29 dicembre 2018

L’Interrogatorio della Contessa Maria. Un Racconto di Paolo Cortesi




per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html


La contessa alzò appena lo sguardo, ma non abbastanza a lungo perché Quaglia potesse vedere il lampo di ira muta che brillava, come un velo di lacrime, sulla pupilla ferma.
Così che l’ispettore riprese a parlare dopo la brevissima pausa con una tranquillità che non avrebbe avuto altrimenti.
La contessa Maria se ne stava seduta sull'angolo della sedia, esibendo la sua dolorosa degnazione. Aveva voluto vedere così poco di quell'ufficio (quasi che le immagini, i ricordi di quel posto le si potessero infilare nel sangue come un’infezione), che non avrebbe saputo descriverlo.
Eppure era lì, malamente seduta, irosa e con le guance calde di febbre, da quasi due ore.
L’ispettore Cosimo Quaglia le aveva fatto dare un bicchiere d’acqua, poi un caffè, poi ancora aveva chiamato – su richiesta della contessa – una sua cameriera che le aveva portato un cachet per l’emicrania. Ora la domestica stava ad attendere nella camera accanto, con tre poliziotti che le stavano attorno e le parlavano sorridendo di cinema e pasticcerie alla moda.
La contessa Maria dette un colpo di tosse; si portò il fazzoletto alle labbra. Disse:
-Purtroppo la mia emicrania non sembra diminuire neppure con il cialdino che ho preso; vi prego dunque di lasciarmi andare a casa.-
Quaglia restò un poco senza dire niente. Rimase fermo come se nessuno avesse parlato, con le mani giunte posate sulla sua scrivania. Guardò la contessa, che non lo guardava; guardò De Santis che verbalizzava e Marinoni che stava in piedi vicino alla porta chiusa, immobile, come un oggetto che non serviva a nulla ma ci doveva stare, per la completezza dell’arredamento dell’ufficio di Pubblica Sicurezza, come i ritratti del duce e del re imperatore.
-Ma capirete, signora contessa…- iniziò a dire, sottovoce, l’ispettore, poi non continuò perché sperava che la signora capisse e dicesse il resto. Ma la contessa stava zitta, aveva solo abbassato un poco di più la testa.
-Fatemi chiamare un’automobile di piazza, siate gentile.- fece la signora, ed il tono era precisamente quello che usava, da almeno trent’anni, con la servitù.
Quaglia guardò De Santis e Marinoni, i quali lo fissavano inerti.
-Signora contessa, temo che… Vorrei dire che…insomma non so se sarà possibile subito…-
La contessa Maria strinse la labbra.
-Vedete, signora contessa. Non abbiamo ancora chiarito punti essenziali, essenzialissimi, della vostra storia.- diceva l’ispettore; chi fosse entrato nella stanza in quell’istante avrebbe pensato che stava parlando ad un caro malato che tentava di indurre a prendere la medicina – Vedete, signora contessa, voi non avete detto dove eravate mentre il signor conte Ottavio decedeva…-
Tacque. Nella stanza rancida di migliaia di sigarette fumate negli anni, si udiva il ticchettio dell’orologio a parete. Era un suono nero come un calabrone. Quaglia riprese:
-Voi, signora contessa, avete detto che siete accorsa al letto del signor conte quando avete udito le sue grida. Poc’anzi, però, avete dichiarato che quando il signor conte vostro marito defungeva, voi eravate nella serra. E prima ancora avete detto che vi trovavate in cucina, a dar disposizioni per la cena.-
Silenzio, ancora. Dalla porta chiusa, dalle finestre chiuse arrivavano rumori e voci che non si potevano distinguere, erano come remoti suoni di officine, di costruzioni: sembrava che molta gente lavorasse, assai lontano.
-E ancora, scusate, non avete detto nulla in merito alle macchie di sangue sulla vostra vestaglia, sulle pantofole. Macchie grandi. E, signora contessa, perché il coltello sporco di sangue che venne, evidentemente dico, impiegato per uccidere il signor conte è stato trovato sotto il vostro cuscino?-
La contessa piegò un poco la testa di lato. Socchiuse gli occhi, come se una forte luce la abbagliasse. Sospirò più forte del solito.
Quaglia restò in attesa, ma la contessa non diceva nulla.
-Signora,- disse l’ispettore con tono invariabile – l’autista Gualtiero Chianca ha dichiarato che vi ha vista uscire in giardino dalla stanza del conte. Lì, nella fontanella, vi siete lavata le mani che erano tutte imbrattate di sangue.-
La contessa mosse ancora lievemente il capo: parve voler guardare fuori dalla finestra. Davanti al palazzo della regia questura c’era il palazzo delle poste e telegrafi (regi anch'essi); fra i due edifici stava la piazza e in quel momento c’era il mercato. Se si fosse alzata dalla sedia, se avesse allungato un po’ il collo, la contessa avrebbe visto molta gente, donne soprattutto, camminare fra le bancarelle, e fermarsi, e poi andare via, e fermarsi di nuovo poco dopo. Tutto ciò aveva l’aspetto di una colonia di formiche, nella quale i movimenti sembrano misteriosi e casuali ma non lo sono.
Quaglia parlò ancora.
-La stiratrice, la…- iniziò a muovere fogli sulla scrivania. Cercava il verbale, cercava il nome, voleva essere impeccabile. Voleva far le cose per bene, perché con la contessa Maria non si poteva fare come con gli altri, che bastava alzare la voce, mettersi in piedi davanti a loro – seduti – e dare manate sulla faccia, battere i pugni sul tavolo, sulle loro spalle. Qui ci volevano i nomi precisi, i dati circostanziati. Circostanziati, dovevano essere.
-…la… la…- ripeteva Quaglia e cercava quel foglio, che trovò e lesse con voce un poco più ferma:
-…la Melnati Miranda ha dichiarato all’inquirente che voi, signora, subito dopo la morte del signor conte avete fatto una telefonata e sul ricevitore sono rimaste chiare tracce ematiche.-
Quaglia pareva dovesse parlare a lungo, ma tacque all’improvviso, come a voler fare restare sospese nel silenzio inatteso quelle parole terribili. Sangue.
La contessa portò le mani alla borsetta che teneva posata in grembo. Parve palparla, alla ricerca di qualcosa. Non ne prese nulla e non la aprì.
-Signora contessa, abbiate la compiacenza di dirmi a chi avete telefonato pochi minuti dopo la morte di vostro marito il signor conte.-
Marinoni e De Santis fissarono la donna con una attenzione quasi spaventata, come se la donna – che pure era piccolina, gracile – potesse da un momento all’altro fare chissà quale gesto folle, impossibile e violento, come spaccarsi la testa contro la finestra, o aggredire l’ispettore e strangolarlo, o mettersi a gridare e piangere, rotolandosi per terra. O prendere fuoco.
La contessa mosse appena la testa, la alzò un poco. Rispose:
-Ho telefonato a Carmine.-
La voce era trattenuta, come se fosse stata in una chiesa.
-Chi? A chi? A chi avete telefonato, signora contessa?- domandò Quaglia, che non avrebbe insistito tanto con l’interrogativo se non fosse stato sbalordito.
-A Sua Eccellenza il prefetto Carmine Scalise.- disse la donna, tranquillamente.
Quaglia chiuse le labbra. E Marinoni e De Santis lo guardarono. 
Ora stavano tutti zitti. E dal mercato, là sotto, fuori, arrivò – attutito e come deformato ma ben comprensibile – il grido di una donna che strillava: “E’ così fresco che muove ancora la coda!”
La contessa Maria disse:
-Volete essere così gentile da chiamarmi un’auto di piazza?-
Quaglia fece:- Eh?- perché era come stordito; ma De Santis rispose subito: -Certamente, signora contessa.-, e andò nella stanza accanto a telefonare.





21 dicembre 2018

Invito alla lettura: "La donna giusta" di Sándor Márai





Una donna domanda all’amica, in una elegante pasticceria di Budapest dall'arredamento fin de siècle, a metà del Novecento, se le va un gelato al pistacchio. Si dà la cipria al naso, chiede se l’uomo alto col cappotto nero si è già fatto incartare la scorza di arancia candita dalla commessa. In mezzo alle chiacchiere, racconta il suo divorzio da quell'uomo.
Il romanzo di Márai racconta per tre volte la stessa storia. Allo stesso modo, per tre volte il lettore legge lo stesso romanzo, ogni volta tenuto da una persona diversa, ma ad un tono affine: una gravità seriosa, alleviata dalla circostanza. Le tre circostanze: l’ora del tè nella pasticceria ungherese. Un locale a Budapest dopo la mezzanotte, davanti ad un vino. La stanza di due amanti, fra le lenzuola disfatte, in piena notte, a Roma.
Ma la trama dei fatti si deve evincere dall'intersezione, diversa a seconda della combinazione, di tre racconti, fatti sullo stesso evento: un triangolo amoroso. A raccontare sono: la moglie, il marito, l’altra donna. (In ogni implicazione di estraneità, affettiva, familiare, di classe sociale). Ogni racconto, perciò, è tenuto anche all'interno del romanzo, a tre conoscenti dei tre protagonisti. Il vantaggio del lettore rispetto ai
tre ascoltatori è di possedere tutte e tre le versioni dei fatti. Fra la richiesta di offrire il tè, o passare lo zucchero, o i convenevoli con cui si scusa per essersi dilungata, nel primo racconto una moglie descriva all'amica la storia del suo fallimento coniugale.
Viene la volta del marito, poi dell’altra donna.
Intanto tuona incombente, nel racconto di ogni personaggio, il fragore della seconda guerra mondiale, che dilaniava Budapest mentre ad una donna non importava altro che di tenersi il proprio marito, in una pervicace resistenza del bisogno personale sopra le tragedie della storia.
Ma la guerra ha colpito tutti: borghesia, alta borghesia, proletariato. Queste categorie sono rappresentate da ognuno dei narratori.
E questo libro, che macina macina lo stesso avvenimento per portare alla comprensione dei suoi attori, domanda al lettore non solo chi sia la donna giusta, ma anche l’uomo giusto, nella sua categoria economico-sociale. Non a caso, si veda il titolo ungherese della versione iniziale del romanzo: “Azi gazi”, “quello giusto”, con valore neutro.
La donna giusta è un poligono di tiro fra tre storie, che ha la verità come bersaglio. Ma Márai non la fa trapelare: né dice, tra i tre personaggi, il suo favorito; né dice chi è la donna giusta.
La donna giusta è un romanzo sul potere, sull'amore e la convivenza, sulla vendetta privata e di classe sociale e sulla sopravvivenza personale e di classe sociale.

Alessia Borriello


In biblioteca di Sándor Márai è disponibile il romanzo "I RIBELLI":


























14 dicembre 2018

Udienze Scolastiche. Un Racconto di Paolo Cortesi

Un Racconto surreale di Paolo Cortesi. Un futuro al contrario in un paese che non legge, dove i libri sono un pericoloso strumento di conoscenza e ai bambini si regalano smartphone e videogiochi per tenerli lontani dai libri.

per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html



Domani, in Italia…

Si sistemò i capelli, un ciuffo rotondo al lato della fronte, e il gesto sembrò in qualche modo legato a quello che disse subito dopo:
-Io capisco... vi capisco bene... però, voi capite...-
La donna si affrettò a rispondere alla professoressa:
-Sì sì sì, ma certo-, poi dopo questo lampo di parole, imprevisto come un accesso di tosse, la donna tacque e restò in attesa e mostrò di aver fatto tutto quello che si poteva aspettare da lei.
La professoressa Siliani Giuliana toccò ancora il ciuffo dei capelli; era evidentemente il gesto che ripeteva quand'era imbarazzata. Disse:
-A un certo punto, il consiglio dei docenti ha creduto giusto, direi doveroso, avvertire voi genitori.-
La mamma di Carlo fece sì con la testa e guardò la punta delle dita della professoressa. Il babbo di Carlo non aveva ancora detto niente, solo buongiorno quand'era entrato nella sala insegnanti, dieci minuti prima.
Il padre di Carlo aveva un'autofficina; era piuttosto ricco, ma il suo aspetto era quello di un lavoratore povero che usava muscoli e tenaglie; aveva le mani grosse, le dita quasi gonfie, curve, con tanti taglietti scuri sui polpastrelli, sul dorso e sulle nocche; aveva le macchie del grasso e della morchia che, anche dopo il lavaggio col sapone speciale, lasciavano un alone scuro, come di ustioni.
La professoressa non si aspettava che lui intervenisse nella conversazione; pensava che la moglie se lo fosse portato dietro perché finalmente si occupasse un po' pure lui del figlio. Nei suoi vent'anni di scuola, ne aveva visti tanti di padri così, che dei figli sanno poco e non ci vogliono perdere tanto tempo. Non sono cattivi, ma sono pigri e rassegnati; i figli sono loro estranei quanto un condomino con cui si scambiano appena i saluti.
Così, il babbo di Carlo (si chiamava Ennio) stava seduto e con la pancia pareva reggere la scrivania a cui sedeva, dall'altro lato, la professoressa; accanto a lui, la moglie Anna occupava poco spazio, perché era magrolina e raccolta e si vedeva che non era a suo agio.
-Carlo è un ragazzino bravo.- iniziò a dire la professoressa -È intelligente e ben relazionato in classe.-
Anna sorrise.
-Non si distrae spesso e partecipa alle lezioni con contributi personali.- continuava la Siliani. Anna pensava che diceva tutte queste cose belle per prepararli alla botta finale.
Ennio intervenne:
-Se va così bene, perché ci ha chiamato qua?- domandò senza staccare le manone che teneva intrecciate, sulla scrivania.
Anna gli toccò un braccio e disse, guardando la professoressa:
-Stai buono. Lascia parlare la signora.-
La Siliani fece un mezzo sorriso e disse in un soffio:
-No per carità, dica pure.- e bastò questo perché Ennio tacesse.
-Carlo non è un ragazzino difficile, problematico.- continuò la professoressa -Per questo abbiamo pensato opportuno intervenire subito, prima che sia un po' tardi...-
-Tardi?- mormorò Anna. La botta era arrivata.
-Sì, perché il comportamento di Carlo... cioè, noi abbiamo capito che è un ragazzino capace, ma può prendere una.... eh...-
Ennio fece, con gli occhi spalancati, come aggredito:
-Una brutta strada?-
-Non volevo dire così, però... insomma... ecco... come dire?...-
Ennio restava incerto e immobile, guardava la moglie e aspettava di uniformarsi alla sua reazione. Anna, però, sembrava inerte: fissava la professoressa e teneva sulla faccia un sorriso piccolo, sommesso, quasi involontario. La professoressa Siliani capì che non era il caso di tirarla tanto lunga; i due genitori che le stavano davanti non sembravano capaci di partecipare in modo costruttivo alla chiacchierata. Doveva dire tutto chiaro e tondo. Loro non volevano altro. Anche se la faccenda si faceva, per lei, più faticosa.
-Vede, signora, noi lasciamo ai ragazzi una certa libertà, perché se no la scuola sarebbe...sarebbe...sarebbe una galera, una caserma...eh?- disse la professoressa, con tono conciliante.
-Sì sì.- Anche Ennio disse:
-.-
Siliani annuì e continuò:
-Però bisogna che ci sia il controllo da parte nostra, da parte degli educatori. Così noi cerchiamo di stare vicino ai ragazzini soprattutto quando vediamo che c'è qualcosa che non va... che non va bene... qualcosa che noi abituati a conoscerli e a vivere con loro tutti i giorni...-
-Ma cos'ha fatto Carlo?- esclamò Ennio e mise tutta la sua anima nelle parole, dette a voce più alta e piena, senza muoversi, con le due mani posate sul bordo della scrivania.
-È un'età delicata. È adesso che si formano per il domani.- rispose la professoressa e pareva che non avesse neppure ascoltato l'uomo.
-Allora?- incalzò Anna, supplichevole.
La Siliani aprì un cassetto della scrivania, estrasse un libro e lo posò davanti ai due genitori, che lo fissarono come se non fosse un libro, ma un pezzo di carne appena tagliata dal corpo del figlio.
Era "Le avventure di Huckleberry Finn" di Mark Twain; un piccolo libro che aveva un disegno colorato in copertina.
Il babbo ebbe un rantolo sofferto:
-E questo?...-
La professoressa disse:
-Gliel'ho sequestrato due giorni fa. Prima ancora gli avevo preso questo. Non vi avevo detto niente. Volevo aspettare. Volevo capire.-
Posò accanto al libro un altro volumetto: l'Odissea in una versione per ragazzi. Entrambi i libri erano vecchi, con le copertine opache per un velo appiccicaticcio di sporcizia e polvere. Gli angoli delle pagine avevano pieghette e tagli.
Ennio fece:
-Madonna...- e alzò un po' la testa, come per allontanarsi dagli oggetti che sembravano due cadaverini sul tavolo.
La mamma Anna domandò con apprensione:
-Ma è sicura che li avesse Carlo? Non poteva averli un suo compagno? Magari glieli hanno messi sotto al banco e lui non sapeva niente.-
La professoressa fece un sorriso bonario, mosse un po' la testa per negare, rispose con la dolcezza che si usa coi malati:
-Mi dispiace, ma li aveva Carlo. Li stava leggendo.-
Anna si portò le mani alla bocca. Ennio strinse i pugni furiosamente, emise un gemito, poi:
-Li leggeva lui? Lei lo ha visto che li leggeva?-
La Siliani disse sì con un filo di voce, appena udibile, come se volesse avvicinarsi quanto più possibile al silenzio.
Per la prima volta, i due genitori si guardarono l'un l'altra. Anna abbassò subito gli occhi, ed Ennio si mordicchiò l'unghia nera del pollice.
-Leggeva i libri.- sussurrò.
La professoressa cominciava a pentirsi di non aver voluto la psicologa di classe accanto a sé. Aveva sottovalutato il dolore dei genitori.
-Ma lui cosa dice?- domandò Ennio, con la voce incontrollata con cui si rivolgeva ai suoi lavoranti.
-Sì. Gli ha parlato? Ne avete parlato?- domandò Anna.
-Dice che gli piace leggere.- rispose in fretta la Siliani.
Ennio chiuse gli occhi. Restò così per un minuto. Poi fece un gran respiro e prese fiato come se stesse per alzare un grosso peso e disse inarrestabile:
-Io non lo so. Non lo so. Ci siamo stati attenti a quel bambino. Magari io ero spesso al lavoro e non stavo tanto a casa. Ma lei capisce. Chi porta i soldi a casa, se no? E come si campa senza soldi? Ma mia moglie è sempre stata brava. Gli è sempre stata attenta. Fin da piccolo piccolo che andava all'asilo gli abbiamo comprato tutti i film che uscivano, poi le musiche. Tutte le canzoni. Tutte. Guardava sempre la tv. Ma mi creda: sempre. Entrava a casa, lo mettevamo davanti alla tv e ci stava per sette otto ore. A due anni già conosceva tutti i gruppi, i solisti. Perfino gli svedesi. Cantava le canzoni senza sbagliare una parola. Poi lo abbiamo iscritto subito a balletto e poi al corso di comico con specializzazione cabaret. Abbiamo speso un sacco di soldi. Eh Anna? Poi cosa abbiamo fatto? Ah sì! A sei anni, a sette non mi ricordo, lo abbiamo iscritto a un corso di ipod. Il suo primo smartphone gliel'abbiamo regalato quando gli è spuntato il primo dentino. Era piccolino e conosceva tutti i nomi dei suv dei fuoristrada delle macchine sportive. Lo portavo con me sempre alla partita sempre sempre. Pensi che è stato per un paio d'anni la mascotte ufficiale del mio gruppo di ultras. Gli volevano tutti bene. Cantava le canzoni della tifoseria e ne sapeva tante a memoria. Eh Anna? ti ricordi? Allo stadio una volta ha anche avuto il microfono e cantava e tutti tutti in cinquantamila gli hanno battuto le mani. Mi è venuta la pelle d'oca, giuro. Guardi, in casa non c'è mai stato un libro ma mai mai; pensi che una volta..."
Anna tentò di placare la foga affannata del marito:
-Ennio, la professoressa non...-
-Ma un minuto! Solo un minuto!- gridò lui, perché si doveva capire bene che non aveva colpa -Pensi che una volta, in tv, vide una scena d'un vecchio film dove c'era un libro. Era una scena in prima serata che era scappata alla censura. Mi chiese: babbo cos'è? e io: ma niente, una roba vecchia brutta schifosa puzzolente che non c'è più. Lui voleva sapere cos'era a cosa serviva, ma io dissi subito: no no non devi interessarti di quella roba che fa male che rovina la gente.-
Ennio si arrestò, esausto, disorientato. Aveva la faccia di chi è arrivato correndo in un posto che non conosce.
La moglie Anna, dopo una breve pausa in cui tutti stavano in attesa, intervenne cauta:
-Guardi che noi ci siamo stati sempre attenti, al bambino. Pensi che una volta lui trovò un libro vecchio rotto in casa della nonna...-
-Tua mamma.- esclamò Ennio, assorto.
-Sì. Appena gli ho visto quella cosa tra le mani gliel'ho presa, gliel'ho buttata via.-
La professoressa intervenne:
-Ma forse era meglio se non dava peso, se glielo portava via dolcemente. Così forse ha fatto nascere in lui un interesse morboso, una curiosità che altrimenti non avrebbe avuto.-
-Eh dice bene lei.- rispose Anna, risentita, che si sentiva accusata -Ma quando ho visto quella cosa nelle sue manine... guardi, mi si è gelato il sangue nelle vene... avrei voluto vedere lei...-
Poi Anna tacque, perché non voleva irritare la professoressa. Esiste sempre un limite che chi non ha potere non valica mai.
La Siliani sorrise e abbassò lo sguardo, e guardando le mani grosse di Ennio disse:
-Adesso dobbiamo solo pensare al bene di Carlo. Il consiglio docenti gli ha affiancato un sostegno per il corso di analfabetismo.-
-Il sostegno.- mormorò Anna e guardò appena il marito, che sembrava non essere più in grado di parlare, dopo quella tirata fitta di prima.
-Sì, ma non vuol dire niente, non si preoccupi. È solo un aiuto, un sostegno. Non pensi male.-
-Il sostegno.- ripeté Anna, e nella sua voce perduta la parola suonava come il nome di una malattia.
La Siliani aveva già visto altre volte certe facce, certi occhi. Stava per dire le solite cose per consolare i genitori sconvolti. Si vergognava un po', dopo tanti anni, a recitare sempre la stessa parte e dire le stesse cose. Era stanca di vedere le facce patite e dolenti dei genitori che scoprivano figli diversi da quelli che credevano di avere in casa.
-Non vi preoccupate troppo.- iniziò a dire e ripeté quasi esattamente ciò che aveva detto la settimana prima a genitori convocati perché la figlia sapeva a memoria L'infinito che aveva detto ad un'amica di nascosto -Con un corso intensivo di un paio di mesi, Carlo diventerà analfabeta irreversibile. Qui seguiamo il corso psicodidattico di Khek Zalovic. E fra poco il vostro bambino avrà tanto orrore dei libri che non vorrà neppure vederne uno.-
-È colpa di quei porci che spacciano libri ai bambini!- esclamò Ennio, che misteriosamente puntò il grosso indice verso la faccia della professoressa e lo tenne così finché quella non sembrò annuire -La pena di morte ci vorrebbe, per quei delinquenti maledetti che rovinano i bambini! La pena di morte ci vorrebbe.-
Tacquero. La Siliani stava per iniziare la lenta goffa fase dei saluti, quando Ennio, fissandosi il dito, disse a voce bassa, parlando al suo dolore:
-Ma se ne prendo uno......-



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