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05 gennaio 2019

Via 4 Novembre e dintorni: C’era una volta – 1^ Parte

C’era una volta la casa di via 4 Novembre


Trascorso il periodo della guerra e cessati i pericoli, con la liberazione dell’isola da parte delle forze alleate, tornammo in paese nella nostra casa di Via 4 Novembre. Noi abitavamo al civico n° 72 della via prima parallela a nord del Corso Umberto I, la strataranni.
Dedicata com'è alla data della vittoria della I Guerra Mondiale, la Grande Guerra (1915/1918) che completò l’unificazione dell’Italia, la via 4 Novembre ben si inserisce, e ne costituisce coronamento, nel gruppo di strade della zona intitolate ad eventi e personaggi della storia patria, siciliana e pietrina. Essa si estende, infatti, da via Giuseppe La Masa alla Discesa Leone, per tutta la lunghezza del più noto corso di lu ringu di sutta. La via Tortorici Cremona la separa dalle vie Garibaldi e Capitano Bivona; è attraversata dalla discesa Giovanni Corrao e, a poco meno della metà del suo percorso, incrocia la discesa Rosolino Pilo, perpendicolari al corso Umberto. Esattamente a quell’incrocio sorgeva (e sorge ancora, abitata da altri) la nostra casa. L’abitazione, che era composta dalla parte anteriore ristrutturata del piano terra e dal piano superiore dello stabile che era stato lu tarpitu della famiglia di papà, ne formava l’angolo, la cantunera nord/ovest; mamma e papà vi andarono ad abitare subito dopo il loro matrimonio. In quella casa di via 4 Novembre ebbe inizio la vita di noi, quattro figli; è lì che abbiamo trascorso la nostra infanzia e parte della giovinezza, fino agli inizi degli anni ’60 del ‘900.
La casa aveva un balcone sopra l’entrata dell’ex frantoio e una finestra che dava sulla discesa Rosolino Pilo, ma non aveva sbocco sulla via Tortorici Cremona, lu ringu di ncapu. Da quel lato confinava con l’abitazione della famiglia di Antonino Pagliaro, sposato con la signora Maria Matanza. Lu massaru Ninu coltivava le sue terre assieme al figlio minore Giuseppe; Santo, il figlio maggiore, si occupava di edilizia, campo in cui era diventato un esperto capomastro; Maria Anna, Mariannina, la figlia femmina, faceva la maestra. Attraverso la parete nord, che divideva la nostra casa da quella dei Pagliaro, sentivamo ogni parlottare e ogni minimo movimento provenienti dalla loro casa. Spesso, bambini curiosi, appoggiavamo l’orecchio al muro per indovinare dal rumorino che avevamo udito a chi della famiglia poteva attribuirsi. Mariannina sposò Salvatore Marotta, lu Cacucciularu, allora, e per molti anni, custode del cimitero. Da tutti, in paese, era chiamato Sarvaturi e nominarlo evocava la sua funzione. Alto e di bell’aspetto, baffi e pizzo pronunciato ben curati, una certa ricercatezza nell’abbigliamento (cappello nero a larghe tese ed eleganti abiti scuri di sartoria), il portamento serio e distinto erano tutti elementi che abbinavamo al suo ufficio e che ce lo facevano percepire come personaggio dotato di particolari poteri e guardare con una certa apprensione.
Di fronte alla nostra, la casa abitata dalla vedova signora Ada Callari costituiva l’angolo sud/ovest dell’incrocio. L’angolo opposto, la cantunera a sud-est, era formato dalla casa dell’antica famiglia Nicoletti, abitata da donna Caterina, ultima discendente del casato, signorina avanti negli anni che vi viveva da sola. Alla porta della casa di donna Catarina si arrivava dopo aver salito i gradini di un alto ed ampio ballatoio protetto da una ringhiera di ferro e, superata quella, situata sullo stesso ballatoio, della casa della famiglia di Vincenzo Di Romana sposato con Vincenzina Lo Presti, noti in paese come li Vinci.
L’angolo nord-est, di fronte a donna Caterina Nicoletti, era costituito dalla casa di don Filippo Rabita, don Filippu Pruni, noto maestro falegname, che vi abitava con la moglie, signora Giuseppina Aiesi, e con i tre figli, tra i dodici e i quindici anni di età all’epoca della nostra nascita: Vincenzo, Giuseppe e Piera, Pitrina.
Gli abitanti delle case di quell’incrocio furono i nostri vicini più prossimi, quelli che, per la vicinanza, vedevamo quotidianamente e con i quali più frequenti erano le occasioni di incontro. Nel numero rientrano pure i componenti della famiglia del dottor Vincenzo Vitale, la cui abitazione confinava con la nostra dal lato ovest: sulla via 4 Novembre si affacciavano i due balconi della casa, ma l’ingresso si apriva sulla via Tortorici Cremona.
Tanti ricordi della nostra vita di allora sono legati a quella via, alle strade vicine, alle persone che vi incontrammo e conoscemmo. Di quell’incrocio sentiamo i rumori, gli odori, le voci. Lo scalpitio dei muli dei contadini che di buonora transitavano per la discesa Rosolino Pilo per recarsi in campagna; il crocevia disseminato di una infinità di neri “confettini” e il lezzo penetrante che, poco più tardi, impregnava l’aria dopo il passaggio del capraio che tutte le mattine portava il latte alle clienti. Esse lo aspettavano sulla porta ccu la cicara mmanu ed egli la restituiva piena del bianco e nutriente liquido ancora fumante, munto direttamente dalle capre che si portava appresso; il vociare dei ragazzi che passavano da un gioco all’altro tra innocenti litigi; il gridare delle madri che si affacciavano e continuavano, non udite, a chiamarli quasi a squarciagola; lo starnazzare delle galline disturbate, nel loro pacifico razzolare, da qualche improvviso rumore; il richiamo degli ambulanti venditori di merce varia; il grido del banditore, Micheli l’urbu, che, fermo al centro dell’incrocio, lanciava il suo avviso o annunciava la novità:
O figliuli,
ad-ha arrivatu lu pisci friscu,
trigli mirluzzu picaredda, sardi…
va iti a la piscarija…;

o figliuli …
cu- ha ttruvatu na mula
ca jè di
va purtaticcilla ca c’è lu viviraggiu; …
e mamma a ripeterci quel curioso annuncio che le era rimasto in mente da quando glielo avevano raccontato:
O populu di Summatinu,
cu ha ttruvatu un papì masculu
ca jiera di li Chinnici
ca havi tri ghiorna ca la criat’è sutta.
“O popolo di Sommatino, chi ha trovato un tacchino (sappia) che era di proprietà della famiglia Chinnici; ora son tre giorni che la serva (accusata del furto) è in prigione”
La via 4 Novembre era una strada allietata da un gran numero di bambini e bambine. Quel tratto di strada, allora in terra battuta, tra l’incrocio con via Rosolino Pilo e Discesa S. Orsola, molti ne raccoglieva di tutto il vicinato, perché ben si prestava ai giochi di femmine e di maschi: a li cchiè, a li rrummula, a li castedda, a la stacca, a li petri, a la fussetta. Era un cinguettio continuo, che poteva anche dar fastidio a persone anziane meno tolleranti nei confronti dei bambini, specie in certe ore della giornata. E mentre tra le bambine l’idillio era quasi perfetto, tra i maschietti piccole baruffe avvenivano per questioni legate al gioco, fino a sfociare, qualche volta, in vere e proprie liti. E tuttavia mai tra le mamme ci furono discussioni, dal momento che nessuna di esse fu mai indulgente nei confronti del proprio figlio, né intervenne a prenderne le difese. Capitava che si affacciassero alle finestre all’udire il clamore della lite o al pianto, ma le loro parole erano: «Cosi di carusi su, vinu l’anni e mintinu li sinzii, cresceranno, capiranno». E ciascuna richiamava il proprio figlio. Del resto, passata la buriana, i ragazzi erano di nuovo insieme a giocare, dimentichi di tutto.
All’astricu della casa di Vincenzo e Vincenzina Di Romana, genitori di Masinu e Lina, di qualche anno più piccoli di noi, seguivano due piccoli ballatoi, du’ tucchineddi, a breve distanza l’uno dall’altro, alti poco più di un metro, con quattro-cinque gradini e privi di ringhiera: appartenevano alle abitazioni delle famiglie di Rocco Zappulla, Roccu Zzappudda, e di Giuseppe Emma, Pippinu Palazzu. Il primo era sposato con la signora Giovanna Di Gregorio, la zi’ Giuannina, della numerosa famiglia di li Mazzariddi (o li Cilij), sorella di nostra zia Damiana madre di Pasqualino; il secondo con la signora Concetta Barrile, Cuncittina la Padedda. Appresso veniva il portoncino della casa della famiglia di Nunzio Pace. Tra i quattro Zappulla, Totò, Nino, Paolo, Antonietta, altrettanti dei Pace, Vincenzo, Pino, Anna, Rocco, e due della famiglia Emma, Filippina e Sebastiano, erano altri dieci bambini che gravitavano attorno a quelle centinaia di metri quadrati di terra vicino al nostro incrocio. Ad ovest, accanto alla casa della signora Callari, abitava la famiglia di Paulu Vavaluciu e Mariuzza la Buttafoca, Paolo Corvo e signora Maria Buttafuoco, famiglia che nel corso degli anni raggiunse i dieci componenti: genitori e otto figli di cui i maggiori, all'incirca della nostra stessa età, furono i primi nostri compagni di gioco e di litigate. Tre maschi, Salvatore, Pino, Pasqualino; tre femmine, Costanza, Filippina e Agatina, a cui si aggiunsero i gemelli Michele e Vincenzo. «Fu soprattutto con Totò Zappulla, Vincenzo e Pino Pace e spesso anche Rino Mendola (nipote del dottor Vitale) ed altri ragazzi della zona», dice Salvatore, «che mi trovavo a giocare tra gli altri a li castedda, e a scinni scinni rininedda[1], giochi che ricordo come divertenti e impegnativi, in cui mettevamo tutta la nostra anima per eseguirli nel rispetto delle regole e dei ruoli che definivamo dopo una serie di discussioni. Come tra gli adulti, gli inevitabili diverbi sorgevano quando c’era da attribuire la responsabilità della sconfitta della squadra, ma venivano presto risolti per riprendere subito il gioco».
«Con Anna Pace», dice Maria, «non ricordo di aver diviso tanti momenti di gioco, ma tra noi c’era una sincera amicizia; frequentavamo l’Azione cattolica e spesso facevamo assieme la strada per raggiungere la Parrocchia così come anche la domenica per recarci a Messa. Eravamo due donnine e spesso aiutavamo in casa. Le nostre mamme si stimavano a vicenda, si chiamavano cugine e lo erano realmente: la madre di Anna, zia Maria Balestrieri, era nipote di nonno Pasquale; suo padre era figlio di Giuseppina Costa che, vedova Balestrieri, aveva sposato in seconde nozze Calogero Messina, nostro bisnonno materno».
Fu in quella strada polverosa che insieme ai compagni di gioco apprendemmo concretamente le prime regole del vivere sociale e si stabilirono rapporti di amicizia che ci consentirono, dopo che ciascuno col tempo aveva preso la propria direzione, di riconoscerci e definirci, nella “grande rimpatriata” dell’aprile del 2012, “amici di sempre”, “amici per sempre”.
Molta tristezza suscita vedere ora quelle strade deserte e silenziose a tutte le ore del giorno; e molti pensieri attraversano la mente di chi le ha vissute in momenti in cui gioia, allegria, vivacità di bambini e via vai di adulti predominavano. Pavimentazioni rifatte con pietra di Catania, pulite ma ciuffi di erba vi crescono ai bordi e tra gli interstizi dell’acciottolato; moderni lampioncini ad applique ai muri delle case di Via Garibaldi, della discesa Rosolino Pilo; case ristrutturate fornite di nuovi portoncini, anche eleganti, accanto ad altre coi muri scrostati, le serrande e i segni della loro vetustà. Ma tutte porte chiuse, non una finestra aperta, non una donna al balcone a stendere panni, non un bambino per la strada. La casa della nostra infanzia aveva già subito un primo intervento di cui presentava le tracce nelle porte esterne sostituite, nei muri ritinteggiati e soprattutto nel balcone con ringhiera di ferro che la circondava per tutta la sua estensione sino a dopo l’angolo con la discesa Sant'Elia. Una tenda da sole vi era stata montata sopra la porta finestra. Ma nessun segno di vita come in tutte le altre. Vi avessi scorto una presenza umana avrei chiesto di entrare: mi sarebbe piaciuto verificare quali modifiche vi erano state apportate all'interno. (continua)

Maria e Salvatore Giordano
[1] Vd. la voce rininedda sul Vocabolario Siciliano cit.



02 ottobre 2018

Via 4 Novembre e dintorni: Govanni Corrao, chi era costui? – 4^ Parte





Govanni Corrao, chi era costui?


La perpendicolare alla via 4 Novembre tra le discese Rosolino Pilo e Giuseppe La Masa è intitolata a Giovanni Corrao.
Fino a non molto tempo fa, di fronte a questo nome ci siamo trovati come don Abbondio davanti a quello di Carneade: una personalità celebre del nostro paese? Un personaggio storico? Ma chi? Quando? Perché? Né i conoscitori delle cose del nostro paese avevano una risposta. Di lui non parlano i libri di storia comunemente in circolazione, né il suo nome compare nei repertori storici correntiAd uno stesso, unico Giovanni Corrao dedicano poche note l’EGM (Enciclopedia Generale Mondadori), la Nuova Enciclopedia Universale Rizzoli La Rousse e l’enciclopedia libera Wikipedia la quale cita come fonte una scheda che l’Archivio Biografico di Palermo ha dedicato allo stesso personaggio: G.C., Palermo 1822-1863, patriota e uomo politico, esiliato dai Borboni ed attivo nei moti siciliani, generale di Garibaldi, assassinato per motivi politici. Ma il nome di G. Corrao raramente compare nello stradario delle nostre città; pochissime quelle che gli hanno intitolato una strada (Pietraperzia sarebbe fra le poche), benché in tutte compaiano vie e piazze dedicate (oltre che a G.Garibaldi) a luoghi e personaggi connessi agli stessi eventi storici: Calatafimi, Marsala, Nino Bixio, Giuseppe La Masa, Rosolino Pilo…A tale riguardo chiarificatrice ci è stata, recentemente, la lettura del romanzo dello scrittore agrigentino Matteo Collura, Qualcuno ha ucciso il generale, romanzo del quale è protagonista Giovanni Corrao, patriota siciliano tra i più audaci e valorosi del nostro Risorgimento, la cui vicenda è passata nell’oblio per ragioni oscure legate agli ultimi anni della sua vita e alla sua fine misteriosa[1].
Palermitano, quasi coetaneo (Palermo, 1822) dei due più noti corregionali, Rosolino Pilo (Palermo, 1820) e Giuseppe La Masa (Palermo, 1819), G. Corrao fu, come quelli, ostile ai Borboni, contro i quali diresse diversi tentativi di cospirazione, subendo prigione ed esilio. Assieme a Rosolino Pilo, organizzò gruppi di volontari a capo dei quali preparò l’arrivo e lo sbarco dei Mille in Sicilia. Combatté, per l’intera durata della campagna, a fianco di Garibaldi, distinguendosi per spirito di iniziativa, capacità militari, ardimento, tanto da essere, dallo stesso, nominato generale sul campo. Successivamente all’Unità d’Italia, venne integrato nell’esercito regio col grado di colonnello. Non condivise, però, ed avversò, la politica del nuovo governo in Sicilia, che si aspettava diversa, e si dimise per coerenza. Partecipò anche all’impresa di Aspromonte. Non è improbabile che accompagnasse Garibaldi durante il suo passaggio da Pietraperzia, nel 1862. Specie di “antigattopardo siciliano”, Corrao non aveva combattuto perché tutto restasse come prima: estremista del Partito d’Azione, fu ideatore di un vago disegno politico imperniato su una sorta di dittatura popolare. Ritenuto sovversivo e pericoloso agitatore, inviso e spiato dalla polizia, rimase invischiato in ambigue trame ordite tra notabili, mafia e autonomisti palermitani e, il 3 agosto 1863, fu ucciso proditoriamente da due colpi di lupara sparati da sicari rimasti sconosciuti, presentatisi, sembra, vestiti da carabinieri. Delitto di mafia o politico-mafioso? L’assassinio di Giovanni Corrao è sempre rimasto avvolto nel mistero, essendo andati distrutti, o fatti sparire, i documenti che lo riguardavano, come se si volesse che di lui non restasse neanche la memoria.[2] Lo scrittore siciliano, col suo romanzo, ne ha voluto riportare alla luce la vicenda. [3]. Gli stessi misteri avrebbero avvolto l’evento della fine di Salvatore Giuliano agli inizi degli anni ‘50[4]
Sulla base di tali elementi, appare evidente che il Giovanni Corrao a cui è dedicata, a Pietraperzia, la discesa perpendicolare alle vie Garibaldi e 4 Novembre, in mezzo e parallela alle vie Rosolino Pilo e Giuseppe La Masa, sia il terzo dei tre patrioti siciliani, il “generale dei picciotti”in camicia rossa, eroe dimenticato dell’epopea garibaldina in Sicilia, il medesimo personaggio a cui si riferiscono le note riportate dall’Archivio biografico del comune di Palermo e dalle enciclopedie sopra citate. Riteniamo dunque che gli amministratori del nostro paese i quali deliberarono in merito alla dedicazione delle strade, a conoscenza di eventi e protagonisti, abbiano voluto, attraverso la loro scelta, onorare i tre valorosi garibaldini che tanta parte avevano avuto nell’impresa dei Mille.
Salvatore e Maria Giordano

[1] Matteo Collura, Qualcuno ha ucciso il generale, Longanesi, Milano, 2006.
[2] In una nota in appendice del romanzo, l’autore fa notare la coincidenza tra l’assassinio di Giovanni Corrao e l’uso della parola mafia comparsa per la prima volta nella commedia del 1863 I mafiusi di la Vicaria di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca. Il termine mafia viene ufficialmente usato negli atti di indagine relativi al delitto Corrao.
[3] Di Giovanni Corrao parla l’articolo Morte di un garibaldino scomodo di Rosa Faragi, Assessore alla cultura del comune di Prizzi, pubblicato su Dialogus dell’ARCI- Libera di Corleone, del 9/7/2010.
[4] Analogie, per certi aspetti, è possibile riscontrare tra la vicenda di G. Corrao e quella di Salvatore Giuliano. Vedi, tra l’altro, la ricostruzione che del colonnello dell’Evis fa Gaetano Savatteri in I Siciliani, Editori Laterza, 2005, pp.44-53.


19 settembre 2018

Il restauro del Crocifisso di "Lu Signuri di li fasci"

                                                         
Tratto da:
OFFICINA SICILIANA
a cura di Paolo Russo
editrice MAGIKA







Il Crocifisso "umanistico" di Pietraperzia: conservazione, restauro e riconoscimento stilistico


Nel caso del piccolo Crocifisso (cm 110 ca.) che si conserva nella chiesa Maria Santissima del Soccorso di Pietraperzia, nell'entroterra siciliano, lo stato conservativo in cui era pervenuta la statua in legno ne rendeva incomprensibile il reale orizzonte estetico (fig. 1).
Opera «di antichissima Religione nel Publico», il Crocifisso è tenuto ancora oggi in grande venerazione dalla comunità locale che, come nel passato, conduce l'antico simulacro per le vie cittadine il giorno del Venerdì Santo, celebrazione nota come "Lu Signuri di li fasci", per via delle numerose fasce di lino bianco che i devoti legano ad un anello di ferro posto sotto un globo policromo ubicato alla estremità di una lunga trave di cipresso, di più di otto metri, su cui è issato il piccolo Crocifisso, il tutto ancorato sopra una vara condotta in processione. La chiesa, appartenuta ai padri Carmelitani, è annoverata tra le più antiche di Pietraperzia, per quanto non se ne conosca con precisione l'epoca di costruzione. La sua fondazione dovette cadere, ad ogni modo, prima del 1584, anno della donazione di donna Giulia Moncada, moglie del principe di Pietraperzia Pietro Barrese, a Girolamo Mo[z]zicato, Superiore della Compagnia del Soccorso che aveva sede nella suddetta chiesa"11.
A quel tempo, a giudicare dall'attuale aspetto stilistico, il Crocifisso doveva già essere stato scolpito dall'ignoto intagliatore, verosimilmente siciliano. Quanto prima è possibile ipotizzarlo sulla base del suo assetto stilistico-formale originario. Nel corso dei secoli il Crocifisso ha subito il comune destino toccato alla maggior parte di questa classe di manufatti, oggetto di successivi interventi di manomissione e ridipintura che vi hanno apportato una consistente stratificazione materica apocrifa, occultando di fatto l'immagine originaria.
Il recente restauro ha rivelato, al di sotto della posticcia crosta opaca, un'opera inedita, di discreta qualità formale e sorvegliata tecnica esecutiva, aggiungendo una testimonianza preziosa all'evoluzione del tipo in Sicilia nella prima età moderna (figg. 2-4 e tavv. 1-2)12

1. Crocifisso (prima del restauro). Pietraperzia, chiesa Maria Santissima del Soccorso, vulgo del Carmine

La figura del Cristo in croce presenta un impianto frontale, la linea orizzontale tracciata dall'ampia apertura delle braccia che misurano in larghezza lo spazio, con arti esili e corti che si concludono in due grandi mani dai palmi aperti, incrocia la falcata perpendicolarità del corpo. La parte superiore del torso affusolato, dal morbido modellato anatomico, si restringe improvvisamente sotto l'addome, dove l'innaturale strozzatura del tronco enfatizza il ventre arrotondato. È questa una formula che caratterizza quei crocifissi in legno e in legno e mistura, o semplicemente in mistura, prodotti in particolare dalle officine di "crocifissai" messinesi tra la seconda metà del XV e il tardo XVI secolo, ricondotti per lo più alle botteghe familiari dei La Cuminella, dei Pilli e dei Tifano o "de li Matinati", con larghissima diffusione lungo
i versanti costieri settentrionale e ionico dell'isola, e distribuiti anche oltre i confini regionali13.

2. Crocifisso (dopo il restauro). Pietraperzia, chiesa Maria Santissima del Soccorso, vulgo del Carmine

Il Crocifisso di Pietraperzia, tuttavia, pur condividendone le scelte formali di mediazione tra tradizione medioevale e modernità pseudorinascimentale, si differenzia da quei modelli. Nella studiata anatomia della figura, lo scultore tende con più convinzione ad abbandonare i tradizionali schematismi gotici intrisi di stile inter-nazionale, ricercando una misurata attenzione al naturale, dove l'acuto realismo descrittivo cede a un inedito idealismo formale. La sopravvivenza della formula figurativa gotica, di sotto della misurata ortogonalità compositiva rinascimentale, è tradita dalla inclinazione della figura sul lato destro, con il leggero sollevamento dell'anca, mentre la spalla sinistra avanza impercettibilmente, trasmettendo una viva impressione di moto all'esile architettura del corpo. La testa reclina dolcemente sulla spalla destra; il volto, tipizzato, ha tratti regolari, l'ovale polito è segnato dal corrugamento della sella del naso e dalla prominenza degli zigomi arrotati; gli occhi socchiusi; la bocca dischiusa: dietro le labbra livide si intravede la chiostra bianca di piccoli denti (tav. 2).

3. Crocifisso (dopo il restauro). Pietraperzia, chiesa Maria Santissima del Soccorso, vulgo del Carmine

La pacata espressività del viso comunica la sofferenza interiorizzata del martirio. I baffi sono intagliati a ciocche lunghe e ondulate che si ricollegano ai peli della barba delineati a punta di pennello, assumendo all'altezza del mento un'evidenza plastica nell'intaglio simmetrico dei due corni nei quali si spartisce simmetricamente la barba. Un trattamento accurato è riposto anche nell'intaglio della matassa dei capelli che, ricadendo, ricoprono l'omero destro, distendendosi lungo il crinale della spalla sinistra.

4. Crocifisso (dopo il restauro). Pietraperzia, chiesa Maria Santissima del Soccorso, vulgo del Carmine

La struttura del corto perizoma, decorato a larghe fasce verticali alternate azzurro e oro, si distingue per la modernità del panneggio aderente al corpo. Il drappo di stoffa è segnato da pieghe orizzontali parallele che si restringono sul fianco sinistro scoprendo l'inguine, annodandosi con un lembo ripiegato ad occhiello nella parte superiore, mentre l'estremità più lunga e pendente è ravvolta in pieghe tubolari schiacciate che scivolano parallele alla coscia sinistra. Dei numerosi confronti che possono essere fatti in merito alla foggia del perizoma, si citano a titolo di esempio il Crocifisso della omonima chiesa di Montemaggiore Belsito (Palermo), databile agli inizi del XVI secolo; o il Crocifisso con braccia snodabili della Matrice Nuova di Castelbuono, attribuito a Sebastiano de Auxilia con una datazione alla fine XVI, ma che io ritengo doversi anticipare all'inizio del secolo14. 

5. Antonello Gagini, Crocifisso (particolare dei fili d’oro nelle ciocche della barba e dei capelli). Alcamo, chiesa madre

Per altro verso, l'interpretazione eminentemente pittorica della forma plastica è in linea con la tendenza della ricca produzione prima segnalata. L'organico rapporto tra intaglio e pittura, che si osserva in particolare nella definizione della barba (fig. 4), è realizzato con la stessa sottigliezza esecutiva che si riconosce nel Crocifisso di Alcamo di Antonello Gagini, dove fili d'oro illuminano le ciocche di barba e capelli (fig. 5)15; ovvero nel bel Crocifisso, in mistura come quello di Alcamo, della chiesa del Santissimo Salvatore di Messina, recentemente restaurato (fig. 6).

6. Crocifisso, particolare. Messina, Chiesa del Santissimo Salvatore

Il recupero della policromia originale del crocifisso messinese rafforza le nostre conoscenze su tale tipologia di oggetti, evidenziando quella concezione eminentemente pittorica della statua che costituisce aspetto caratterizzante, a mio parere, dell'antica produzione dei Crocifissi siciliani a cavaliere tra XV e XVI secolo: l'accurata finitura policroma concorre alla definizione della forma ai diversi livelli di rappresentazione, dal naturalismo delle ossa delle costole e dello sterno, alla stilizzazione grafica della struttura anatomica; all'iperrealismo delle vene, dei peli dell'ombelico e delle ascelle16. 
Per quanto strettamente legato al filone figurativo prima segnalato, mancano però al momento stringenti confronti lignei in Sicilia con l'esemplare di Pietraperzia, databile, a mio parere, per i caratteri sopra evidenziati, tra la fine del XV secolo e i primi anni del successivo.


 Note:
11.   Le poche notizie in merito sono tratte da Fra Dionigi di Pietraperzia, Relazione critico-storica della prodigiosa invenzione d'una immagine di Maria Santissima chiamata comunemente della cava di Pietrapercia, Palermo, presso Gio. Battista Gagliani, 1776, p. 264. Sulla processione denominata “lu Signori di li fasci'', episodio tra i più caratteristici e seguiti della Settimana Santa in Sicilia, cfr. A. Plumari, La Settimana Santa in Sicilia. Guida ai riti e alle tradizioni popolari, Troina 2003, pp. 173-174.

12.   Il restauro è stato realizzato nel 2013 da Gaetano Correnti di Misilmeri (Palermo), sotto l'alta sorveglianza della Soprintendenza per i beni culturali e ambientali di Enna. Un precedente intervento, risalente al 1986, è imputabile a Rosolino La Mattina di Caltanissetta (comunicazione orale del Governatore della Confraternita Maria SS. del Soccorso e degli Agonizzanti che ha finanziato il restauro, Giuseppe Maddalena).-

13.   Cfr. F. Campagna Cicala, Per la scultura lignea del Quattrocento in Sicilia, in Le arti decorative del Quattrocento in Sicilia, catalogo della mostra a cura di G. Cantelli (Messina, chiesa dell'Annunziata dei Catalani, 28 novembre 1981-31 gennaio 1982), Roma 1981, pp. 108-112, 115-117, con bibliografia precedente; e più recentemente, C. Ciolino, Crocifissi messinesi (1447-1551) in Aspetti della scultura a Messina dal XV al XX secolo, a cura di G. Barbera ("Quaderni dell'attività didattica del Museo Regionale di Messina”, 13), Messina 2003, pp. 9-26; Eadem, I mastri crocifissai messinesi, in Manufacere et scolpire in lignamine. Scultura e intaglio in legno in Sicilia tra Rinascimento e Barocco, a cura di T Pugliatti, S. Rizzo, P. Russo, Catania, Maimone, 2012, pp. 367-383;V. Buda, La produzione dei Li Matinati in Sicilia tra XV e XVI secolo. Lo stato attuale degli studi, in il Crocifisso in mistura di Giovannello li Matinati. Ricerche e restauro, a cura di G. Musolino e V. Buda, Palermo 2014. pp. 29-35. Cfr. anche P. Russo, La scultura in legno del Rinascimento in Sicilia. Continuità e rinnovamento, Palermo 2009, pp. 112-123, dove è riassunto quel passaggio nell'industria dei crocifissi in legno dal crocifisso cosiddetto gotico doloroso" al crocifisso umanistico. Per la diffusione oltre lo Stretto, si veda ad esempio, per la Calabria, P. Leone de Castris, schede nn. 14-16, in Sculture in legno in Calabria. Dal Medioevo al Settecento, catalogo della mostra (Altomonte, Museo Civico, 30 luglio 2008-31 gennaio 2009), a cura di P. Leone de Castris, Napoli 2009, pp. 148-154.

14.   Per questo e il precedente cfr. G. Fazio, La cultura figurativa in legno nelle Madonie tra la gran corte vescovile di Cefalù, il marchesato dei Ventimiglia e le città demaniali, in Manufacere..., cit., p. 198, fig. 2; pp. 219-220, fig. 18 e nota 132. Sempre qui, nella Matrice Nuova di Castelbuono, ma proveniente dalla chiesa intitolata al Santo, è il San Sebastiano attribuito a ignoto scultore madonita del XV secolo, che presenta un motivo analogo: P Russo, La scultura in legno del Rinascimento..., cit., p. 78; S. Anselmo, Pietro Bencivinni Magister civitatis Politiis" e la scultura lignea nelle Madonie, Bagheria 2009, p. 169, n. 128. Mentre a Naso si può infine ricordare il Crocifisso in mistura della chiesa di sant'Antonio Abate, più vicino ai modelli messinesi: cfr. A. Barricelli, Scultura devozionale e monastica del Rinascimento, inedita o poco nota dei Nebrodi, in “Quaderni dell'Istituto di Storia dell'Arte Medievale e Moderna. Facoltà di Lettere e Filosofia. Università di Messina”, 15, 1991, fig. 34, p.45. Al di fuori del contesto siciliano, per il particolare disegno del perizoma si possono citare le rassomiglianze con crocifissi prodotti in area veneta nel tardo XV secolo: Crocifissi ispirati o direttamente esemplati sul Crocifisso di Santa Maria Gloriosa dei Frari a Venezia, realizzato tra la fine del settimo e i primi anni dell'ottavo decennio del Quattrocento: cfr. A. Markham Schulz, Il Crocifisso di Santa Maria dei Frari e i suoi epigoni, e I. Matejčič, II Crocifisso rinascimentale della basilica Eufrasiana di Parenzo e altri esempi di manufatti lignei tra le due sponde dell'Adriatico, in Crocifissi lignei a Venezia e nei territori della Serenissima. 1350-1500. Modelli diffusione restauro, atti del convegno internazionale (Venezia, Gallerie dell'Accademia, 18 maggio 2012), a cura di E. Francescutti, Padova 2013, pp. 93-107 e 133-144, e specialmente pp. 138-139, tavv. 52, 54, 56,62, 93, 94, 96. Cfr. anche A. Markham Schulz, Woodcarving and Woodcarvers in Venice 1350-1550, Firenze 2011, pp. 425-435, figg. 122-133, e cat. n. 3, pp. 212-214.

15.   Si veda il bel dettaglio fotografico qui riprodotto in Manufacere..., cit., fig. 16, p. 63. Sul restauro del Crocifisso, cfr. R. Alongi e L Biondo, La memoria restituita, Palermo 2008.

16.   M. Scalisi, Il Crocifisso ritrovato. restauro, in II Crocifisso in mistura..., cit., pp. 37-48, figg. 50-53.



06 agosto 2018

Escursione Archeologica a "CUDDARU di CRASTU" Pietraperzia

Cuddaru di Crastu – Pietraperzia – Insediamento Siculo-Sicano (foto di Antonio Caffo)

Avevo sentito parlare di "Cuddaru di Crastu" ma non mi era mai capitata l'occasione di visitare questa località che si trova a sud-ovest dell'abitato di Pietraperzia. La prima volta che la potei visitare fu il 7 novembre 1974 assieme al signor Liborio Alletta ed un'altra persona di cui non ricordo più il nome e ne riportai una profonda impressione, tanto che negli anni successivi vi ritornai ancora per cercare di meglio approfondire le mie conoscenze.
A Milano, dove abito, andai in cerca di notizie sui primi abitatori della Sicilia ed in modo particolare sui Siculi e sui Sicani, perché secondo quanto poi pubblicato da Antonio Lalomia e Rosario Nicoletti, Cuddaru di Crastu non è altro che la Krastos Sicana che ancora oggi conserva importanti ed imponenti vestigia dopo 3000 anni. Le antiche fonti ci fanno conoscere le sedi di insediamento di queste popolazioni preelleniche della Sicilia, ma allo stato attuale gli storici e archeologi moderni non sembra siano giunti a conclusioni univoche. Non ci sono, o non si conoscono, documenti che dicano che "Cuddaru di Crastu" sia l’antica Krastos Sicula o Sicana che altri collocano a Castronovo di Sicilia o ancora tra Alcara Li Fusi e Longi.
I primitivi abitanti di Cuddaru di Crastu si fanno risalire al 1270 anni a.C. (sic).
Questi popoli ebbero le loro colonie, coltivarono la terra, ebbero le loro leggi e lentamente acquistarono una forma di civiltà prima dell'arrivo dei Greci. — Abitarono in villaggi fatti di capanne, di cui sono state rinvenuti molti resti, ogni villaggio aveva un suo capo e amministrava la giustizia ed era a capo di una milizia. Le loro abitazioni erano in prevalenza site sulle cime dei colli in modo da potersi difendere meglio dagli attacchi esterni. 

Cuddaru di Crastu – Pietraperzia (foto di Antonio Caffo)

Le zone dove essi abitavano erano in prevalenza boscose ed offrivano abbondante selvaggina, frutti e legna per le loro capanne, ma coltivavano anche la terra o almeno conoscevano il grano selvatico che cresceva spontaneo nelle nostre contrade.
La collina di "Cuddaru di Crastu" dove è ubicata la fortezza non è molto agevole da raggiungere. Dopo avere lasciato la macchina in fondo alla "trazzera" si prosegue a piedi in direzione Fastuchera. Il terreno, quando vi andai, era arato di fresco e si faceva molta fatica a salire, ma ci portò a scoprire moltissimi "cocci" di ceramica di varie epoche, specialmente greca con vari disegni illeggibili a causa della pezzatura minuta dei cocci. Assieme a questi trovammo diversi "raschiatoi litici", punte di frecce in selce ed una triangolare di bronzo. Prima di salire sulla sommità, mi fu mostrato un enorme masso che era rotolato, chissà in quale periodo, dalla fortezza e vi si scorgevano ancora dei gradini ritagliati nella roccia, che ritrovai poi uguali a mezza costa da dove s'era staccato il masso. Dopo d'esserci arrampicati fini lassù in cima, trovammo uno spiazzo abbastanza ampio dal quale si gode un panorama superbo ed incantevole. 

Monte Grande – Valle del Salso – Pietraperzia (foto di Antonio Caffo)

Da qui si scorge tutto il corso del fiume Salso da Capodarso fino al Canneto ed oltre. La scala ritagliata nella viva roccia non era l'unica opera di quei nostri lontani avi, ma vi erano molte celle abbastanza ben conservate. Altra opera era una specie di pozzetto, anche questo scavato nella roccia per la raccolta delle acque o altro.
Lo spettacolo è molto suggestivo, specialmente al tramonto del sole quando esso proietta gli ultimi suoi raggi e "Cuddaru di Crastu" assume l'aspetto in lontananza di un ariete coricato con la testa rivolta verso sud.
La toponomastica di questa contrada conserva ancora l'etimologia saracena, pertanto per chi voglia conoscere quale sia stato il nome originario del luogo rimane deluso.
Circa il toponimo di "Cuddaru di Crastu" per la prima volta si trova menzionato da Rosario Nicoletti e Antonio Lalomia in “Storia del territorio di Pietraperzia dalle origini agli Aragonesi” - Caltanissetta, 1982. Fra Dionigi parlando di questa località dice: "fra mezzogiorno e ponente, vi sono le vestigia di un fortissimo castello, quasi due miglia distante da Pietraperzia detto il Castellaccio, posto in cima ad una collina, in cui si saliva per una scala scolpita in viva pietra, come adesso si ammira vicino la Fastuchera ove si trova vari e diversi monumenti di antichità ..." (fra Dionigi, Relazione critico storia di M.SS. della Cava, Palermo 1776, pag. 32).

Monte Grande – Tombe a grotticella – Pietraperzia (foto di Antonio Caffo)

Per raggiungere "Cuddaru di Crastu" bisogna prendere la SS.191, la Pietraperzia Caltanissetta via Besaro e giunti in località "Iardiniddu" (giardinello), si svolta a sinistra in direzione Monte Grande (lu Muntiranni). Giunti in località Nagargia (dall'arabo al-Naggar falegname, carpentiere o ana-Hagar, spelonga, cavema), si prosegue in direzione Fastuchera (dall'arabo Fustaq, pistacchio). Questo triangolo tra Donna Ricca, Monte Cane, Fastuchera ha dato molti reperti archeologici della cultura di Castelluccio e vi si notano ancora molte tombe a grotticella.

Tramonto da Monte Grande (foto di Antonio Caffo)

Guardare queste colline verso il tramonto sembra che qualcuno di lassù scruti i nostri passi e cordialmente agita la mano in segno di un cordiale arrivederci.



Tratto da un articolo di Lino Guarnaccia in:
“L’informatore centro-siculo” Anno VI luglio 1990







23 luglio 2018

Testimonianze: L’insediamento delle suore salesiane a Pietraperzia




ln occasione del nostro viaggio a Pietraperzia del 2005, padre Bongiovanni, ci fece omaggio dell’opuscolo Santa Maria di Gesù. Storia di una Parrocchia in cammino, fatto stampare nella ricorrenza del cinquantesimo anniversario di istituzione della Parrocchia.
Gli articoli contenuti nel libretto ci riportarono alla memoria, con qualche punta di emozione, eventi riguardanti la storia del nostro paese che avevamo vissuto. Fu specialmente quello intitolato Le Figlie di Maria Ausiliatrice. Casa di Pietraperzia che attirò la nostra attenzione, perché avevamo partecipato direttamente alle vicende relative alle prime fasi dell’insediamento delle salesiane a Pietraperzia.
L’articolo in questione, pur con qualche imprecisione e qualche omissione, descrive l’ingresso delle suore nel loro primo piccolo “convento” e a distanza di quattro anni nella loro sede definitiva di via Marconi.
Le Figlie di Maria Ausiliatrice vennero a Pietraperzia per essere state nominate eredi del canonico Eligio Amico affinché fondassero un istituto per ragazze orfane e abbandonate.
Nel settembre del 1950 arrivarono le prime tre suore e trovarono una sistemazione in una piccola casa presa in affitto in via Garibaldi 65.
L’articolo descrive l’arrivo delle suore nella casa ancora disadorna e cita i nomi delle persone - tra le altre la signora Antonietta Cucurullo Nicoletti, le sorelle Giovanna e Giuseppina Bevilacqua - che si adoperarono con zelo nell’accoglierle, accompagnarle e agevolarne la sistemazione con la fornitura di arredi e suppellettili.
Considerata la provvisorietà e l’inadeguatezza di questa prima dimora, furono iniziate trattative da parte della Casa Madre Salesiana di Messina per l’acquisto de “lu Statutu”, come comunemente veniva denominato dai pietrini, l’attuale sede dell’Istituto Comprensivo “Vincenzo Guarnaccia”, ritenuto sede più idonea alle necessità di vita e di attività delle suore.
Unica proprietaria dell’Istituto, era la Cassa Rurale ed Artigiana “Maria SS del Rosario”; fondata nel 1908 dai sacerdoti Calogero Amico e Michele Carà.
La costruzione dell’imponente edificio, venne iniziata nel 1925, per adibirlo ad Istituto educativo e di avviamento professionale per ragazzi poveri. L’opera tuttavia non fu portata a termine a causa della morte dell’allora presidente della Cassa Rurale, il sacerdote Calogero Amico.
All’epoca dell’insediamento delle salesiane a Pietraperzia, la Cassa Rurale ed Artigiana “Maria SS del Rosario” era presieduta da nostro padre: Salvatore Giordano.


Le trattative con la Casa Madre Salesiana di Messina vennero condotte da nostro padre, assieme al Presidente delle Casse Rurali della Regione Sicilia, l’avvocato Arcangelo Cammarata, che conoscemmo personalmente per essere venuto più volte a casa nostra in quella occasione.
«Legato a quelle vicende conservo un ricordo», dice Salvatore, «che mi ha sempre accompagnato fino ad oggi. Nel corso delle trattative per l’acquisto dell’Istituto da parte delle suore salesiane, un giorno, allora poco più che decenne, mi capitò di accompagnare mio padre e il Presidente Cammarata, presso la sede delle suore di via Garibaldi. L’incontro si svolse e si concluse in un clima cordiale. Ma la cosa che mi è rimasta maggiormente impressa di quella circostanza è la lezione educativa che mi diede mio padre.
Le suore ci offrirono caffè freddo in bicchieri di vetro. Al mio turno, la suora che ci serviva orientava verso di me il vassoio in modo da indurmi a prendere il bicchiere meno pieno. Io invece, ignorando il tacito invito, presi uno dei bicchieri colmi. Mio padre che aveva seguito la scena non mancò, una volta soli, di farmi notare il mio comportamento così poco dignitoso».
Fu nostro padre che, durante un successivo incontro in via Garibaldi, vista la precarietà nella quale vivevano le suore, prima ancora che si concludessero le trattative per l’acquisto, propose una sistemazione più adeguata, offrendo loro di occupare l’edificio stesso, “lu Statutu” appunto.
Per rendere agibili alcune parti interne del fabbricato, venne assunta una squadra di muratori, capomastro il signor Vincenzo Falzone, che riparò anche il tetto della parte destinata alle suore. Giuseppe Rabita artista falegname di più generazioni seguì i lavori di sua competenza e tra i suoi aiutanti portava con sé Saro Bauccio (che poi fu sindaco di Pietraperzia) e me stesso.
Così le salesiane, usufruendo della disponibilità di nostro padre, presero possesso del fabbricato ancora prima della stipula del compromesso. Le suore apprezzarono molto il generoso gesto di cui gli rimasero sempre riconoscenti.
«L’ingresso delle suore all’Istituto», dice Maria, «fu una festa. Seguì l’apertura di laboratori di ricamo, cucito…; le ragazze che frequentavano apprendevano l’arte del ricamo a tombolo, che molte esercitarono poi come attività per guadagnare qualcosa. L’Istituto divenne l’oasi della gioventù femminile pietrina: vi si tenevano riunioni e feste com’è nello stile salesiano.
Nel seguito delle trattative relative alla compravendita furono compiuti dei viaggi da nostro padre presso la Casa Madre Salesiana di Messina; qualche volta l’accompagnò anche la mamma. Ricordo la bella amicizia che si strinse con suor Santina Pirrelli, allora Superiora della Casa di Pietraperzia, che durò sempre, la quale citava mio padre come il “nostro benefattore”».


Malgrado gli sforzi e la disponibilità, i salesiani non comperarono l’immobile. Il Rettore Maggiore dei Salesiani e altre personalità dell’Ordine, esaminando più volte l’Istituto, ritennero che fosse smisurato per le esigenze di Pietraperzia; decisero di costruire un nuovo istituto più adatto per l’esercizio delle loro attività.
Venne siglato un contratto d’affitto che durò fino al completamento del nuovo edificio. Nel 1954, le Figlie di Maria Ausiliatrice, entrarono nell'attuale Istituto intitolato al sacerdote Eligio Amico
«L’aiuto di mio padre verso le suore continuò», conclude Maria, «le suore per gratitudine regalarono a mia madre delle tende bianche ricamate a mano da loro stesse. Mio padre non volle che il suo nome venisse scritto sulla targhetta dei benefattori».
Quelli che abbiamo scritto sono solo alcuni episodi che riguardano l’avvenimento di una realtà straordinaria che, a ripensarci, ancora ci commuove.


Maria e Salvatore Giordano




10 luglio 2018

Testimonianze: 1943, SFOLLATI DI GUERRA "A LI MINNITI"




Quando anche l'Italia divenne campo di battaglia e, nell'imminenza dello sbarco degli alleati in Sicilia, le incursioni aeree si fecero più frequenti e intense, moltissima gente lasciò il paese per cercare rifugi più sicuri nelle campagne, anche chiedendo ospitalità presso conoscenti o parenti. Allora, a li Minniti, ci raggiunse la zia Lucietta con tutta la sua famiglia. Con l'arrivo dei nuovi sfollati raddoppiò il numero delle persone e, di conseguenza, il fabbisogno di generi alimentari per sfamare tante bocche.
Per maggior sicurezza avevamo abbandonato la casa colonica e ci eravamo rifugiati nelle grotte, tra le rocce dove avevamo sistemato materassi e pagliericci vari.
La bisnonna  Francesca non aveva voluto seguirci: più rischioso sarebbe stato per lei muoversi tra i sassi e salire sino alle grotte che restare nella casa. Durante quei terribili mesi di paura la bisnonna non perse la sua serenità continuando a badare alle galline, a raccogliere le uova, a preparare la cagliata con il latte della capra. Gli adulti andavano e venivano dalla casa per accudire agli animali e provvedere a tutte le esigenze della numerosa compagnia; noi bambini, invece, quasi mai ci allontanavamo dalle grotte. La cosa che maggiormente ci metteva paura era il rombo degli aerei: appena li sentivamo arrivare correvamo velocemente ai rifugi, se ce ne eravamo allontanati di qualche metro. Ancora tempo dopo la guerra gli stessi tuoni durante i temporali ci facevano tremare dallo spavento.
Niente successe a nessuno di noi, per fortuna, ma spesso assistemmo a bombardamenti su Caltanissetta: sentivamo il frastuono delle esplosioni e notavamo le grosse nuvole di polvere dalla parte del cimitero della città. Una bomba sola cadde a metà strada tra la nostra casa colonica e la rrobba di li Minniti, che probabilmente avevano voluto colpire. Noi sentimmo il fortissimo boato e il rumore dei vetri andati in frantumi. Grande fu lo spavento di mamma e di zia Mariuccia che, all'interno della casa, in quel momento stavano scaldando il forno per cuocere il pane.
Nonna trascorse quella giornata in grande agitazione: zio Biagio, partito il mattino presto per andare al mulino per macinare del grano, tardava a tornare. La paura della nonna era che avessero bombardato anche il mulino e che allo zio fosse capitata qualcosa di grave. Si tranquillizzò la sera tardi quando lo zio tornò con il suo carico di farina. Noi bambini fummo i primi a dirgli della bomba. Solo dopo qualche giorno gli uomini andarono a vedere il grosso cratere che l'ordigno aveva provocato.

Ruderi del mulino di Marcatobianco - Pietraperzia

Non passarono più di due settimane dalla caduta della bomba che osservammo sbalorditi, da una purtedda all'altra del tratto di strada che vedevamo dalla casa (circa un chilometro o poco più), i soldati anglo-americani provenienti da Caltanissetta avanzare in una fila interminabile verso Pietraperzia, con le divise di colori diversi, cachi, color petrolio, grigio-verde, e notammo le piccole jeep americane che sembrava dovessero capovolgersi da un momento all'altro da come si muovevano veloci, quasi saltellando sui sassi della strada.
Dopo alcuni giorni tornò papà: era arrivato a piedi; ce lo vedemmo comparire improvvisamente dalla parte della piana del Salso. Scoprimmo che durante un bombardamento era stato ferito alla gamba e al braccio sinistro, dove aveva ancora una scheggia conficcata che si sentiva toccandolo. Niente di ciò ci aveva fatto sapere prima. Aveva portato con sé un commilitone, un certo Palazzetti, marchigiano, che aveva preferito restare ancora in Sicilia e accettare l'ospitalità che papà gli aveva offerto piuttosto che avventurarsi in un pericoloso ritorno a casa.

Truppe Anglo-Americane nella provincia di Enna

Infatti i tedeschi opponevano una forte resistenza all'avanzata degli alleati in Italia. Notammo che papà e Palazzetti erano stati seguiti da un grosso cane dal pelo fulvo, che essi chiamavano Churchill (non avevamo ancora le conoscenze necessarie per capire il motivo dell'attribuzione al cane di tale nome). Palazzetti rimase a li Minniti alcuni mesi, aiutando nei lavori della campagna e della stalla, poi decise di partire; di lui non sapemmo più niente. Il cane rimase con noi a far la guardia alla casa colonica.
Tornati in paese, conoscenti, ci raccontarono che erano cadute parecchie bombe e che avevano distrutto delle case. Per diversi anni dopo la guerra restarono ancora i ruderi di una casa in piazza Vittorio Emanuele col tetto sfondato, fino a quando la Società Militari in Congedo non acquistò il locale e vi costruì la propria sede sociale. Qualche tempo dopo sapemmo anche della disgrazia che aveva colpito la famiglia Culmone: una bomba a mano inesplosa, che bambini tante volte avevano preso in mano e si erano lanciata per gioco, questa volta era scoppiata vicinissimo a Salvatore, figlio di don Rusariu Ddoca e della maestra Torrenti, e ne aveva provocato la morte.(1)

Maria e Salvatore Giordano


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(1)     Il tragico evento è ricordato da Giovanni Culmone in Pietraperzia anni '40-Reminiscenze, 1996, p.10. Lo stesso, in ibidem, pp.31-38, racconta le giornate di luglio 1943, a Pietraperzia, attraverso una serie di testimonianze.

tratto da: PIETRAPERZIA n° 3 Anno V  Luglio/Settembre 2008