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27 dicembre 2017

Il cane Bendicò è la chiave di lettura del Gattopardo




Il secondo appuntamento dell’”Incontro con l’Autore”, svoltosi sabato 23 dicembre, ha visto protagonista Giuseppe Tomasi di Lampedusa col suo titanico Gattopardo. Diversi gli spunti di riflessione emersi, sia sui controversi anni in cui il romanzo è ambientato, sia sulla profonda simbologia dell’opera.
Riguardo quest’ultima, di pregnante significato è la presenza dell’alano Bendicò, fedele alleato del Principe di Salina. In realtà, fu lo stesso scrittore a sottolinearne l’importanza in una lettera inedita, inviata da Tomasi il 30 maggio del 1957 al suo amico, il barone Enrico Merlo di Tagliavia, presentandolo coma la chiave di lettura del romanzo stesso.
È necessario premettere la poliedricità della razza: per via della poderosa stazza, fino al Medioevo veniva utilizzato come cane da guerra, per poi divenire un fedele custode di castelli e salotti nobili, come simbolo di regalità ed eleganza. A ciò si associa il suo fondamentale ruolo nella caccia: grazie al suo aspetto longilineo e alla velocità, ha il compito di inseguire la preda fino a farla stancare, per poi lasciare l’infausto compito al cacciatore. Si veda quindi come l’alano non tolga la vita, quasi posizionandosi in un confine labile tra vita e morte, binomio che sarà più chiaro nell'ottica del romanzo.
Il Gattopardo ha come protagonista il Principe di Salina che, sullo sfondo dello sbarco dei Mille a Marsala, assiste alla decadenza della sua classe nobiliare, conservatrice e tradizionalista, e all'arrivismo dei nuovi ricchi, il tutto vissuto in maniera disincantata, con un moto di rassegnazione. Ma il Gattopardo è molto di più: esso è il romanzo dell’immobilismo, della Sicilia che ha un tempo senza tempo, della stasi, dove nulla può cambiare. Ma l’immobilismo si associa al trasformismo, che non è sinonimo di trasformazione, poiché anche ciò che sembra cambiare in realtà rimane com'è, il tutto perfettamente esemplificato nella frase pronunciata da Tancredi, nipote del Principe: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.
Quindi la controversa logica della stasi e del moto, della morte e della vita, dell’immobilismo e del trasformismo è la colonna portante dell’opera, e lo stesso Bendicò diventa compartecipe di tale contraddittorietà, comparendo in punti strategici del romanzo e rappresentando di volta in volta vita o morte,  stasi o moto, per poi occupare prepotentemente la scena nel finale.
Al momento della sua prima comparsa, è evidente già il suo cruciale ruolo: il cane, rattristato dalla propria esclusione, entrò e scodinzolò esattamente al termine della recitazione del rosario, quasi a voler spezzare, con la sua irrompente vitalità, una quadro di religiosità fatto di rito, apparenza, finzione.
Il moto e la vita saranno ancora a lui associati, come quando è definito eccitatissimoaffannato dal proprio dinamismo, o impegnato affannosamente nelle devastazioni delle aiuole, dietro cui si nascondono, probabilmente, le devastazioni dei garibaldini, poiché il cane rivolgeva a lui gli occhi innocenti come per esser lodato del lavoro compiuto: quattordici garofani spezzati, mezza siepe divelta, una canaletta ostruita. Sembrava davvero un cristiano.
Bendicò appare poi accanto alla morte, all’immobilismo. Nel giardino viene nauseato dall’odore delle rose, infatti si ritrasse nauseato e si affrettò a cercare sensazioni più salubri fra il concime e certe lucertoluzze morte. In un passo del romanzo il Principe porta con sé Bendicò nei “carnaggi” e, poco dopo aver osservato degli agnellini squartati, quattro paia di galline attaccate per le zampe si dibattevano per paura sotto il muso inquirente di Bendicò. “Anche questo un esempio d’inutile timore” pensava “il cane non rappresenta per loro nessun pericolo; neppure un osso se ne mangerà, perché gli farebbe male alla pancia.” Il passo, oltre che richiamare l’attività della caccia dell’alano, sembra denunciare l’inutilità delle stragi e della rivoluzione, poiché nessuno ne trarrebbe beneficio, né vinti e né vincitori, essendo il cambiamento solo apparente.
Vita e morte, moto e stasi, sono perfettamente esemplificati nel finale. Dopo molti anni dalla sua morte, il cane appare imbalsamato, nell'inutile tentativo di eternare la regalità della classe nobiliare. Ma egli diviene simbolo di un gattopardo degradato, che nel suo volo fuori dalla finestra sembra muovere le zampe nell'aria; quindi qualcosa di inanimato (ma che vuole essere vivo, poiché imbalsamato) prende vita, in un continuo gioco tra apparenza e realtà. Ma quest’impeto di vita è solo un’illusione, come lo è il cambiamento; tutto, infatti, si trasforma in un mucchietto di polvere livida. D'altronde Tomasi ci aveva già annunciato che tutti gli uomini sono destinati a diventare polvere, e lo aveva fatto con un andamento circolare all'inizio del romanzo, con la preghiera Nunc et in hora mortis nostrae.

Anna Marotta

11 dicembre 2017

Pietraperzia. Anna Marotta prima classificata al Concorso Letterario Nazionale “La Nostra Terra 2017”





Il concorso era stato bandito dalla “Giambra Editori” di Terme Vigliatore, nel messinese. Hanno partecipato oltre 150 concorrenti da ogni parte d’Italia. Anna Marotta ha vinto nella sezione “Tesi di Laurea”. Il titolo del suo lavoro è “Il bandito Antonino Di Blasi, alias Testalonga (1728-1767). Anna Marotta, una laurea in Filologia Moderna con 110 e Lode all'università di Catania, è la primogenita di Giuseppe Marotta e di Concetta Miccichè. La premiazione è avvenuta durante una cerimonia alla “Osteria Malarazza” di Barcellona Pozzo di Gotto. La giuria era composta da Pierangelo Giambra Editore e dagli storici dell’arte Valentina Certo e Andrea Italiano. I due sono autori, rispettivamente delle opere “Caravaggio a Messina” e “Caravaggio in Sicilia: L’ultima rivoluzione”, della stessa Casa Editrice. Cosa dichiara Anna Marotta? “Sono contenta che questa mia opera abbia riscosso così tanto attenzioni in questo caso di devianza sociale e in un contesto siciliano permeato da un modus operandi poco efficiente ed efficace”.

Ti aspettavi questa affermazione? “Non me l’aspettavo assolutamente. 
In questo concorso nazionale sono infatti pervenute 150 opere, comprensive di tesi di laurea, da tutta Italia”. Cosa ti senti di suggerire a chi voglia seguire questo tuo percorso? “La prima cosa da fare è quella di prendere i manuali più autorevoli e poi ‘buttarli via’ in quanto la vera storia non è quella raccontata dai libri ma quella dei “Vinti” a cui si può risalire solo attraverso le fonti e i documenti diretti e senza il filtro dei ‘vincitori’”. Quali sono i programmi di Anna Marotta a breve, medio e lungo termine? “Attualmente lavoro come docente in un istituto paritario e insegno Italiano e Storia. Il mio progetto primario è quello di inserirmi nel mondo dell’insegnamento ma, nel contempo, non voglio abbandonare la ricerca storica e la scrittura”. Anna Marotta è anche impegnata nella stesura di un thriller psicologico. Ha scritto, allo stato attuale, solo i primi tre capitoli “per mancanza di tempo e non di ispirazione”. Anna Marotta ha ricevuto pure proposte di pubblicazione della sua tesi – da parte della casa editrice “Giambra Editori” – “che deve essere da me valutata in termini di tempi e di organizzazione”. 

Gaetano Milino




02 novembre 2017

La Lupa tra Eros e Thanatos

L’entusiasmo acceso dalla serata “Incontro con l’Autore” fa fatica a scemare nell’animo dei protagonisti, degli organizzatori e della folla di uditori, pertanto è doveroso un ultimo
atto:  tirar fuori dagli scaffali polverosi un personaggio verghiano, conditio sine qua non perché lo scrittore torni a sonnecchiare ripiegato tra una pagina e l’altra, in attesa del prossimo famelico lettore.
L’arduo compito tocca proprio a gnà  Pina, la Lupa, forse il più contorto dei personaggi usciti dalla sua penna. La novella, inclusa nella raccolta Vita dei campi pubblicata nel 1880, tocca probabilmente gli echi più alti del pessimismo verghiano: una donna avulsa dalla morale e dal perbenismo femminile della stantia Sicilia, vive totalmente immersa nella passione e nelle pulsioni del suo corpo, seducendo il genero Nanni e tradendo la figlia Maricchia. Una vinta, nell’ottica secondo cui i vinti siano le ostriche che si distaccano dallo scoglio, coloro che infrangono le darwiniane e immutabili leggi, coloro che non si adeguano al loro status sociale e naturale (la donna martire dedita al sacrificio, come molte figure femminili presenti nei Malavoglia), per questa ragione essa soccomberà alla follia incontenibile di Nanni. Eppure neanche coloro che sembrano seguire il vademecum verghiano sono esenti dalla fiumana: Il genero è tormentato dai sensi di colpa e si macchia di omicidio, Maricchia subisce un duplice tradimento ed è sempre descritta come remissiva e piagnucolante, una lupacchiotta.




D’altro canto la Lupa, nella gravitas che caratterizza il finale, va incontro al suo assassino fiera e superba, consapevole del suo destino ma non per questo turbata, tiene in mano dei papaveri rossi simbolo dell’accecante passione che l’ha divorata in vita, ma rosso è anche il colore del sangue che da lì a poco si verserà, sembra quasi rivelarci il mistero dello yin e dello yang, dell’Eros e del Thanatos. Può definirsi una vinta colei che fino alla fine dei suoi giorni vive con una tale fierezza, cosciente di aver vissuto in simbiosi con la sua essenza più intima? Già la contraddittorietà del personaggio ci viene annunciata nell’incipit, secondo cui: “Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna - e pure non era più giovane - era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano”.

La verità è una sola: la verità non esiste. D’altronde Verga era siciliano, come Pirandello, come Sciascia, come noi che aneliamo certezze in una terra che, per sua natura, non può darne.

Buonanotte Verga, puoi tornare ad appisolarti, se vuoi.

Anna Marotta