per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html
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Dino Campana l'altro giovane favoloso |
Dicevano
che era matto. Io, che lo vidi e ci parlai due volte, non so dire se lo fosse
davvero: so soltanto che mi sembrava sempre o più saggio di ogni saggio, o più
folle di ogni pazzo; ecco: un uomo eccezionale, che rivelava poco di sé e forse
nascondeva il meglio. Certo, questo - forse- vuol dire essere matti, ma la sua
pazzia (se pazzia fu davvero) era luminosa e forte, non tetra e muta e crudele
come la pazzia che disperde le parole, spegne lo sguardo in una lucentezza dura
di bilia.
Lo
incontrai la prima volta che la terra fumava d'una nebbia opaca e lenta.
Sembrava, la terra, un gigantesco animale nero dal cui dorso saliva un vapore
biancastro, come si vede sulle schiene dei cavalli dopo un lungo galoppo. Era
una bruma opaca, lattiginosa, che stratificava in bande più spesse attorno a
cespugli e tronchi neri, e diradava fino a sparire, creando un varco che
lacerava quella misteriosa tela aerea.
Pareva,
anche, che la terra respirasse, che da lei salisse a un ritmo sconosciuto quel
respiro che prendeva forma visibile d'una brina fluttuante nell'aria.
Eravamo
a Casetta di Tiara, l'autunno incupiva, veniva vento freddo dalle cime delle
montagne e le nuvole erano grosse e scure, piene di pioggia.
Io,
a quel tempo, volevo fare il pittore; ero giovane, ero ingenuo, e credevo che
la nostra vita sia veramente nostra. Non è così. Ho imparato, con dolore, che
la nostra vita è quello che ci lasciano vivere gli altri, quelli che decidono,
che comandano, che hanno i soldi e vivono come vogliono; quelli che dicono
sempre "eh, la vita è fatta così, bisogna accontentarsi"; ma loro,
invece, non si accontentano di nulla che non sia ciò che a loro piace.
Insegnano
la rassegnazione e la pazienza, ma loro -i signori, i ricchi, i padroni- non
farebbero mai nulla di quanto dicono agli altri: non vogliono nient'altro di
ciò che decidono per sé.
A
quel tempo, io ero giovane e sognavo di fare il pittore. Mi dicevo: "sono
bravo, ho studiato, l'arte è una cosa nobile e bella, perché non potrei fare il
pittore?". Ero giovane e sprovveduto, credevo che uno avesse tutto il
diritto di scegliersi la vita che vuole; mentre invece non è così; per noi, non
è così.
Ero
andato ad abitare per l'estate in una casa di pietra che mi aveva affittato una
vecchia zitella.
Avevo
una camera con appena un letto, due sedie e un tavolo, ma ero molto felice e
sentivo che lì un pittore poteva lavorare molto bene. D'estate uscivo al
mattino presto, subito dopo essermi lavato la faccia nel catino di smalto. Il
monte brillava dentro la luce del sole che saliva; era come attraversato dal
chiarore che si dilatava in un polverio infinito di schegge di luce
bianchissima.
Portavo
il cavalletto e la tela e la scatola dei colori e pennelli. Era faticoso e
spesso dovevo aggrapparmi agli alberi per issarmi, per non scivolare. Ricordo
ancora la superficie ruvida, come arsa, dei carpini.
Un'altra
cosa bellissima di quei giorni lontani è il profumo dell'olio di lino che si
mescolava con l'odore della terra calda brulicante, delle foglie che
splendevano al sole come cocci verdi delle bottiglie. Era tutto caldo e quieto,
e io sentivo ronzare gli insetti che non si vedevano.
Dipingevo
tutti i giorni, per diverse ore, ed ero molto felice. Non sapevo che era tutto
inutile e che non sarei mai stato pittore, ma in quel tempo ero così felice,
tanto ingenuo e ancora sicuro che ciascuno potesse essere ciò che si sentiva
dentro.
Adesso
che ci penso, forse il matto mi aveva visto molto tempo prima, perché lui nel
bosco ci girava come se fosse tutto suo: si muoveva non solo con sicurezza
(anche i montanari del luogo sapevano tutti i sentieri), ma anche con una certa
franca scioltezza, direi con eleganza.
Io
non lo vedevo, ma lui certo vedeva me, ma non volle mostrarsi. Non credo che si
nascondesse, credo anzi che non temesse nulla da un pittore, ma evidentemente
non voleva ancora farsi vedere.
Passò
l'estate; era l'estate del 1916 e la gente che mi vedeva di certo si domandava
perché mai quel giovane non fosse andato alla guerra, e io ormai non mi curavo
più di far sapere che ero tisico, come se dovessi giustificarmi del fatto che
non ero ancora morto, perché così dovevo finire: morto d'uno sputo di sangue o
morto con una palla in testa, così dovevo finire, per la gente.
Arrivò
l'autunno; io vivevo ancora nella piccola casa di pietra; passava meno gente
per il sentiero davanti alla mia porta. Gli alberi si fecero più sottili e
persero ogni colore, diventando segni neri scomposti che solcavano il cielo
fumoso. Tutto divenne più silenzioso.
Un
mattino - ricordo che era un sabato - ero andato a fare schizzi al torrente
Rovigo: volevo cercare di ricreare l'effetto di trasparenza senza riverberi
dell'acqua sotto il cielo bianco. Ero troppo ambizioso, a quel tempo; come
tutti i giovani inesperti sapevo trovare belle idee ma non avevo la forza per
realizzarle. Me ne stavo intirizzito, sentivo che non riuscivo a disegnare ciò
che avevo pensato, ma volevo ostinarmi, insistevo, convinto che con uno sforzo
più intenso avrei ottenuto ciò che desideravo.
Non
l'avevo visto arrivare, così, quando parlò alle mie spalle, ebbi uno scossone,
terrorizzato, e mi si spezzò il respiro.
Lui
disse con voce molto bassa:
-Fate
male ad intestardirvi.-
Io
fui sorpreso non solo del fatto che quello era arrivato come una foglia caduta
da un ramo, ma ancor più perché pareva avermi osservato a lungo, abbastanza a
lungo da vedere la mia ostinazione senza successo.
Dissi
qualcosa sulla difficoltà dell'effetto di luce che cercavo di rappresentare e
lui rispose:
-Voi
cercate l'inessenziale, per questo fallite.-
Capii
che così non parlava un contadino.
-Anche
voi siete pittore?- gli domandai.
Mi
volsi verso di lui. Era un uomo giovane, non alto, massiccio, aveva la faccia
larga, occhi chiari e capelli rossicci, baffi e barba un poco più scuri. Stava
a braccia conserte sul petto e teneva le gambe una davanti all'altra, quasi
cercasse un migliore equilibrio, come un marinaio sulla tolda quando il mare è
mosso.
-Sono
poeta.- rispose -Sono l'ultimo poeta barbarico.-
Non
mi stupivano i tipi bizzarri: ne avevo conosciuti tanti fra i miei amici
pittori.
-Voi
siete barbarico?- gli chiesi molto incuriosito.
-Sissignore.
L'ultimo dei germani. Nella mia anima alberga la purezza originaria della
parola.-
-Attento
a parlare di germanici, amico mio. Con questa guerra non è bene dire certe cose.-
Il
giovane sbarrò gli occhi e mi fissò sbalordito.
-Voi
siete un poliziotto?- mi domandò.
-Ah
no! No, proprio no!-
Fece
due tre passi indietro; ora la sua straordinaria agilità e il suo perfetto
equilibrio sulla terra scoscesa erano diventate una postura incerta, e lui
s'era come ingobbito, curvato sotto un peso invisibile.
-Ah
cane!- esclamò agitando le mani -cane d'un italiano! cane d'una guardia! cane
d'uno sbirro!-
Scappò
via; lo sentii parlare da solo.
Firenze,
quando c'è il sole, diventa grandissima e leggera.
I
palazzi, che pure sai essere enormi masse di mattoni e marmo e pietra, sembrano
così lievi che il vento potrebbe farli ondeggiare, come grosse foglie. E le
facciate delle case, delle chiese rimandano la luce, che si moltiplica,
schiarendo, in un quieto vortice di luminosità e scintillii abbaglianti.
Quando
c'è il sole, Firenze diventa calda come una mano che tocca il forno. E',
infatti, un tepore pieno e sano di cosa viva, che fa star bene, che rassicura e
conforta.
E
la gente a Firenze, quando c'è il sole, è più serena e sembra assorbire nel
corpo il calore vitale che scende dal cielo brillante, che sale dalle strade.
In
quei giorni, ero tornato dai monti del Mugello. Non sapevo più niente di me: se
ero o no pittore, se avrei potuto vivere della mia arte, se ero o no felice.
Ero giovane, mi illudevo di poter giudicare e vivere la mia vita, e solo la
fatica e l'amarezza mi hanno fatto piegare la testa e fissare la realtà, e
capire che noi tutti siamo anelli di una catena di cui non vedremo mai le
estremità.
Ero
andato a Firenze, quell'estate del 1917, con gli ultimi risparmi rimasti. Pochi
giorni ancora e non avrei avuto di che pagare vitto e alloggio e vestiti: la
tassa sull'esistenza. In quegli istanti di accettata incoscienza, andai al
caffè delle Giubbe Rosse; mi dicevo: se fra poco sarò un barbone sotto il Ponte
alle Grazie, tanto vale che mi conceda adesso, finché ho tre lire in tasca, un
po' di piacere, un po' di lusso. E questa mia decisione -che riconoscevo
stupida e inutile- mi dette un po' di coraggio.
Entrai
al caffè e subito mi avvolse una frescura di caverna. C'era tanta gente e io
guardai tutti con curiosità, quasi con cura: guardavo e mi dicevo "ecco,
vedi, questi sono tutti più fortunati di te e quando torneranno a casa troveranno
una bella famiglia, i domestici premurosi, i guanciali soffici".
Sedetti
al tavolo più vicino all'ingresso, così da poter guardare il passeggio nella
piazza che si apriva davanti alle vetrine e all'ottone delle Giubbe Rosse.
Chiamai il cameriere e quello arrivò subito, ma restò un attimo perplesso
vedendo le mie scarpe sporche e il mio vestito liso. Presi di tasca i soldi, li
passai nell'altra tasca solo per farglieli vedere (e questo mi pare lo
tranquillizzò) e dissi con finta noncuranza:
-Per
piacere, favoritemi una birra ghiacciata.-
Il
cameriere fece un cenno con la testa, che non mi parve lo stesso inchino che
faceva agli altri clienti -quelli vestiti bene-, ma piuttosto un assenso.
Aspettavo la birra e guardavo fuori; non pensavo a niente, non volevo pensare
perché il pensiero è il peggior nemico di chi è povero.
La
gente che camminava nella piazza mi sembrava, tutta, tranquilla e sazia, pareva
che tutti avessero un posto da raggiungere in fretta, un posto in cui ciascuno
sarebbe stato bene. All'improvviso apparve davanti a me, oscurando la visione
della piazza, un uomo.
-Mi
riconoscete?- domandò a voce un po' troppo alta. Alzai la testa e lo guardai
sorpreso.
Mi
parve di averlo già visto, ma non riuscivo a capire, a fissare l'idea.
L'uomo
mi fissava e sorrideva, aveva lo sguardo divertito dal mio stupore. Riconobbi
gli occhi chiari e accesi, i capelli rossi e scomposti.
-Ah
ma voi siete il poeta della montagna!- esclamai alzandomi in piedi.
Lui
rise forte e la gente si girò a guardare. Diceva:
-Il
poeta della montagna! Sì! Sono il poeta della montagna!-
Si
sedette al mio tavolino senza aspettare che lo invitassi. Mi chiese cosa facevo
a Firenze e io gli dissi un po' di me.
-Non
è importante essere un grande artista.- fece lui -Ciò che conta davvero è
essere un puro artista.-
-Dite
bene, voi. Ma anche il puro artista mangia e veste panni.-
-Lo
so.- rispose duramente, forse deluso dalla mia osservazione.
-E
come pago l'affitto di casa? Con i quadri?- continuai, quasi incattivito.
-Arte
e soldi non hanno niente in comune. Si escludono a vicenda come la luce e il
buio. Dovete scegliere: o arte, o soldi.-
-Sì,
capisco. Ma se muoio di fame, la mia arte finisce lì.-
-Sbagliate:
l'arte è la sola risposta dell'uomo alle pretese della morte.-
-Questo
lo credevo anch'io.- dissi -Ma adesso non la penso più così. L'arte deve
comunicare, deve aprirsi al mondo, deve essere di tutti; se no non esiste.
L'arte chiusa nel cassetto non è arte.-
-Ma
non può essere neppure un mestiere.- ribatté il mio interlocutore- Il muratore
deve obbedire al capomastro; il falegname deve accontentare chi gli chiede un
armadio. L'artista non può avere un padrone e dunque non può avere un
mestiere.-
-Eppure
ci sono grandi artisti pieni di soldi.- dissi.
L'uomo
non rispose; affondò la destra sotto la maglia e ne estrasse un libriccino
sottile, con la copertina d'un giallo sbiadito.
Me
lo porse e io lessi il nome di Dino Campana e il titolo "Canti
Orfici".
-Avete
una lira e mezza?- mi chiese il giovane uomo, porgendomi il librino.
-Ne
ho tre in tutto e devo pagare la birra.-
-Datemi
allora una lira.-
Nella
voce di quell'uomo sentivo una trepidazione dolorosa.
-Forse
è meglio se offrite il vostro libro ad un altro.- dissi.
Temevo
che quel tipo strambo avrebbe insistito, magari avrebbe gridato; invece Campana
non ebbe alcuna reazione.
Ora,
penso che egli era abituato a certi rifiuti e non gli facevano più male.
Ripose
il libro sotto la maglia, disse "buona fortuna" e se ne andò.
Uscì
dall'ombra del caffè e, sulla piazza, fu avvolto dalla luce polverosa che fece
più sottile la sua figura. Lo guardai andare verso via degli Strozzi. Camminava
pestando i piedi, con le braccia pesanti lungo i fianchi, come fanno i
montanari, come andando contro un vento sempre contrario.
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