10 maggio 2018

Invito alla lettura: L'amica geniale



Ho iniziato a leggere "L'Amica geniale" perché mi incuriosiva il clamore per il successo del libro e per le voci sulla vera identità della scrittrice Elena Ferrante (sembra che dietro questo pseudonimo ci sia un noto scrittore napoletano e la moglie). Così ho voluto affrontare la lettura di questo “fenomeno letterario”: la quadrilogia dell’Amica geniale. Quattro romanzi, che mi hanno tenuta incollata per 1770 pagine: L'amica geniale del 2011, Storia del nuovo cognome del 2012, Storia di chi fugge e di chi resta del 2013 e Storia della bambina perduta del 2014.
Il racconto, narrato in prima persona, inizia con la scomparsa di Lila o Lina ormai sessantaseienne amica da sempre di Lenù o Elena, e ci conduce in una interminabile vicenda, a volte piacevole e rilassante, a volte triste e malinconica che avrà un risvolto finale sorprendente. Il racconto descrive in modo accurato e coinvolgente, una storia semplice intrecciata su alcuni fatti storici. La vicenda di due bambine e poi donne che rendono la lettura dell’intera opera appassionante.
Elena, voce narrante, usa, a volte, un linguaggio crudo e colorito che rafforza la scrittura rendendola più vicina e reale al folklore napoletano. Viene descritta la vita nel “rione", un quartiere povero della periferia napoletana in cui è nata. Nel rione, vengono rappresentati numerosissimi personaggi, alcuni di rilievo, altri secondari, tutti si muovono, tutti lavorano e tutti concorrono a dare spessore al romanzo. Quello che accade, come in un piccolo paese, è conosciuto da tutti coloro che vi abitano, perché amici o perché imparentati tra loro.
Il quartiere fa da palcoscenico alle diverse storie dei personaggi: storie di amore, di tradimenti, di amicizia, di politica; dove tutti lavorano e lottano per sopravvivere agli stenti quotidiani, ma dove l’unica cosa che conta veramente è il denaro e per ottenerlo si fa di tutto, ricorrendo anche all'illegalità.
È in questo quartiere, che l’autrice conosce bene, e ne conosce il tessuto sociale, che fa prendere forma al racconto di Lenù e della sua amica Lila.
Coetanee, compagne di scuola alle elementari e compagne di giochi, cresciute tra violenza familiare e ignoranza, col sogno per un futuro diverso da quello in cui sono nate. Qui un ruolo importante l’ha avuto la scuola per una delle due bambine: Lenù, che grazie alla maestra, che si è accorta delle potenzialità di entrambe si fa da tramite presso le famiglie e convincerle a farle proseguire negli studi. Elena si laureerà, farà esperienze, girerà il mondo. Lila si sposerà a solo sedici anni e arricchirà la sua cultura attraverso lo studio d’autodidatta.


  L’amica geniale  può sembrare una storia inverosimile, un’amicizia ossessiva, una vita in simbiosi, a tratti un rapporto patologico. Un legame tra le due amiche fatto di amore e di rancori, di fiducia e di gelosie, di grande ammirazione di Elena per Lila e di incomprensioni. Lila che ha una intelligenza superiore (l’amica geniale) ha sempre saputo influenzare Elena nelle scelte più importanti della vita.
Una descrizione puntigliosa dei luoghi e dei personaggi che segue man mano negli anni la loro ”crescita” nella fisicità, nei loro stati d’animo, nella maturazione delle loro personalità complesse.
Nel romanzo, invece, sono realistiche le situazioni che incrociano i fatti storici di quei decenni.
La struttura narrativa e l’ordine cronologico degli avvenimenti narrati mi hanno fanno rivivere sensazioni della mia infanzia e poi di adolescente e poi ancora gli anni sessanta, il movimento studentesco, i conflitti sociali di quell'epoca, il terrorismo (come in un flashback ho rivisto la devastazione della Banca Nazionale dell’Agricoltura; il giorno dopo l’attentato, casualmente, per lavoro, passavo da Piazza Fontana).
Un appassionante viaggio nella vita di due donne e la storia di quegli anni. Un racconto che coinvolge, di libro in libro e ti obbliga a leggere i successivi per il fascino del travaglio psicologico che l’autrice(?) riesce a trasmettere in pagine memorabili.

Lina Viola

Il libro "L'amica geniale" è disponibile in biblioteca.




07 maggio 2018

Pietraperzia: come eravamo - 2^ parte


Usanze e costumanze a inizio '900 



Ancora nei primi decenni del 900 le strade urbane, quasi tutte a fondo naturale e affollate da animali da cortile, fungevano da pattumiere. In estate erano coperte da uno spesso strato di paglia di scarto e letame essiccato al sole che d’inverno si trasformava in maleodorante fango. Le piogge autunnali erano attese e provvidenziali per ripulire le strade, almeno quelle in forte pendenza.
L’illuminazione pubblica della piazza e delle vie principali era affidata al lampionaio che governava e distribuiva in punti strategici lumi a petrolio.
La piazza pur riportando la denominazione di Corso Vittorio Emanuele, da Santa Maria a San Rocco era divisa in due tronconi ed attraversata dalle cavalcature che da via Uovo (oggi via Trieste) si portavano a via Selva (oggi via Roma) e viceversa, ma la gente continuava a denominare i due tronconi “Piano Santa Maria” e “Piano o Piazza San Rocco.

Carretti "parcheggiati" sul lato del marciapede prospiciente il fondaco
Il teatro comunale senza prospetto era attaccato al fondaco (stalle e deposito di carretti e anche albergo per carrettieri di passaggio e di occasionali viaggiatori) bisognerà arrivare al 1931 per andare da via Vittorio Emanuele a Piazza della Repubblica attraversando l’odierna via Monfalcone. Anche allora ci fu il bisogno della nomina di un Commissario Prefettizio, Sig. Balestrino Cav. Rag. Umberto, per firmare il decreto di demolizione delle case interessate.
Pane e pasta si preparavano in casa. Non erano arrivati ancora i torchi e la pasta si sfilava col matterello “sagnatù̢ri” e si tagliava col coltello: tagliarì̢na o lasagna. Se c’era più disponibilità di tempo si preparavano: filatid̩d̩i, maccarru̢na e cavati.
Per il pane chi non disponeva di forno proprio in casa ricorreva ai forni rionali che offrivano il servizio a pagamento in natura. Si pagava la cottura (ccu lu cucchju̢ni).
Per la macina del grano da poco era entrato in funzione il mulino dei Martorana (la màchina di Callaràru) ma era ben poca cosa per soddisfare le richieste di quella collettività che spesso era costretta a raggiungere i vari mulini ad acqua ubicati nelle nostre campagne o in campagne di comuni limitrofi.

Casa della famiglia Bertini Romano angolo via Roma
Incombeva il terrore del brigantaggio che spesso privava i proprietari, se non della vita, del carico e della cavalcatura. Si diceva a volte, che qualcuno si dava sporadicamente al brigantaggio per necessità, per sopperire alle precarie condizioni economiche che non consentivano di guadagnare legalmente il necessario al sostentamento della numerosa famiglia.
I mezzi di comunicazione erano carenti e a rischio brigantaggio. La Provincia, allora Caltanissetta, e altre realtà abitative, si raggiungevano col mezzo proprio; l’asino o la mula. Chi ne era privo noleggiava una cavalcatura privata o faceva ricorso al mezzo pubblico “la periotica” carrozza omnibus ad otto posti tirata da due cavalli. Fu in servizio a Pietraperzia a cura di Màstru Llillì̢ (Zito Calogero) fino a tutto il 1920. A causa della viabilità non tanto agevole e per carenza di mezzi pubblici di trasporto gli spostamenti da una città all’altra e gli scambi commerciali e culturali erano scarsi.
Di conseguenza ogni collettività abitativa era quasi autarchica e necessariamente e orgogliosamente ricorreva al proprio artigianato: per il vestito andava dal sarto; per le scarpe dal calzolaio; per la porta o i mobili dal falegname; per la rimessa dei ferri all’animale da soma dal maniscalco, dal fabbro per lavori più impegnativi; per il basto o i vari attrezzi agricoli, vardu̢ni ccu lu maniu̢ni (basto con arcione), vardeḍḍi, vìrtuli, visazzi rrutu̢na, andava dal bastaio; per il pellame “nti lu cunzarijutu”, un tizio che gestiva la concia delle pelli ricavate generalmente dalla morte degli animali da soma.
Ricorreva al barbiere, che, spesso, veniva pagato in natura con frumento o altri prodotti della campagna a seconda di quanti erano i componenti maschi di una famiglia. Oltre che barbe e capelli si ricorreva al barbiere per l’estrazione di qualche dente o per eventuale salasso “sagnija”.



Chiamava il muratore per ristrutturare la casa o farsi ricostruire "la manciatu̢ra" o la "tannu̢ra" (cucina a legna in muratura).
Si rivolgeva a “lu callararu” per stagnare pentole e tegami di rame, allora molto in uso. Oltre al pentolame di terracotta e di rame, non c’erano altri utensili per cucinare.
Chiamava “lu stagnataru” (lattoniere) per “allannari” (rivestire di lamiera zincata) o saldare la pila per lavare i panni.
Un economia povera e arretrata  che alle soglie del XX secolo usava ancora il baratto per il piccolo commercio di generi alimentari.
Da fuori arrivavano, sapone, sale, sarde salate, castagne, pomodori secchi “cchjappi”, estratto di pomodoro essiccato al sole, frutta secca, noci e nocciole e raramente frutta fresca.
Caratteristico era il venditore di maialini: arrivava con due grossi resistenti cesti cilindrici, caricati orizzontalmente a basto di m ulo, e mostrava ai clienti i cuccioli che emettevano sonori e assordanti grugniti.
Per il commercio di quei pochi manufatti arrivati da fuori aleggiava la più grande sfiducia e i prodotti venivano bollati col detto “cosi accattati a la canna” per significare scarsa qualità e poca resistenza all'uso.

Giovanni Culmone


La puntata precedente è stata pubblicata il 30 aprile 2018



Per la 3^ parte clicca qui



04 maggio 2018

Invito alla lettura: Figli di uno schizzo



Il romanzo del ritorno “Figli di uno schizzo” e la mia idea di scrittura.



In un mondo che alza troppo spesso la voce per cose futili, che diventa talvolta stretto per i sogni e di desideri di tutti, c’è chi si mette in un angolino e ritrova il suo mondo, il suo essere, attraverso la scrittura che è un riparo da tutto il caos mondano.
La scrittura è il linguaggio di chi non sa parlare, o meglio, non vuol parlare a chi non ha voglia di ascoltare in un mondo che va di fretta, per cui rimane lì pronta a svegliare  le emozioni dell’io di chi scrive, ma anche di chi vuole leggere  per vivere una vita in più.
Figli di uno schizzo è un romanzo che segna il ritorno, il ritorno di una passione che non se ne è mai andata, perché è così: ciò che amiamo non ci lascia mai del tutto, si può mettere da parte, ma lasciarci mai.
Così come un marinaio ritorna a casa dopo un naufragio, io, tra una parola, una virgola e un punto, ho ritrovato me stesso, sono ritornato nel mio mondo perché il bisogno di scrivere dentro di me l’ho sentito urlare.
Scrivere è una dimensione che non ha tempo, nella quale ci caliamo ogni volta vogliamo comunicare qualcosa che altrimenti sarebbe incomunicabile, restando chiusi in noi stessi.
Scrivere è la voce della spontaneità, della meraviglia.
Scrivere è mettere un attimo in pausa la propria vita per viverne qualche altra, e magari poi tornare alla propria vita un po’ più ricchi.


Giuseppe Bianco


Breve biografia:
Dal 2000 al 2008 ho vinto numerosi concorsi letterari sul territorio nazionale, sono stato membro di giuria in molti concorsi, ho gestito il sito letterario “Le parole per te” dove si dava spazio ad autori esordienti e più conosciuti. Ho organizzato per 10 anni il concorso letterario “Città di Caivano – Le parole per te”, curato varie antologie. Direttore editoriale della casa editrice ALBUSedizioni. Pubblicato tre libri “Lungo la strada del tempo”, “Chiedilo all’amore” e “Figli di uno schizzo” libro che segna il ritorno dopo una lunga distrazione.

Il libro è stato donato alla biblioteca dall'autore. Potrete leggerlo a breve.