10 dicembre 2018

Invito alla lettura: "Pastorale americana" di Philip Roth




Non avevo letto Philip Roth, ma l’eco suscitato dai mass media dopo la sua scomparsa, mi ha incuriosito e spinta a leggere Pastorale americana, uno dei suoi romanzi più noti.
La voce narrante è quella di Nathan Zuckerman uno scrittore appartenente alla comunità ebraica di New York che narra la vicenda personale e famigliare di Seymour Levov, detto lo Svedese, suo compagno al liceo e fratello maggiore di un suo compagno di classe. Soprannominato lo Svedese per il suo aspetto fisico e per la sua carnagione chiara. Un uomo generoso, bello, con un forte senso morale e grandi doti sportive, era stato l’idolo degli studenti.
Il romanzo racconta della famiglia ebrea dei Levov, emigrata negli Stati Uniti alla fine dell’800. Tre generazioni con gli stessi obiettivi di benessere e prosperità. Il nonno di Seymour che aveva fatto lo scarnatore di pelli in una conceria, il figlio Lou, padre dello Svedese, a 14 anni aveva lasciato la scuola ed era entrato a lavorare nella stessa conceria. Con enormi sacrifici e lavorando duramente si arricchirà creando una fabbrica di guanti per donna. Adesso Seymour Levov, lo Svedese, è subentrato al padre e la dirige con successo.
Lo Svedese sposa la cattolica Dawn Dwyer ex Miss New Jersey.
Bellissima coppia ricca e apparentemente felice. Una classica e invidiabile famiglia americana. Dal matrimonio hanno una figlia, Merry, con un difetto, la balbuzie e problemi di personalità che preoccupano il padre e rendono infelice la madre. Per correggere la balbuzie, Merry è seguita da specialisti; ma Merry, nonostante tutto, peggiorerà.
Il dramma che sconvolgerà la normale quotidianità dello Svedese e che farà crollare gli equilibri della sua vita è quando Merry, ormai adolescente, inizia la ribellione verso i genitori, criticando i loro valori e il loro stile di vita, e con il rifiuto delle convenzioni borghesi. Comincia a partecipare alle manifestazioni di protesta contro la guerra del Vietnam e alle lotte per i diritti civili delle minoranze. Sono gli anni della contestazione giovanile che la porteranno a unirsi a un gruppo di estrema sinistra, e a compiere un attentato. La conseguenza sarà la morte di una persona che la costringe alla latitanza.
Seymour Levov non accetta la figlia terrorista che ha distrutto la vita di persone innocenti. Il romanzo è permeato dalla disperazione di un padre per la perdita della figlia e sempre alla sua ricerca; l’impossibilità di comprendere i motivi che l’hanno allontanata dalla famiglia, e l’odio che l’hanno portata a compiere atti terroristici. Triste e commovente, quando anni dopo, ritrova la figlia che aveva creduto morta. Irriconoscibile nell'aspetto, vive come una senzacasa, in condizioni di estrema povertà, provata psicologicamente. Incapace di riportare la figlia a casa e toglierla dal letame nel quale vive una vita disperata, riconosce tutta la sua impotenza di fronte alle scelte distruttive della figlia.
La vita familiare di Seymour Levov è ormai definitivamente sconvolta. La moglie Dawn, dopo un lungo periodo di depressione comincia a riprendersi la sua vita; la scopre che ha una relazione con l’architetto che ha ristrutturato la loro villa.
Il romanzo è un lungo viaggio nel dolore, il racconto di come la precarietà dei sentimenti può distruggere una famiglia. Seymour Levov aveva costruito la sua vita e la sua famiglia secondo la “pastorale americana” della classe medio-alta del New Jersey, senza però aver saputo salvare la figlia dai rivolgimenti giovanili di quegli anni sessanta e il suo matrimonio dal subbuglio dei tempi moderni.
Consiglio la lettura del romanzo, un racconto potente dal quale un paio di anni fa è stato tratto un film

Lina Viola


Pastorale americana di Philip Roth è disponibile in biblioteca. 
Puoi anche prenotarlo cliccando qui








09 dicembre 2018

Incontro con l'autore: PAOLO CORTESI


per gentile concessione di Paolo Cortesi
http://www.paolo-cortesi.com/racconti.html



Moltissime biografie di personaggi non celebri (non abbastanza famosi da avere chi scriva la loro biografia) sono in terza persona, ma scritte dal biografato. Per lealtà verso chi legge, dichiaro che sono l’autore di queste note, scritte in terza persona per rispetto alla tradizione.

Paolo Cortesi è nato a Forlì il 23 novembre 1959. Nipote di capomastro e figlio di ebanista, è piuttosto incapace di lavori manuali per cause di cui è pienamente cosciente ma che non possono interessare chi legge. Ha frequentato il Liceo Classico G.B. Morgagni di Forlì, in cui ha sperimentato cosa sia la divisione in classi della società; di quei cinque anni ha un ricordo molto deprimente. Si è laureato in Filosofia (con lode, precisa con vanità) nel 1983 presso l’Università di Bologna; aveva scelto la facoltà piuttosto improvvisamente, dopo una lunga attenzione verso Lettere, in seguito alla lettura dello Zarathustra di Nietzsche, che però è opera molto più lirico-mistica che filosofica, dunque è possibile sospettare che sia stata una decisione un po’ imprecisa. Ma ormai….

Iniziò prestissimo a scrivere: risale ai suoi otto anni il suo primo “romanzo”, ovvero una storia avventurosa (esploratori, isola misteriosa, cannibali) che orgogliosamente fece leggere al suo maestro, l’indimenticato Natale Brigliadori, il quale restituì il quadernetto le cui pagine erano solcate di decine di correzioni che lo lasciarono basito. Le sue prime prove in prosa erano peggio che mediocri, erano infami. E lo restarono per molti anni.

Dopo una prima intensissima stagione di poesia (che ora gli è del tutto estranea), si dedicò alla saggistica: storia locale (ha collaborato a lungo con giornali e riviste locali e lo fa ancora), storia contemporanea, storia delle idee, storia del pensiero esoterico rinascimentale.

Nel 2004 pubblicò il suo primo romanzo “Il fuoco, la carne” che ha vinto il Premio Todaro Faranda per il romanzo inedito. Nel 2006 fece l’errore più atroce della sua vita, che scontò dieci anni dopo con grande sofferenza
Nel 2008 pubblicò “Il patto”, che ebbe un buon successo, se si pensa che uscì con un piccolo editore come Nexus.
Nel 2011 uscì “La velocità dei corpi”, romanzo cui è molto affezionato e che considera forse la cosa migliore che ha scritto finora. Fu pubblicato da un grande editore (Piemme) che non lo lanciò come l’autore avrebbe voluto. Con Piemme pubblicò anche “Marcel Proust e l’assassinio delle Tuileries” (2014), romanzo giallo con una accuratissima ricostruzione della Parigi del 1912; nella storia, Proust risolve un caso criminale senza mai uscire di casa (e davvero Proust restava chiuso per lunghi periodi…).

Ha pubblicato diversi volumi di saggistica con la Newton Compton, a partire dal 2001, e il rapporto continua tuttora: nel 2018 è prevista l’uscita di un libro dedicato all’Emilia Romagna nella collana “Forse non tutti sanno che…”. E sempre nel 2018 è attesa l’uscita, presso l’editore Carocci, di un saggio sull’opera di Nostradamus, un saggio molto documentato e dunque molto critico.

Lo scrittore in lingua italiana che preferisce è Dante Arfelli. Ha due figli, Federico e Giacomo, che stima molto. Totalmente astemio, è moderatissimo fumatore di sigari e colleziona cartine da gioco per bambini.

Per conoscere meglio le opere di Paolo Cortesi accedi al sito www.paolo-cortesi.com
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L'officina di Nostradamus è presente in biblioteca prenotalo qui







03 dicembre 2018

Invito alla lettura: Accabadora di Michela Murgia





Michela Murgia in
Accabadora fa intrecciare due usanze sarde. Si tratta di due pratiche dalle origini remote; ma le loro tracce non si perdono nella leggenda. Ne sopravvivono testimonianze fino agli anni Sessanta, in alcune regioni sarde.

La prima: una donna benestante adotta il figlio di troppo d'una madre povera. La donna non avrebbe figli, in altro modo; ella diviene sua madre, agli occhi della comunità. Il figlio, "generato due volte", è suo "fillus de anima"; è frutto della sterilità della donna da cui è stato scelto. E' stato scartato dalla sua prima madre ed è stato eletto dalla seconda.
La seconda pratica, invece, è un rudimento di paese dell’eutanasia. E’ una vecchia a svolgerla. La vecchia s’aggira silenziosamente, non vista, di notte. Mentre cammina, la sua gonna nera e lunga svolazza fra le case. Si veste di nero, e si muove di notte, perché la comunità di Soreni non deve vedere ciò che esula dalla sua morale. Ma anche gli abitanti di Soreni, in un anfratto senza regole (quello del mondo notturno, ma anche della femminilità più mistica e leggendaria) contempla la figura dell’Accabadora. Acabar: terminare, in spagnolo. L’Accabadora si reca, discreta nella notte, al capezzale dei morenti, cui manca il suo solo colpo finale per essere finalmente morti. Li finisce, con un colpo di bastone dove sa lei, con una pressione del cuscino; fa loro respirare polveri che stordiscono. L’Accabadora è l’ultima madre in cui a qualcuno è dato d'imbattersi. L'ultimo volto materno in cui specchiarsi. L’ultima madre cui qualcuno si accompagna nel congedo dalla vita, per alleviare il dolore prima del trapasso. Perché “non c’è nessun vivo che arrivi al suo giorno senza avere avuto padri e madri a ogni angolo di strada”. L’Accabadora è una madre esecutrice priva di figli.

La protagonista del romanzo è Maria Listru, ultima figlia di troppo della popolosa, ma povera, famiglia Listru. La vedova Listru, madre di Maria, accetta l’offerta d’una ricca vedova senza figli, che la adotta. Maria è “fillus de anima, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai.”. Non rimpiangerà la madre precedente; Bonaria Urrai, la vedova adottiva, ha molto da insegnare a quella bambina selvatica: come cucire le asole, prepararsi alle guerre del futuro, come accogliere la vita e la morte. L’aveva scelta fin da un pomeriggio in bottega, quando s’era accorta dei furti inosservati che la bambina compiva. Era stato il rossore delle ciliegie appena rubate a tradire la piccola Maria: la refurtiva si vedeva da una macchia rossa sulla tasca bianca del suo abitino. Bonaria l’aveva vista, “nei peccati senza complici dei bambini soli.” L’aveva adottata.

La piccola Maria è legata a Tzia Bonaria, insieme alla quale, senza che il lettore trovi il tempo d'accorgersene, diviene donna. Ma Maria non sa ancora che l’Accabadora s’addentra silenziosa per le strade, di notte, invisibile perfino ai vivi, avvolta nel suo scialle nero. Va a porre fine alle vite con le quali la stessa Maria è venuta a contatto, nella piccola Soreni. Ogni tentativo operato dai personaggi del romanzo per ristabilire un ordine, seppure precario, agli avvenimenti più precari della vita, è sventato dalla figura dell’Accabadora, puntuale come la morte, l'evento che porta con sé.
Tanto remissiva alle sue colpe, nei momenti di debolezza, l'Accabadora è tuttavia altrettanto risoluta quando sia giunto il tempo di commetterle.

Queste due pratiche raccontate nel romanzo conferiscono all’Accabadora una lontananza storica; ma che non si perde troppo lontano, nella storia. Ed una distanza antropologica, ma che si trattiene, fra le tante punte liriche del romanzo della Murgia, nei confini etici dell’umano. Ed è proprio il dibattito sull’umano, su cosa sia giusto e cosa sia soltanto morale, ad intrecciarsi nei dialoghi dei protagonisti. Tale dibattito è tenuto in ragione della distanza fra ciò che essi credono e il modo in cui le loro azioni sono accolte dagli abitanti di Soreni. Ma non solo quelli di Soreni: il dialogo di questi personaggi si inserisce nel dibattito oggi attuale sui temi di eutanasia e adozione. Lo affronta da una certa distanza, lo pone sotto la luce di una Sardegna tradizionalista, quasi atavica.

Una lontananza spaziale e temporale conferisce all’Accabadora, nei termini di ambientazione e d'atmosfera narrativa, un sentore di isolamento che ricorda qualcosa dei luoghi più sperduti della letteratura. Il parente più illustre della Soreni della Murgia è forse la Macondo di Marquez. Questi luoghi traggono specificità dalla loro dimenticanza d’un mondo civilizzato. In questi luoghi, è possibile che gli zingari si spingano ai confini del mondo a far conoscere il ghiaccio (Marquez, Cent’anni di solitudine). Ma in questi luoghi prende forma anche la Sardegna delle tradizioni che Michela Murgia ci ha raccontato magistralmente nell’Accabadora.


Alessia Borriello