situati nelle vicinanza delle abitazione dei fratelli Mendola e del
sindaco Giuseppe Nicoletti dai balconi delle case di questi si affacciarono
alcuni uomini che spararono sugli assalitori.
Gli
incendi e le devastazioni furono limitati ai soli beni materiali e agli
edifici.
Non vi furono né uccisioni né ferimenti tra gli impiegati e nei circoli dei “civili”, mentre durante gli assalti e gli incendi, la gente inferocita gridava "Ammazzammuli tutti!".
Non vi furono né uccisioni né ferimenti tra gli impiegati e nei circoli dei “civili”, mentre durante gli assalti e gli incendi, la gente inferocita gridava "Ammazzammuli tutti!".
Nei giorni successivi ai tumulti seguirono lo scioglimento del
Fascio, arresti di massa e l’istituzione di tribunali militari. Per i disordini
di Pietraperzia furono processati a Caltanissetta 73 imputati tra questi 10
donne. Il processo durò solo 8 giorni, dal 3 all’11 aprile 1894 e si concluse con condanne durissime e ingiuste. Fra i 73
giudicabili ne furono assolti venti, gli altri furono condannati a
pene variabili da ventuno a tre anni di reclusione.
Dopo la sentenza ci furono scene di disperazione tra le grida e i pianti degli imputati e i loro congiunti. La
durezza delle condanne impietosì alcuni ufficiali del tribunale ma non i
notabili e il sindaco Nicoletti, che nel processo depose contro quei poveri
disgraziati e che ebbe l’audacia di sostenere l’inesistenza di tasse odiose nel
suo paese. “Per vendicarsi dei ribelli non ha alcun ritegno nel
contraddirsi sfacciatamente” dichiarò un ufficiale, difensore degli
imputati.
La
pena più dura, 21 anni di carcere, fu riservata al barbiere Antonino Di Dio. La
pena più pesante a una donna fu inflitta a Giovanna Buttafuoco, condannata a 10
anni.
Giuseppe De Felice Giuffrida, Il capo più rappresentativo dei Fasci siciliani e che influì sulla costituzione del Fascio di Pietraperzia fu condannato dal tribunale militare di Palermo a 18 anni. Trascorse in carcere 2 anni per essere successivamente amnistiato.
Giuseppe De Felice Giuffrida, Il capo più rappresentativo dei Fasci siciliani e che influì sulla costituzione del Fascio di Pietraperzia fu condannato dal tribunale militare di Palermo a 18 anni. Trascorse in carcere 2 anni per essere successivamente amnistiato.
“Nel
paese per molto tempo regnò il terrore. Chi aveva sognato o sperato una società
nuova dovette disilludersi. Per motivi politici e sociali la borghesia
terriera, che aveva eretto la sua fortuna sull'egemonia agraria fino ad allora
praticata, continuò a prosperare... La sconfitta dei Fasci consolidò
ulteriormente la sua egemonia. Ai vinti di sempre non rimase che scegliere fra
la rassegnazione all'antico stato di cose o l'emigrazione verso il nuovo mondo”.
Notizie storiche tratte
dalla tesi di laurea di Vincenzo Di Natale e pubblicata dalla rivista trimestrale
“Pietraperzia” n°1 – Anno IX – Gennaio /Marzo 2012
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