05 aprile 2018

Invito alla lettura: LA SIGNORA DELL’ISOLA




Il romanzo LA SIGNORA DELL’ISOLA di Madge Swindells si svolge in Corsica. Sybilia una ragazza di 16 anni viene promessa in sposa a Michel, conosciuto soltanto poche ore prima della cerimonia nuziale. Michel è un buon partito è figlio di Xavier Rocca proprietario terriero, capo del suo villaggio, Taita, e dirigente del locale Fronte Nazionale Corso.
Il matrimonio di Sybilia e Michel non viene consumato. Michel è un giovane sensibile, bello e omosessuale. Il contatto fisico con una donna lo fa rabbrividire e negli anni trenta l’omosessualità, molto più di ora, ledeva l’onore, non solo il suo, ma soprattutto quello di suo padre. Dopo qualche tempo Sybilia riesce a sedurre il marito e avere un rapporto intimo, Syblia rimane incinta e darà alla luce un bambino.
Michel presto si innamorerà di Angelo e abbandonerà la moglie e il figlioletto.



Un pomeriggio di trent’anni dopo in un caldo agosto del 1960 Sybilia uccide a colpi di fucile il suocero. Ciò appare come una vendetta, ma in realtà è la conseguenza di un segreto che tanti in paese conoscono, ma la loro ancestrale, tacita legge impone il silenzio. La donna è in grave pericolo rischia di essere linciata dalla sua gente. Nessuno tranne Jacklyn Walters, un antropologo americano che si trova a Taita, aiuterà Sybilia a mettersi in salvo e l’aiuterà anche nella ricerca della verità. Per sapere il motivo dell'omicidio di Xavier si dovrà tornare indietro nel tempo e risalire agli anni tragici dell’occupazione nazista, agli inizi della seconda guerra mondiale.
La Corsica viene occupata dai tedeschi, Sybilia, che conosce le lingue, viene reclutata dai servizi segreti inglesi con il compito di fingersi una cameriera in un albergo di Bastia dove ha sede il comando tedesco. Deve raccogliere informazioni da trasmettere agli alleati. Il capitano Robin Moore, un agente americano paracadutato in Corsica per organizzare i vari gruppi della Resistenza, entrerà nella vita di Sybilia e dalla loro storia d'amore nascerà una bimba.
Dopo la liberazione della Corsica il capitano Robin Moore riceve l’ordine di recarsi in Inghilterra per ricevere altre istruzioni, ma dopo la partenza di Robin Moore di lui non si saprà più nulla. Sarà in quell’agosto del '60 che Sybilia conoscerà la verità che l'ha portata a compiere l’omicidio del suocero. In tutti quegli anni, nell’attesa di Robin, Sybilia ha dovuto sopportare umiliazioni e disprezzo. Per avere avuto una relazione con uno straniero era stata emarginata, la gente  la chiamava: ‘’la puttana’’.
Nel romanzo l'autrice descrive accuratamente i sentimenti di ogni personaggio. Gli odi, le passioni, la nobile personalità di Sybilia; una donna colta, elegante nella figura, una donna forte, dalla quale traspare in tutto il romanzo il suo destino di donna infelice.
Leggendo LA SIGNORA DELL’ISOLA ho provato la sensazione di vivere come dentro quei luoghi selvaggi. La Corsica con le sue impervie e grandiose montagne, i suoi boschi di querce, la macchia mediterranea di mirti, i ginepri, le lavande profumate, evoca luoghi nei quali si vorrebbe vivere.
La storia del romanzo intriga sin dalla prima pagina e coinvolge il lettore fino all’ultima.

Lina Viola

Questo libro che mi ha veramente appassionato lo donerò questa estate alla biblioteca comunale. Un romanzo che v’invito a leggere.




28 marzo 2018

Trovatelli e Ruota di Pietraperzia: I "proietti" - 2^ Parte




A Pietraperzia è tuttora possibile monitorare il fenomeno dei proietti inclusi nell'elenco dei battezzati dei libri della Parrocchia Santa Maria Maggiore dal 1600 al 1950. Senza contare i neonati, privi di paternità certa, l’elenco degli abbandoni, molto elevato, evidenzia lo spaccato di miseria sociale di quegli anni oscuri. Il fenomeno, già molto antico, era diventato abominevole e disumano fin dal 1600. Alle sfortunate mamme, a volte vittime di stupri e di abbandoni, esposte alla riprovazione sociale e spesso ingiustamente ritenute responsabili di colpe non loro, venivano additate come “donna libera”, “meretrice” e altro d’irripetibile. Ai pochi bambini, ritrovati per caso e forse strappati temporaneamente alla morte, venivano appiccicati nomignoli spregiativi e denigratori: “bastardello”, “figlio dello Spirito Santo.
I trovatelli, proietti, esposti o come dir si voglia, i più fortunati registrati senza un cognome, diventavano esseri privi di dignità e di identità umana, abbandonati ai capricci della natura e consegnati all’oblio del tempo; era impossibile, come lo è ancora oggi, seguire il tracciato della loro vita per conoscerne il vissuto. Della maggior parte di loro e della stragrande maggioranza, venuta alla luce e mai registrata, nessuno saprà più niente. La magnanimità di alcuni, e ce ne sono stati tanti nel passato, disposti a farsi carico, per tutta la vita, di uno di questi derelitti, trovato per caso, non ha affrontato e tantomeno risolto l’antico e problematico fenomeno dell’abbandono. Nacque allora l’idea della “Ruota”, non come semplice attrezzo per recuperare nascituri, ma come struttura sociale finalizzata al recupero immediato dei proietti e poi alla loro crescita e al loro inserimento nel tessuto sociale.
Nel 1751 il viceré borbonico, Duca Laviefuille, sollecitato dai parroci dell’isola, cominciò ad interessarsi dei proietti. Tanti anni dopo, con la circolare del Marchese Fogliani pare che si abbia avuto voglia di affrontare definitivamente l’annoso e mai risolto problema. Il provvedimento incontrò non poche difficoltà applicative, specie nei piccoli comuni e si trascinò fino alla fine del secolo.
Tra il 1753 ed il 1768 la frequenza di bambini abbandonati e ritrovati ancora vivi diventa più frequente. In quegli anni era Parroco l’Arcipresbitero Don Michele Ramistella, da cui dipendeva il Santuario Madonna della Cava ed erano gli anni in cui le autorità centrali stavano intensificando gli sforzi per istituire la “Ruota dei proietti”. Qualcuno, a conoscenza del progetto e interessato a ridurre la piaga dell’abbandono, avrà illustrato favorevolmente la proposta della istituenda “Ruota”. Persone interessate, intuendo che a breve le proprie creature sarebbero potuto diventare ospiti della “Ruota”, si adoperarono ad abbandonarli in luoghi ritenuti sicuri e di facile ritrovamento, per evitare probabili attacchi di cani randagi o altri animali selvatici.
Dall'elenco dei battezzati, da cui questo lavoro trae tutte le informazioni, non si rileva, in quegli anni, l’esistenza di una sola organizzazione pubblica che si facesse carico del problema dei proietti. Solo madrine e/o padrini, presenti al rito del battesimo, solo rari  volontari disposti all'adozione, avrebbero potuto assumersi tale pesante onere per tutta la vita. Per i neonati abbandonati, senza fortuna d’incontrare persone motivate all'adozione, c’era la più totale indifferenza.
Sarebbe interessante capire perché degli 86 trovatelli registrati nell’arco di 26 anni, tra il 21 marzo 1756 e il 4 dicembre 1782, solamente 5 siano stati affidati ad una fantomatica ruota.
Con l'annessione del Regno di Napoli al Regno Italico (1806-1815) ad opera di Napoleone, la Ruota nel meridione, venne ufficialmente istituita in numerosi paesi del Sud per la tutela pubblica dell'infanzia abbandonata.
In realtà ruote degli esposti erano presenti a Catania, Messina, Napoli anche prima del 1800. In alcune grandi città o in centri abitativi più grossi esistevano dei brefotrofi che accoglievano anche bambini arrivati da lontano, portati da uomini prezzolati, ma pochi riuscivano a superare lo stress del trasporto. Contenuti in ceste di vimini, a volte portati a spalla, esposti alle intemperie, alimentati solo occasionalmente e in modo assolutamente incongruo, in condizioni igieniche spaventose, spesso eliminati per strada o gettati nei fossi come oggetti fastidiosi e ingombranti; quei pochi che sopravvivevano fino al brefotrofio spesso morivano poco dopo perché giunti in condizioni estreme.
La mortalità dei bambini abbandonati era altissima alla fine dell'ottocento; si stima che ne morissero all'incirca la metà nel primo anno di vita e un'altra metà prima del compimento del settimo anno.
Le ragioni di questo alto tasso di mortalità, in linea con quello di altri paesi europei, erano legate principalmente a due ordini di fattori: il periodo trascorso al freddo e la malnutrizione, oltre alle malattie infettive contratte nei luoghi di degenza.
La "Ruota" lasciava comunque i piccoli "esposti" al freddo anche se per un periodo di tempo minore rispetto ai tanti neonati lasciati davanti alle chiese; proprio da questa "esposizione" nacque il cognome Esposito che era dato a molti di questi infelici. E se nel napoletano era Esposito il cognome più adoperato per questi bambini, nel Lazio si utilizzava soprattutto Proietti derivante da "proietto" cioè gettato via.
In altre parti d'Italia, altri cognomi segnavano i bambini abbandonati: Colombo a Milano, Innocenti a Firenze, Della Scala a Siena e poi Trovato, Del Frate, in altre località.
Colei che per prima accoglieva il neonato, prestando le prime cure e scegliendo, nella maggior parte dei casi, il nome di battesimo, era la “pia ricevitrice”, una donna, spesso una suora, (a Pietraperzia era una donna con esperienza pluriennale di mamma) che aveva il compito, al suonare della campanella esterna, di prelevare i trovatelli dalla ruota.


Giovanni Culmone






Continua...

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26 marzo 2018

Don Giovanni in Sicilia e quegli sguardi di troppo




Incontro con l’Autore

Vitaliano Brancati. Un affascinante e poliedrico protagonista. Un autore dalla natura intricata e oscura, non sempre visto dalla critica con degna oggettività, la quale lo ha spesso etichettato come “colui che portò il gallismo e il dongiovannismo in Italia”.
Ahimè, mai ci fu errore più grave di questo.
Il dongiovannismo è sinonimo di vitalità, forza, vigore, coraggio, carnalità, tensione verso la più accesa virilità maschilista; elementi del tutto estranei a Giovanni Percolla e alla sua strampalata combriccola, protagonisti del romanzo Don Giovanni in Sicilia (1941). Già il titolo dimostra quella connotazione tutta siciliana dei personaggi, il che comporta una serie di tratti distintivi: primo fra tutti, quello del mero atto sessuale non più carnale, ma solo apparente, statico e a tratti platonico, poiché l’eros, colonna portante dell’opera, si regge su un'unica e sola logica: quella degli occhi e quella dello sguardo.
Don Giovanni in Sicilia non è l’unico romanzo in cui lo sguardo assume un significato pregnante, si veda Anni perduti, in cui i protagonisti sono impegnati nella costruzione di una torre, una torre da guardare, una torre da cui guardare il panorama, un guardare che si sostituisce all’agire. Lo sguardo, quindi, nasconde dei significati più profondi, che saranno ben chiari se si entra nel merito dell’opera.
Giovanni Percolla ha tre sorelle, Rosa, Lucia e Barbara. Si ricordi che Santa Lucia è la protettrice della vista e degli occhi, e Brancati non sceglieva assolutamente a caso i nomi: le sorelle, infatti, rappresentano un surrogato materno, quell'elemento che tiene Giovanni ancorato al nido, che non ne permette la crescita e la maturazione. Gli occhi, quindi, sono strettamente legati alla sfera sessuale. Perfino la sua attività lavorativa è all'insegna degli occhi, poiché “il suo lavoro al negozio si riduceva ad aiutare con gli occhi quello che facevano lo zio e i cugini”. Anche il padre non è esente dal motivo degli occhi, poiché «La notte, il commendatore Percolla fu assalito dalla febbre, e i suoi occhi ingranditi s’attaccarono alla porta come vedendo qualcosa che gli altri non vedevano» La morte si associa quindi ad una padre ipervedente, dotato di un sentire unico. Tutti i membri della famiglia, chiaramente in misura diversa, sono convulsamente trascinati nella giostra degli occhi e dello sguardo.



Veniamo quindi a Giovanni.
Il suo eros non è concreto, ma soltanto astratto e mortifero. Non si bea della carnalità, ma si associa sempre ad immagini di fissità. Non passa all’azione, ma è solo un gioco di sguardi, come nel Dolce Stil Novo, divenendo simbolo di una mancata crescita dei personaggi. Gli occhi, quindi, sono un prolungamento, o meglio una sostituzione, del membro virile, poiché essi approdano dove tutto il resto non arriva.
«“Talìa?” dicono a Catania. “Che fa, talìa” domanda a voce bassa lo studente al compagno di banco, insieme al quale, col capo chino e rigido, passa sotto il balcone di lei.» Alla fine tutto si riduce ad uno sguardo, anzi ad una talìata.
Perfino il primo incontro tra Giovanni e Ninetta è all’insegna dello sguardo: Giovanni viene, per la prima volta, talìato, questa volta non è lui ad esercitare lo sguardo sulla donna, ma a subirlo.
Dietro il motivo dello sguardo si celano ragioni ancora più inconsce e recondite, a tal proposito si vedano le condizioni in cui Giovanni venne al mondo:
«Giovannino nacque un giorno più tardi di quando doveva nascere. Per ventiquattr’ore, gli sguardi, che i parenti mandavano al grembo della madre […] furon quelli che si mandano a una tomba precoce. Il bambino, il “corazziere”, che non usciva alla luce, fu considerato morto, e il nonno del padre lo pianse con gli occhi asciutti e certi rumori della gola che somigliavano a colpi di tosse».
Come si legge, Giovanni nacque all'insegna degli sguardi rivolti al grembo della madre, visto come una tomba precoce, simboleggiando ancora un ripiegamento verso la rassicurante dimensione uterina. Il nonno del padre, invece, lo pianse con occhi asciutti, con un dolore quasi indifferente ed estraneo. Madre, padre, occhi, sono motivi ricorrenti nella psicanalisi, in relazione al cosiddetto “complesso di Edipo”, che si accecò per non vedere più quel sole che era stato testimone dell'incesto. Anche Giovanni, quindi, come Edipo, non vuole abbandonare “il nido”.
Il complesso di Edipo sembra poi tornare in Anni perduti, secondo cui «si diventa adulti quando si diventa padri» a testimonianza di una impossibilità di paternità, un’angoscia di castrazione. A proposito di ciò, si vedano “i rimproveri” della madre nei confronti del padre di Giovanni, il quale, quando era bambino, lo baciava morbosamente:
«“Smettila di baciarlo così! Gli porti via gli occhiuzzi!…”»
Secondo Freud, la paura dell’accecamento (e quindi anche quella di Edipo) consiste nell'originario e inconscio timore dell’evirazione. L’evirazione denota, ancora, impossibilità di un amplesso carnale, richiamando anche l’impotenza del Bell’Antonio, simbolo di un eros mancato. Sempre secondo Freud, il complesso di Edipo collegato al motivo degli occhi è fortemente presente nel racconto L’uomo della sabbia (o Mago sabbiolino) dello scrittore tedesco E. T. A. Hoffmann, tematica affrontata nel saggio Il perturbante.
Fra tutte le profonde relazioni che tra le due opere si possono stilare, una cattura la nostra attenzione: l’espediente della bambola. Muscarà, uno degli amici di Giovanni, tornò da un viaggio con una bambola che assomigliava molto ad una donna in carne ed ossa; l’oggetto del desiderio venne nascosto in casa di Muscarà, poiché esso consisteva nell'elemento “perturbante”, un particolare inquietante che suscitava anche attrazione. La bambola avrebbe sconvolto la loro routine, rischiando di far “passare all'azione” i personaggi confrontandoli con una realtà più corporea rispetto a quella in cui avevano vissuto, per questo doveva essere celata.
Anche nel racconto di Hoffman è presente una bambola, Olimpia, la quale si rivelerà essere, alla fine del racconto, un automa, una bambola senz’anima.
Il motivo degli occhi e dello sguardo connesso al complesso di Edipo è presente anche nell'ultima eredità che lo scrittore ci ha lasciato, Paolo il Caldo. Il protagonista ci consegna un triste e malinconico soliloquio:
«Lo sforzo costante della mia vita è stato di vedere la luce del mondo (che per me è quella della Sicilia) dalla parte ridente, ed espellere dal cervello le influenze della sua ripresa buia, dalla quale derivano l'apprensione e la lussuria.
Non vi sono riuscito sempre. I periodi, in cui non vi sono riuscito, portano il nome di esaurimento nervoso. Che cosa era esaurito in me? Il fosforo, dicevano i medici. E questa diagnosi mi piaceva in modo particolare, perché fosforo vuol dire luce. In uno di tali periodi, mi son trovato seduto su un gradino del teatro greco di Siracusa, a una rappresentazione dell'Edipo a Colono di Sofocle. Quando il vecchio cieco gridò, con un gesto falso:
"Luce, che nella mia vivente tenebra più non vedevo, e sempre eri pur mia…" io ebbi un capogiro. Il verso, nonostante il gesto falso da cui era accompagnato, sembrava avesse premuto, come il dito di un chirurgo che operasse sul mio cervello, il punto in cui sono concentrate le forze della coscienza e della veglia.
»
Come si evince, il protagonista è consapevole di un suo oscuramento della coscienza, di un tragico conflitto interiore, va quindi alla ricerca della "luce" (motivo presente anche in Anni perduti), senza la quale la mente è ottenebrata dall'apprensione e dalla lussuria. E della stessa luce va alla ricerca Edipo che, dopo l'accecamento, viveva nelle tenebre.
Ricordiamo che il Novecento è il secolo della psicanalisi, dell’inconscio, del monologo interiore, del flusso di coscienza, basti tener presente l'Ulisse di James Joyce e La coscienza di Zeno di Italo Svevo (il cui protagonista, guarda un po’, è afflitto dal complesso di Edipo).
L’analisi riportata denota quindi una grande attenzione di Vitaliano Brancati al panorama novecentesco della letteratura italiana e straniera, un autore che, in virtù delle sue mille risorse e dei numerosi spunti di riflessioni, non può e non deve essere ridotto ad anguste etichette.
Spogliamo quindi i preziosi scritti del Brancati da tutte quelle nomee astruse e da quelle classificazioni riduttive, andiamo alla loro natura più intima ed essenziale, di una tempra tutta siciliana. Gettiamogli quindi uno sguardo, anzi, una talìata.


Anna Marotta