La casa di Via 4 Novembre
La posizione della nostra casa ci
offriva anche la possibilità di un altro tipo di spettacolo: dalla finestra che
dava sulla discesa Rosolino Pilo, dopo fortissimi temporali vedevamo scendere,
sbalorditi, grossissime piene di acqua sporca accompagnate da un rumore
assordante. La piena che, partita da via Ville, si ingrossava man mano che
scendeva verso il basso, ricevendo altra acqua e altra sporcizia dalle strade
laterali come un fiume dai suoi affluenti, all’altezza del nostro incrocio
copriva, alta una spanna, tutta la larghezza della discesa e proseguiva,
ingrossandosi ancora, sino a lu Vaddùni dove, in questi casi, alcune
abitazioni venivano allagate. La
grossa fiumara nella sua furia trascinava a valle non solo lo sporco delle
strade ma anche cufinati di ogni genere di immondizia che la gente,
lungo il percorso, affidava alla piena: era
abitudine diffusa, infatti, in quelle occasioni, ripulire stalle e paglialori. Di temporali se ne
scatenavano di molto violenti, con lampi e tuoni da scuotere le ossa e da
essere motivo di serie preoccupazioni, specie se nei periodi di raccolto.
Allora vedevamo la mamma prendere la corona del rosario e recitare, con molta
partecipazione, tra le altre, la preghiera che chiamava “Lu Verbu”:
Lu Verbu sacciu e lu Verbu haju a ddiri
Lu Verbu ca nni lassà nostru Signuri
Quannu acchjanà la cruci ppi muriri
ppi sarvari a nuantri piccatura.
O piccatura, o piccatrici
viditi quant’è ranni chista cruci
ca teni un vrazzu ‘n cilu e nantru ‘n terra
sinu a la vadda di Giosafat
picciddi e ranni amma essiri ddà
Scinni la Matri SSanta ccu lu libbru a li manu e chi dirà?
«Figliu li pirdunasti li Jiudija
Accussi ha ppirdunari li figliuli mija»
«Matri ji nu li puzzu pirdunari
Ca sunu tutti piccatura assai,
sanu lu Verbu e nu lu vunu diri
ntre li vampi e la pici han ‘a –ccadiri»
Cu nu lu sapi si lu fa’ nsignari.
Cu lu dici tri- bboti ‘n capizzu
Je scanzatu di trimulizzu;
Cu lu dici tri-bboti la notti
Je scanzatu di mala morti;
cu lu dici tri-bboti a la via
l’accuppagna la Vergini Maria;
cu lu dici tri-bboti ‘n campu
je scanzatu di trona e di lampu.
Ma era spettacolo altrettanto bello,
dopo la calata di la chjina, vedere
l’acciottolato lucido della discesa brillare sotto il sole improvvisamente
comparso. Per alcuni giorni la strada appariva pulita, ma restavano evidenti i
segni del suo passaggio: sterpi, paglie, stracci appiccicati alle grate dei dammusa e ai muri delle case.
Il crocevia Rosolino Pilo/via 4
Novembre era però compreso nell’itinerario della via di li Santi, e questo fatto, secondo la nostra percezione, gli
conferiva una certa importanza. Da qui passavano tutte le processioni delle
feste religiose, qui sostava, per alcuni minuti, lu Signuri di li fasci, la processione del Venerdì Santo, la più
suggestiva, sentita ed emozionante del nostro paese, dopo che, svoltata da via Garibaldi, aveva percorso quel centinaio
di metri di discesa sdrucciolevole prima di raggiungere il Corso Umberto[1].
A la
Strataranni il percorso diventava
pianeggiante e lineare, allora l’imponente corteo si snodava in tutta la sua
lunghezza e si potevano contemplare in un’unica visione i tre simulacri: il
colle imbiancato del calvario, lu
Cravaniu, sormontato dal Crocefisso sul globo policromo, Cristo morto
nell’urna e la Madonna Addolorata piangente, avvolta nel suo manto nero,
portata a spalle dalle donne cattoliche, ciascuno preceduto dai devoti
incappucciati delle confraternite, seguiti da bande musicali e da una
moltitudine di persone in preghiera, comprese quelle delle famiglie di recente
lutto.
Per il passaggio di Lu Signuri di li fasci si rendeva necessario rimuovere li curdìni, quei fili tesi da un
balcone all’altro delle case di fronte, utilizzati per stendere il bucato. Era
incombenza di papà slegare, qualche giorno prima del venerdì, il filo che univa
trasversalmente il nostro balcone a quello di casa Nicoletti, situati ai due
angoli opposti dell’incrocio; arrotolato a mo’ di grosso bracciale restava
attaccato al balcone di donna Caterina per circa quindici giorni. La curdìna veniva ripristinata dopo il
passaggio della processione della festa di San Vincenzo Ferreri, che veniva
celebrata una settimana dopo Pasqua.
La giornata del Venerdì santo,
fulcro della settimana santa, veniva vissuta a Pietraperzia secondo le
tradizioni tramandateci dai nostri avi, che prevedevano il divieto di usare
forbici e attrezzi taglienti, martelli e di piantare chiodi, e caratterizzata
da pratiche di penitenza e mortificazione. Era consuetudine della nostra
famiglia, e ad essa fummo abituati fin da bambini, osservare quel giorno il
digiuno come quella di compiere, la sera del giovedì santo, il giro delle
cinque chiese per la visita a li Sapurca,
assieme ai nostri genitori. Ma i comportamenti di tutta la settimana erano
ispirati da parte dei credenti pietrini ad una profonda mestizia, come
sottolineavano le stesse preghiere di la
Simana santa, che invitavano a meditare sul mistero della Passione di Cristo;
preghiere che la mamma ci intonava invitandoci ad ascoltare e a ripetere con
lei:
Accuminzammu di lu Santu luni,
na jurnatedda benigna e murtali.
L’armuzzi santi stanu a nghinucchiuni
prigannu nostru Ddì celestiali.
……… ………..
Si vu’ lu Paradisu o piccaturi,
ti cci’ ha addurari li so cincu chiaghi.
…. …. ….
Di venniri murì nostru Signuri
Ntre un trunculu di crucci assai pinnenti
Tri chiova furu li primi dulura
E la cruna di spini trapungenti.[2]
Con il ritorno in paese ebbero
fine le vacanze in campagna e con esse i giochi all’aria aperta: rincorrere le
farfalle, stanare le lucertole, fare la marmellata schiacciando i fichi sulla
mattonella, preparare i biscotti pasticciando con la farina, partecipare
all’impastata del pane per farci fare da zia Mariù la fuata a ffacci di vecchia. Cessarono le esplorazioni attorno a la puntara in cerca di cchiappari e origano, le arrampicate sugli alberi, la ricerca dei nidi,
il perdersi nell’ammirare meravigliati, nelle ore più calde della giornata, lo
spettacolo dei falchi che, libratisi nell’aria volteggiavano leggeri sullo
sfondo della volta azzurrissima del cielo o si lasciavano cullare dal vento,
simili ad aquiloni tenuti da un filo invisibile. Finirono anche le entusiasmanti escursioni al Salso, tutte le volte che lo zio Biagio ci portava con sé a
raccogliere li pumadoru, li milinciani,
li pipi e li muluna di χiauru che
coltivavamo nell’orto della piana. L’invito era accolto con grida di gioia
perché potevamo avvicinarci al fiume vedere l’acqua scorrere lenta pulita e
trasparente, sperare di vedere sgusciare veloce qualche anguilla. Al fiume ci
piaceva giocare coi grossi ciottoli neri e levigati; lucentissimi mentre erano
ancora bagnati, tolti dall’acqua
presto si asciugavano perdendo la loro brillantezza, e apparivano opachi e
coperti da una polverina bianca. Noi ne prendevamo alcuni di varia grandezza e
ce li portavamo a casa, ci attraeva la loro forma rotonda e liscia; li usavamo
per schiacciare le mandorle.
Era però altrettanto appagante,
in paese, andare a trovare i nonni. Tutti i pomeriggi, salvo imprevisti,
eseguiti i compiti scolastici, ci trovavamo tutti a casa loro in Via Ville
Superiori. Lì trovavamo le cugine Antonietta e Rocca, Totò, Maria e Vincenzina, figlie della zia Lucietta, le cui
abitazioni sorgevano a poca distanza da quella dei nonni. Nonna Nina, che
attendeva il nostro arrivo, aveva predisposto le tasche della sua lunga gonna
nera riempiendole di leccornie, come biscottini a forma di animaletti, i famosi
nnicchinnà: con gesto improvviso, che
chiamava l’ammuccata, ce li cacciava in bocca al momento di
salutarla; li muscardini sicchi, dolcissimi, che sgranocchiavamo
con avidità. Canestrate intere di moscardini freschi e morbidi non mancavano
comunque mai a casa della nonna, che ne era abilissima confezionatrice. Nelle capienti tasche del suo grembiule trovavano posto anche i ceci tostati, li ciciri callijati, che lei stessa
preparava, di cui eravamo pure molto ghiotti. In una grossa padella posta sul
fuoco, contenente già della sabbia di fiume, metteva i ceci sbollentati che, a
contatto con la sabbia sempre più calda, man mano che la nonna li rigirava con
un lungo cucchiaio di legno, prendevano quel colore tipico tra il bianco e
l’avana. Quando, a suo parere, i ceci avevano preso la giusta tonalità, versava
il contenuto della padella in un setaccio e, fatta cadere la sabbia, restavano
i ceci tostati, coloriti e friabili, che travasava in un panierino di paglia
intrecciata, con il fondo ormai sfilacciato e bruciacchiato. I ceci ci
piacevano anche verdi; grosse bracciate di piante con i semi attaccati ne
portava tante volte lo zio Francesco dalla campagna. Ceci tostati venivano
venduti sulle bancarelle della frutta secca, soprattutto nel periodo natalizio,
ma non avevano niente a che vedere con la friabilità, la freschezza e la bontà
di quelli preparati dalla nonna. Ancora oggi i ceci tostati si trovano anche
nei mercati rionali di Torino, in sacchetti o sfusi venduti a peso: «Quando
vado al mercato» dice Maria «mi lascio attirare e ne prendo qualche bustina, li
offro alle mie sorelle e agli amici che vengono a trovarmi e che volentieri li
accettano come occasione di ritorno a vecchie sensazioni e ad allegri e
nostalgici commenti».
Andando dalla nonna conoscemmo
molte persone che non sapevamo fossero nostri parenti. Di parenti i nonni ne
avevano tanti, sparsi nei diversi quartieri del paese; in molti venivano a
trovarli di proposito o passavano a salutarli trovandosi nei dintorni di via
Ville Superiori per i loro affari. Se ci fosse stato un dubbio su qualche
persona di cui si stava parlando, la nonna lo risolveva subito: la persona in
causa era ma cuscina Giuannina o ma niputi Cuncittina o ma cummari Filippa. E se uscivamo con
lei era la stessa cosa, tutte le persone che incontravamo la salutavano: bongiornu cuscina Nì o ssa
bbanadica zi’ Nì, se era una persona giovane; e magari si fermavano a
raccontarsi le ultime reciproche vicende familiari. Ed io spesso, continua
Maria:
- «Ma mamma Nì, cu jera ssa fimmina
ca t’ha ssalutato ora ora?»
- «Bbi’ Mariuzzè,… ma figliozza Catarina,
figlia di ma cummari Maracava la Campanedda». (continua)
Maria e Salvatore Giordano
[1]
Cf. Filippo Marotta, La Settimana
Santa e la
Pasqua a Pietraperzia, p. 94: nella fotografia, “lu Signori di li fasci” in processione
nella discesa Rosolino Pilo, di epoca successiva ai nostri ricordi, il
corteo ha raggiunto proprio il nostro incrocio. I balconi che si vedono sulla
sinistra appartengono alla casa, ristrutturata, che era stata della signora Ada
Callari; sulla destra i muri prospicienti il corso Umberto della casa che fu di
donna Caterina Nicoletti.
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