07 maggio 2018

Pietraperzia: come eravamo - 2^ parte


Usanze e costumanze a inizio '900 



Ancora nei primi decenni del 900 le strade urbane, quasi tutte a fondo naturale e affollate da animali da cortile, fungevano da pattumiere. In estate erano coperte da uno spesso strato di paglia di scarto e letame essiccato al sole che d’inverno si trasformava in maleodorante fango. Le piogge autunnali erano attese e provvidenziali per ripulire le strade, almeno quelle in forte pendenza.
L’illuminazione pubblica della piazza e delle vie principali era affidata al lampionaio che governava e distribuiva in punti strategici lumi a petrolio.
La piazza pur riportando la denominazione di Corso Vittorio Emanuele, da Santa Maria a San Rocco era divisa in due tronconi ed attraversata dalle cavalcature che da via Uovo (oggi via Trieste) si portavano a via Selva (oggi via Roma) e viceversa, ma la gente continuava a denominare i due tronconi “Piano Santa Maria” e “Piano o Piazza San Rocco.

Carretti "parcheggiati" sul lato del marciapede prospiciente il fondaco
Il teatro comunale senza prospetto era attaccato al fondaco (stalle e deposito di carretti e anche albergo per carrettieri di passaggio e di occasionali viaggiatori) bisognerà arrivare al 1931 per andare da via Vittorio Emanuele a Piazza della Repubblica attraversando l’odierna via Monfalcone. Anche allora ci fu il bisogno della nomina di un Commissario Prefettizio, Sig. Balestrino Cav. Rag. Umberto, per firmare il decreto di demolizione delle case interessate.
Pane e pasta si preparavano in casa. Non erano arrivati ancora i torchi e la pasta si sfilava col matterello “sagnatù̢ri” e si tagliava col coltello: tagliarì̢na o lasagna. Se c’era più disponibilità di tempo si preparavano: filatid̩d̩i, maccarru̢na e cavati.
Per il pane chi non disponeva di forno proprio in casa ricorreva ai forni rionali che offrivano il servizio a pagamento in natura. Si pagava la cottura (ccu lu cucchju̢ni).
Per la macina del grano da poco era entrato in funzione il mulino dei Martorana (la màchina di Callaràru) ma era ben poca cosa per soddisfare le richieste di quella collettività che spesso era costretta a raggiungere i vari mulini ad acqua ubicati nelle nostre campagne o in campagne di comuni limitrofi.

Casa della famiglia Bertini Romano angolo via Roma
Incombeva il terrore del brigantaggio che spesso privava i proprietari, se non della vita, del carico e della cavalcatura. Si diceva a volte, che qualcuno si dava sporadicamente al brigantaggio per necessità, per sopperire alle precarie condizioni economiche che non consentivano di guadagnare legalmente il necessario al sostentamento della numerosa famiglia.
I mezzi di comunicazione erano carenti e a rischio brigantaggio. La Provincia, allora Caltanissetta, e altre realtà abitative, si raggiungevano col mezzo proprio; l’asino o la mula. Chi ne era privo noleggiava una cavalcatura privata o faceva ricorso al mezzo pubblico “la periotica” carrozza omnibus ad otto posti tirata da due cavalli. Fu in servizio a Pietraperzia a cura di Màstru Llillì̢ (Zito Calogero) fino a tutto il 1920. A causa della viabilità non tanto agevole e per carenza di mezzi pubblici di trasporto gli spostamenti da una città all’altra e gli scambi commerciali e culturali erano scarsi.
Di conseguenza ogni collettività abitativa era quasi autarchica e necessariamente e orgogliosamente ricorreva al proprio artigianato: per il vestito andava dal sarto; per le scarpe dal calzolaio; per la porta o i mobili dal falegname; per la rimessa dei ferri all’animale da soma dal maniscalco, dal fabbro per lavori più impegnativi; per il basto o i vari attrezzi agricoli, vardu̢ni ccu lu maniu̢ni (basto con arcione), vardeḍḍi, vìrtuli, visazzi rrutu̢na, andava dal bastaio; per il pellame “nti lu cunzarijutu”, un tizio che gestiva la concia delle pelli ricavate generalmente dalla morte degli animali da soma.
Ricorreva al barbiere, che, spesso, veniva pagato in natura con frumento o altri prodotti della campagna a seconda di quanti erano i componenti maschi di una famiglia. Oltre che barbe e capelli si ricorreva al barbiere per l’estrazione di qualche dente o per eventuale salasso “sagnija”.



Chiamava il muratore per ristrutturare la casa o farsi ricostruire "la manciatu̢ra" o la "tannu̢ra" (cucina a legna in muratura).
Si rivolgeva a “lu callararu” per stagnare pentole e tegami di rame, allora molto in uso. Oltre al pentolame di terracotta e di rame, non c’erano altri utensili per cucinare.
Chiamava “lu stagnataru” (lattoniere) per “allannari” (rivestire di lamiera zincata) o saldare la pila per lavare i panni.
Un economia povera e arretrata  che alle soglie del XX secolo usava ancora il baratto per il piccolo commercio di generi alimentari.
Da fuori arrivavano, sapone, sale, sarde salate, castagne, pomodori secchi “cchjappi”, estratto di pomodoro essiccato al sole, frutta secca, noci e nocciole e raramente frutta fresca.
Caratteristico era il venditore di maialini: arrivava con due grossi resistenti cesti cilindrici, caricati orizzontalmente a basto di m ulo, e mostrava ai clienti i cuccioli che emettevano sonori e assordanti grugniti.
Per il commercio di quei pochi manufatti arrivati da fuori aleggiava la più grande sfiducia e i prodotti venivano bollati col detto “cosi accattati a la canna” per significare scarsa qualità e poca resistenza all'uso.

Giovanni Culmone


La puntata precedente è stata pubblicata il 30 aprile 2018



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