30 aprile 2019

"CAMPANA" di Paolo Cortesi




per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html

Dino Campana l'altro giovane favoloso
Dicevano che era matto. Io, che lo vidi e ci parlai due volte, non so dire se lo fosse davvero: so soltanto che mi sembrava sempre o più saggio di ogni saggio, o più folle di ogni pazzo; ecco: un uomo eccezionale, che rivelava poco di sé e forse nascondeva il meglio. Certo, questo - forse- vuol dire essere matti, ma la sua pazzia (se pazzia fu davvero) era luminosa e forte, non tetra e muta e crudele come la pazzia che disperde le parole, spegne lo sguardo in una lucentezza dura di bilia.
Lo incontrai la prima volta che la terra fumava d'una nebbia opaca e lenta. Sembrava, la terra, un gigantesco animale nero dal cui dorso saliva un vapore biancastro, come si vede sulle schiene dei cavalli dopo un lungo galoppo. Era una bruma opaca, lattiginosa, che stratificava in bande più spesse attorno a cespugli e tronchi neri, e diradava fino a sparire, creando un varco che lacerava quella misteriosa tela aerea.
Pareva, anche, che la terra respirasse, che da lei salisse a un ritmo sconosciuto quel respiro che prendeva forma visibile d'una brina fluttuante nell'aria.
Eravamo a Casetta di Tiara, l'autunno incupiva, veniva vento freddo dalle cime delle montagne e le nuvole erano grosse e scure, piene di pioggia.
Io, a quel tempo, volevo fare il pittore; ero giovane, ero ingenuo, e credevo che la nostra vita sia veramente nostra. Non è così. Ho imparato, con dolore, che la nostra vita è quello che ci lasciano vivere gli altri, quelli che decidono, che comandano, che hanno i soldi e vivono come vogliono; quelli che dicono sempre "eh, la vita è fatta così, bisogna accontentarsi"; ma loro, invece, non si accontentano di nulla che non sia ciò che a loro piace.
Insegnano la rassegnazione e la pazienza, ma loro -i signori, i ricchi, i padroni- non farebbero mai nulla di quanto dicono agli altri: non vogliono nient'altro di ciò che decidono per sé.
A quel tempo, io ero giovane e sognavo di fare il pittore. Mi dicevo: "sono bravo, ho studiato, l'arte è una cosa nobile e bella, perché non potrei fare il pittore?". Ero giovane e sprovveduto, credevo che uno avesse tutto il diritto di scegliersi la vita che vuole; mentre invece non è così; per noi, non è così.
Ero andato ad abitare per l'estate in una casa di pietra che mi aveva affittato una vecchia zitella.
Avevo una camera con appena un letto, due sedie e un tavolo, ma ero molto felice e sentivo che lì un pittore poteva lavorare molto bene. D'estate uscivo al mattino presto, subito dopo essermi lavato la faccia nel catino di smalto. Il monte brillava dentro la luce del sole che saliva; era come attraversato dal chiarore che si dilatava in un polverio infinito di schegge di luce bianchissima.
Portavo il cavalletto e la tela e la scatola dei colori e pennelli. Era faticoso e spesso dovevo aggrapparmi agli alberi per issarmi, per non scivolare. Ricordo ancora la superficie ruvida, come arsa, dei carpini.
Un'altra cosa bellissima di quei giorni lontani è il profumo dell'olio di lino che si mescolava con l'odore della terra calda brulicante, delle foglie che splendevano al sole come cocci verdi delle bottiglie. Era tutto caldo e quieto, e io sentivo ronzare gli insetti che non si vedevano.
Dipingevo tutti i giorni, per diverse ore, ed ero molto felice. Non sapevo che era tutto inutile e che non sarei mai stato pittore, ma in quel tempo ero così felice, tanto ingenuo e ancora sicuro che ciascuno potesse essere ciò che si sentiva dentro.
Adesso che ci penso, forse il matto mi aveva visto molto tempo prima, perché lui nel bosco ci girava come se fosse tutto suo: si muoveva non solo con sicurezza (anche i montanari del luogo sapevano tutti i sentieri), ma anche con una certa franca scioltezza, direi con eleganza.
Io non lo vedevo, ma lui certo vedeva me, ma non volle mostrarsi. Non credo che si nascondesse, credo anzi che non temesse nulla da un pittore, ma evidentemente non voleva ancora farsi vedere.
Passò l'estate; era l'estate del 1916 e la gente che mi vedeva di certo si domandava perché mai quel giovane non fosse andato alla guerra, e io ormai non mi curavo più di far sapere che ero tisico, come se dovessi giustificarmi del fatto che non ero ancora morto, perché così dovevo finire: morto d'uno sputo di sangue o morto con una palla in testa, così dovevo finire, per la gente.
Arrivò l'autunno; io vivevo ancora nella piccola casa di pietra; passava meno gente per il sentiero davanti alla mia porta. Gli alberi si fecero più sottili e persero ogni colore, diventando segni neri scomposti che solcavano il cielo fumoso. Tutto divenne più silenzioso.
Un mattino - ricordo che era un sabato - ero andato a fare schizzi al torrente Rovigo: volevo cercare di ricreare l'effetto di trasparenza senza riverberi dell'acqua sotto il cielo bianco. Ero troppo ambizioso, a quel tempo; come tutti i giovani inesperti sapevo trovare belle idee ma non avevo la forza per realizzarle. Me ne stavo intirizzito, sentivo che non riuscivo a disegnare ciò che avevo pensato, ma volevo ostinarmi, insistevo, convinto che con uno sforzo più intenso avrei ottenuto ciò che desideravo.
Non l'avevo visto arrivare, così, quando parlò alle mie spalle, ebbi uno scossone, terrorizzato, e mi si spezzò il respiro.
Lui disse con voce molto bassa:
-Fate male ad intestardirvi.-
Io fui sorpreso non solo del fatto che quello era arrivato come una foglia caduta da un ramo, ma ancor più perché pareva avermi osservato a lungo, abbastanza a lungo da vedere la mia ostinazione senza successo.
Dissi qualcosa sulla difficoltà dell'effetto di luce che cercavo di rappresentare e lui rispose:
-Voi cercate l'inessenziale, per questo fallite.-
Capii che così non parlava un contadino.
-Anche voi siete pittore?- gli domandai.
Mi volsi verso di lui. Era un uomo giovane, non alto, massiccio, aveva la faccia larga, occhi chiari e capelli rossicci, baffi e barba un poco più scuri. Stava a braccia conserte sul petto e teneva le gambe una davanti all'altra, quasi cercasse un migliore equilibrio, come un marinaio sulla tolda quando il mare è mosso.
-Sono poeta.- rispose -Sono l'ultimo poeta barbarico.-
Non mi stupivano i tipi bizzarri: ne avevo conosciuti tanti fra i miei amici pittori.
-Voi siete barbarico?- gli chiesi molto incuriosito.
-Sissignore. L'ultimo dei germani. Nella mia anima alberga la purezza originaria della parola.-
-Attento a parlare di germanici, amico mio. Con questa guerra non è bene dire certe cose.-
Il giovane sbarrò gli occhi e mi fissò sbalordito.
-Voi siete un poliziotto?- mi domandò.
-Ah no! No, proprio no!-
Fece due tre passi indietro; ora la sua straordinaria agilità e il suo perfetto equilibrio sulla terra scoscesa erano diventate una postura incerta, e lui s'era come ingobbito, curvato sotto un peso invisibile.
-Ah cane!- esclamò agitando le mani -cane d'un italiano! cane d'una guardia! cane d'uno sbirro!-
Scappò via; lo sentii parlare da solo.
Firenze, quando c'è il sole, diventa grandissima e leggera.
I palazzi, che pure sai essere enormi masse di mattoni e marmo e pietra, sembrano così lievi che il vento potrebbe farli ondeggiare, come grosse foglie. E le facciate delle case, delle chiese rimandano la luce, che si moltiplica, schiarendo, in un quieto vortice di luminosità e scintillii abbaglianti.
Quando c'è il sole, Firenze diventa calda come una mano che tocca il forno. E', infatti, un tepore pieno e sano di cosa viva, che fa star bene, che rassicura e conforta.
E la gente a Firenze, quando c'è il sole, è più serena e sembra assorbire nel corpo il calore vitale che scende dal cielo brillante, che sale dalle strade.
In quei giorni, ero tornato dai monti del Mugello. Non sapevo più niente di me: se ero o no pittore, se avrei potuto vivere della mia arte, se ero o no felice. Ero giovane, mi illudevo di poter giudicare e vivere la mia vita, e solo la fatica e l'amarezza mi hanno fatto piegare la testa e fissare la realtà, e capire che noi tutti siamo anelli di una catena di cui non vedremo mai le estremità.
Ero andato a Firenze, quell'estate del 1917, con gli ultimi risparmi rimasti. Pochi giorni ancora e non avrei avuto di che pagare vitto e alloggio e vestiti: la tassa sull'esistenza. In quegli istanti di accettata incoscienza, andai al caffè delle Giubbe Rosse; mi dicevo: se fra poco sarò un barbone sotto il Ponte alle Grazie, tanto vale che mi conceda adesso, finché ho tre lire in tasca, un po' di piacere, un po' di lusso. E questa mia decisione -che riconoscevo stupida e inutile- mi dette un po' di coraggio.
Entrai al caffè e subito mi avvolse una frescura di caverna. C'era tanta gente e io guardai tutti con curiosità, quasi con cura: guardavo e mi dicevo "ecco, vedi, questi sono tutti più fortunati di te e quando torneranno a casa troveranno una bella famiglia, i domestici premurosi, i guanciali soffici".
Sedetti al tavolo più vicino all'ingresso, così da poter guardare il passeggio nella piazza che si apriva davanti alle vetrine e all'ottone delle Giubbe Rosse. Chiamai il cameriere e quello arrivò subito, ma restò un attimo perplesso vedendo le mie scarpe sporche e il mio vestito liso. Presi di tasca i soldi, li passai nell'altra tasca solo per farglieli vedere (e questo mi pare lo tranquillizzò) e dissi con finta noncuranza:
-Per piacere, favoritemi una birra ghiacciata.-
Il cameriere fece un cenno con la testa, che non mi parve lo stesso inchino che faceva agli altri clienti -quelli vestiti bene-, ma piuttosto un assenso. Aspettavo la birra e guardavo fuori; non pensavo a niente, non volevo pensare perché il pensiero è il peggior nemico di chi è povero.
La gente che camminava nella piazza mi sembrava, tutta, tranquilla e sazia, pareva che tutti avessero un posto da raggiungere in fretta, un posto in cui ciascuno sarebbe stato bene. All'improvviso apparve davanti a me, oscurando la visione della piazza, un uomo.
-Mi riconoscete?- domandò a voce un po' troppo alta. Alzai la testa e lo guardai sorpreso.
Mi parve di averlo già visto, ma non riuscivo a capire, a fissare l'idea.
L'uomo mi fissava e sorrideva, aveva lo sguardo divertito dal mio stupore. Riconobbi gli occhi chiari e accesi, i capelli rossi e scomposti.
-Ah ma voi siete il poeta della montagna!- esclamai alzandomi in piedi.
Lui rise forte e la gente si girò a guardare. Diceva:
-Il poeta della montagna! Sì! Sono il poeta della montagna!-
Si sedette al mio tavolino senza aspettare che lo invitassi. Mi chiese cosa facevo a Firenze e io gli dissi un po' di me.
-Non è importante essere un grande artista.- fece lui -Ciò che conta davvero è essere un puro artista.-
-Dite bene, voi. Ma anche il puro artista mangia e veste panni.-
-Lo so.- rispose duramente, forse deluso dalla mia osservazione.
-E come pago l'affitto di casa? Con i quadri?- continuai, quasi incattivito.
-Arte e soldi non hanno niente in comune. Si escludono a vicenda come la luce e il buio. Dovete scegliere: o arte, o soldi.-
-Sì, capisco. Ma se muoio di fame, la mia arte finisce lì.-
-Sbagliate: l'arte è la sola risposta dell'uomo alle pretese della morte.-
-Questo lo credevo anch'io.- dissi -Ma adesso non la penso più così. L'arte deve comunicare, deve aprirsi al mondo, deve essere di tutti; se no non esiste. L'arte chiusa nel cassetto non è arte.-
-Ma non può essere neppure un mestiere.- ribatté il mio interlocutore- Il muratore deve obbedire al capomastro; il falegname deve accontentare chi gli chiede un armadio. L'artista non può avere un padrone e dunque non può avere un mestiere.-
-Eppure ci sono grandi artisti pieni di soldi.- dissi.
L'uomo non rispose; affondò la destra sotto la maglia e ne estrasse un libriccino sottile, con la copertina d'un giallo sbiadito.
Me lo porse e io lessi il nome di Dino Campana e il titolo "Canti Orfici".
-Avete una lira e mezza?- mi chiese il giovane uomo, porgendomi il librino.
-Ne ho tre in tutto e devo pagare la birra.-
-Datemi allora una lira.-
Nella voce di quell'uomo sentivo una trepidazione dolorosa.
-Forse è meglio se offrite il vostro libro ad un altro.- dissi.
Temevo che quel tipo strambo avrebbe insistito, magari avrebbe gridato; invece Campana non ebbe alcuna reazione.
Ora, penso che egli era abituato a certi rifiuti e non gli facevano più male.
Ripose il libro sotto la maglia, disse "buona fortuna" e se ne andò.
Uscì dall'ombra del caffè e, sulla piazza, fu avvolto dalla luce polverosa che fece più sottile la sua figura. Lo guardai andare verso via degli Strozzi. Camminava pestando i piedi, con le braccia pesanti lungo i fianchi, come fanno i montanari, come andando contro un vento sempre contrario.





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