12 gennaio 2018

Tra letteratura e disillusioni risorgimentali

Cari amici lettori, alcune risposte del principe Tomasi di Lampedusa all’intervista impossibile di Valeria Bongiovanni e un commento sempre di Valeria all’articolo L’isola che se ne andò, riguardanti il risorgimento e alcune valutazioni storiche postunitarie, ha indotto Salvatore Di Gregorio a rispondere a Valeria e tornare a parlare sull'influenza e sul ruolo che gli inglesi ebbero nella Sicilia dei Borboni e della successiva disillusione degli ideali risorgimentali.




Davvero interessante lo scoop di Valeria Bongiovanni che è riuscita non solo a rintracciare Tomasi di Lampedusa ma anche ad impegnarlo in una conversazione brillante e ricca di spunti.
E’ stata veramente brava l’intervistatrice a condurre la discussione tra letteratura e storia fino a punzecchiare il nostro autore ricordandogli l’accusa infamante che gli toccò di ricevere per avere fatto con la sua opera vituperio della memoria del risorgimento.
E l’autore del Gattopardo rivendica il diritto dell’artista di scrivere la storia come un romanzo, ossia come la sente (verrebbe da dire come gli pare).
Ma questo è appunto privilegio dell’arte e questa è la libertà dell’artista; la ricerca storica non gode degli stessi privilegi e deve utilizzare altri metodi ed attenersi ad altre regole. E tuttavia (pur dovendo riconoscere questa licenza artistica) mi ha impressionato lo stesso il giudizio tagliente del nostro autore sull’epopea unitaria del 1860 come l’opera di un manipolo di malfattori (o poco più) al soldo dell’Inghilterra. Ho trovato altrettanto interessante anche il commento di Valeria al post L’Isola che se andò nel quale  viene ripreso il tema dell’influenza inglese nelle vicende siciliane preunitarie ed unitarie ricavandone un giudizio non meno tagliente di quello del suo intervistato con in più una vena di rimpianto per quel regno delle due Sicilie cuore pulsante del Mediterraneo.
Indubbiamente il ruolo e l’interesse dell’Inghilterra nelle vicende dell’isola in quegli anni è questione acclarata sotto il profilo storico.
Le vicende siciliane del periodo, del resto, stanno a pieno titolo all’interno delle dinamiche storiche dell’Europa a cavallo dei due secoli: in quel contesto la Sicilia è per gli inglesi un pezzo importante della strategia di contenimento del predominio napoleonico nell’Europa. Anche nel mediterraneo si gioca la partita per l’egemonia sul continente. E l’influenza inglese sull’isola fu importante ed incisiva nelle vicende politiche quanto in quelle economiche. Ma, a ben vedere, in alcuni passaggi, gli inglesi svolsero perfino un ruolo filo borbonico: non bisogna dimenticare che allorché Murat si insedia a Napoli scacciandone i Borboni che si ritirano a Palermo, il Regno di Sicilia nasce come sostanziale protettorato inglese sotto la monarchia borbonica; la fine del Regno di Sicilia comincia con la fine dell’emergenza napoleonica e con i nuovi equilibri europei dettati dai vincitori (anche dagli inglesi dunque) che risistemarono l’Europa e, in quello scacchiere, favorirono il rientro dei Borboni a Napoli ripristinando il Regno delle due Sicilie con profonda frustrazione delle velleità autonomistiche della Sicilia.
E pagine della storia europea furono anche gli eventi del 1848 e del 1860 nei quali si combinarono i moti sociali e di pensiero che agitarono le forze e gli interessi locali che ne furono protagoniste e le strategie delle potenze maggiori (Francia, Austria, Regno pontificio non meno dell’ Inghilterra) che operarono (ieri come oggi) per orientare la direzione degli eventi e, a condizioni mutate, le cose presero una direzione nel 48 e un’altra diversa nel 60.
In questo caso, lo sbocco (il lato vincente delle cose, come lo definisce Renda nella sua Storia della Sicilia) fu il compimento del processo unitario e, dentro una nuova realtà statuale, l’inizio di una nuova storia per la Sicilia: la nascita di un nuovo ordine politico e sociale. Una storia  che non può essere raccontata (e tanto meno compresa) ricorrendo ancora alla suggestione di una isola immutabile e mai protagonista della propria storia. Quella non fu una storia semplicemente subita anche se la scintilla venne appiccata da fuori.
Nel 1860, la stragrande maggioranza dei siciliani partecipò  schierandosi in favore della soluzione unitaria e facendo propria la parola d’ordine “Italia e Vittorio Emanuele” . Una scelta di campo che attraversò le città e le campagne; che  coinvolse strati sociali i più diversi; che accomunò moderati, e democratici; perfino gli autonomisti e i nostalgici del Regno di Sicilia scelsero la prospettiva dell’unificazione per regolare i conti con lo Stato borbonico e riscattare il 48.
Naturalmente se la scelta fu generalizzata, le motivazioni e le aspettative che vi furono riposte erano le più differenti; tuttavia ciascuna forza e ciascuna istanza  confidava e scommise su quella condizione di ripartenza per potere giocare la propria partita e migliorare la propria condizione (o mantenere il proprio privilegio).
E fu una partita dura e difficile che segnò vincitori e sconfitti dentro la società siciliana e nel rapporto tra la Sicilia e la nuova realtà statuale. Nel sentimento dei siciliani e nelle vicende politiche che segnarono iI periodo postunitario, i segni prevalenti furono indubbiamente (ed a ragione) quelli delle aspettative tradite e della disillusione; ma mai lo scontro sociale (anche nelle sue fasi più cruente) e la discussione politica vennero condotte guardando all’indietro, a quella che era stata la Sicilia prima dell’unificazione; l’accusa peggiore che veniva fatta al regno sabaudo era quella di trattare la Sicilia così come i Borboni l’avevano trattata. L’accusa che Napoleone Colajanni lanciò al governo sabaudo fu di operare in continuità con i borboni.



Il giudizio storico sull’unificazione (a proposito perché pseudo unificazione?) è questione che ancora appassiona e divide e questo è bene: discutere ed appassionarsi è il sale della conoscenza ed è condivisibile l’opinione che su quelle pagine di storia va recuperato un giudizio più equilibrato e meno celebrativo.
Ma siccome questa è questione troppo complessa per pensare di poterne fare una discussione appena appena decente nelle poche righe che consentono questi interventi e, per quanto mi riguarda, anche al di fuori della mia competenza preferisco concludere ritornando al punto di partenza ossia alla letteratura.

Lo sfogo“
Meglio prima! Meglio prima!”  (Pirandello- I vecchi e i giovani) di Caterina Laurentano, per come lo capisco io, non è che vuole evocare un passato che viene rimpianto e al quale si anelerebbe tornare ma è il paradosso cui ricorre la protagonista per esprimere la rabbia di chi aveva creduto negli ideali del 48 e del 60 e per essi aveva lottato e sofferto (aveva perduto la dote, il titolo e il marito) di fronte al loro tradimento e di fronte ad una realtà per lei inaccettabile (il “meglio morti” che si usa tante volte per esprimere frustrazione di fronte l’insopportabilità della condizione che si vive più che la volontà di uscire dalla vita).

Salvatore Di Gregorio



Nessun commento:

Posta un commento

Il tuo commento sarà pubblicato tra breve. Grazie.