16 febbraio 2019

Via 4 Novembre e dintorni: La casa – 2^ Parte


La casa di Via 4 Novembre                                                                           
La posizione della nostra casa ci offriva anche la possibilità di un altro tipo di spettacolo: dalla finestra che dava sulla discesa Rosolino Pilo, dopo fortissimi temporali vedevamo scendere, sbalorditi, grossissime piene di acqua sporca accompagnate da un rumore assordante. La piena che, partita da via Ville, si ingrossava man mano che scendeva verso il basso, ricevendo altra acqua e altra sporcizia dalle strade laterali come un fiume dai suoi affluenti, all’altezza del nostro incrocio copriva, alta una spanna, tutta la larghezza della discesa e proseguiva, ingrossandosi ancora, sino a lu Vaddùni dove, in questi casi, alcune abitazioni venivano allagate. La grossa fiumara nella sua furia trascinava a valle non solo lo sporco delle strade ma anche cufinati di ogni genere di immondizia che la gente, lungo il percorso, affidava alla piena: era abitudine diffusa, infatti, in quelle occasioni, ripulire stalle e paglialori. Di temporali se ne scatenavano di molto violenti, con lampi e tuoni da scuotere le ossa e da essere motivo di serie preoccupazioni, specie se nei periodi di raccolto. Allora vedevamo la mamma prendere la corona del rosario e recitare, con molta partecipazione, tra le altre, la preghiera che chiamava “Lu Verbu”:

Lu Verbu sacciu e lu Verbu haju a ddiri
Lu Verbu ca nni lassà nostru Signuri
Quannu acchjanà la cruci ppi muriri
ppi sarvari a nuantri piccatura.
O piccatura, o piccatrici
viditi quant’è ranni chista cruci
ca teni un vrazzu ‘n cilu e nantru ‘n terra
sinu a la vadda di Giosafat
picciddi e ranni amma essiri ddà
Scinni la Matri SSanta ccu lu libbru a li manu e chi dirà?
«Figliu li pirdunasti li Jiudija
Accussi ha ppirdunari li figliuli mija»
«Matri ji nu li puzzu pirdunari
Ca sunu tutti piccatura assai,
sanu lu Verbu e nu lu vunu diri
ntre li vampi e la pici han ‘a –ccadiri»
Cu nu lu sapi si lu fa’ nsignari.
Cu lu dici tri- bboti ‘n capizzu
Je scanzatu di trimulizzu;
Cu lu dici tri-bboti la notti
Je scanzatu di mala morti;
cu lu dici tri-bboti  a la via
l’accuppagna la Vergini Maria;
cu lu dici tri-bboti ‘n campu
je scanzatu di trona e di lampu.

Ma era spettacolo altrettanto bello, dopo la calata di la chjina, vedere l’acciottolato lucido della discesa brillare sotto il sole improvvisamente comparso. Per alcuni giorni la strada appariva pulita, ma restavano evidenti i segni del suo passaggio: sterpi, paglie, stracci appiccicati  alle grate dei dammusa e ai muri delle case.
Il crocevia Rosolino Pilo/via 4 Novembre era però compreso nell’itinerario della via di li Santi, e questo fatto, secondo la nostra percezione, gli conferiva una certa importanza. Da qui passavano tutte le processioni delle feste religiose, qui sostava, per alcuni minuti, lu Signuri di li fasci, la processione del Venerdì Santo, la più suggestiva, sentita ed emozionante del nostro paese, dopo che, svoltata da via Garibaldi, aveva percorso quel centinaio di metri di discesa sdrucciolevole prima di raggiungere il Corso Umberto[1]


A la Strataranni il percorso diventava pianeggiante e lineare, allora l’imponente corteo si snodava in tutta la sua lunghezza e si potevano contemplare in un’unica visione i tre simulacri: il colle imbiancato del calvario, lu Cravaniu, sormontato dal Crocefisso sul globo policromo, Cristo morto nell’urna e la Madonna Addolorata piangente, avvolta nel suo manto nero, portata a spalle dalle donne cattoliche, ciascuno preceduto dai devoti incappucciati delle confraternite, seguiti da bande musicali e da una moltitudine di persone in preghiera, comprese quelle delle famiglie di recente lutto.
Per il passaggio di Lu Signuri di li fasci si rendeva necessario rimuovere li curdìni, quei fili tesi da un balcone all’altro delle case di fronte, utilizzati per stendere il bucato. Era incombenza di papà slegare, qualche giorno prima del venerdì, il filo che univa trasversalmente il nostro balcone a quello di casa Nicoletti, situati ai due angoli opposti dell’incrocio; arrotolato a mo’ di grosso bracciale restava attaccato al balcone di donna Caterina per circa quindici giorni. La curdìna veniva ripristinata dopo il passaggio della processione della festa di San Vincenzo Ferreri, che veniva celebrata una settimana dopo Pasqua.
La giornata del Venerdì santo, fulcro della settimana santa, veniva vissuta a Pietraperzia secondo le tradizioni tramandateci dai nostri avi, che prevedevano il divieto di usare forbici e attrezzi taglienti, martelli e di piantare chiodi, e caratterizzata da pratiche di penitenza e mortificazione. Era consuetudine della nostra famiglia, e ad essa fummo abituati fin da bambini, osservare quel giorno il digiuno come quella di compiere, la sera del giovedì santo, il giro delle cinque chiese per la visita a li Sapurca, assieme ai nostri genitori. Ma i comportamenti di tutta la settimana erano ispirati da parte dei credenti pietrini ad una profonda mestizia, come sottolineavano le stesse preghiere di la Simana santa, che invitavano a meditare sul mistero della Passione di Cristo; preghiere che la mamma ci intonava invitandoci ad ascoltare e a ripetere con lei:

Accuminzammu di lu Santu luni,
na jurnatedda benigna e murtali.
L’armuzzi santi stanu a nghinucchiuni
prigannu nostru Ddì celestiali.
………           ………..
Si vu’ lu Paradisu o piccaturi,
ti cci’ ha addurari li so cincu chiaghi.
….   ….    ….
Di venniri murì nostru Signuri
Ntre un trunculu di crucci assai pinnenti
Tri chiova furu li primi dulura
E la cruna di spini trapungenti.[2]

Con il ritorno in paese ebbero fine le vacanze in campagna e con esse i giochi all’aria aperta: rincorrere le farfalle, stanare le lucertole, fare la marmellata schiacciando i fichi sulla mattonella, preparare i biscotti pasticciando con la farina, partecipare all’impastata del pane per farci fare da zia Mariù la fuata a ffacci di vecchia.  Cessarono le esplorazioni attorno a la puntara  in cerca di cchiappari e origano, le  arrampicate sugli alberi, la ricerca dei nidi, il perdersi nell’ammirare meravigliati, nelle ore più calde della giornata, lo spettacolo dei falchi che, libratisi nell’aria volteggiavano leggeri sullo sfondo della volta azzurrissima del cielo o si lasciavano cullare dal vento, simili ad aquiloni tenuti da un filo invisibile. Finirono anche le entusiasmanti escursioni al Salso, tutte le volte che lo zio Biagio ci portava con sé a raccogliere li pumadoru, li milinciani, li pipi e li muluna di χiauru che coltivavamo nell’orto della piana. L’invito era accolto con grida di gioia perché potevamo avvicinarci al fiume vedere l’acqua scorrere lenta pulita e trasparente, sperare di vedere sgusciare veloce qualche anguilla. Al fiume ci piaceva giocare coi grossi ciottoli neri e levigati; lucentissimi mentre erano ancora bagnati, tolti dall’acqua presto si asciugavano perdendo la loro brillantezza, e apparivano opachi e coperti da una polverina bianca. Noi ne prendevamo alcuni di varia grandezza e ce li portavamo a casa, ci attraeva la loro forma rotonda e liscia; li usavamo per schiacciare le mandorle.
Era però altrettanto appagante, in paese, andare a trovare i nonni. Tutti i pomeriggi, salvo imprevisti, eseguiti i compiti scolastici, ci trovavamo tutti a casa loro in Via Ville Superiori. Lì trovavamo le cugine Antonietta e Rocca, Totò, Maria e Vincenzina, figlie della zia Lucietta, le cui abitazioni sorgevano a poca distanza da quella dei nonni. Nonna Nina, che attendeva il nostro arrivo, aveva predisposto le tasche della sua lunga gonna nera riempiendole di leccornie, come biscottini a forma di animaletti, i famosi nnicchinnà: con gesto improvviso, che chiamava l’ammuccata, ce li cacciava in bocca al momento di salutarla; li muscardini sicchi, dolcissimi, che sgranocchiavamo con avidità. Canestrate intere di moscardini freschi e morbidi non mancavano comunque mai a casa della nonna, che ne era abilissima confezionatrice. Nelle capienti tasche del suo grembiule trovavano posto anche i ceci tostati, li ciciri callijati, che lei stessa preparava, di cui eravamo pure molto ghiotti. In una grossa padella posta sul fuoco, contenente già della sabbia di fiume, metteva i ceci sbollentati che, a contatto con la sabbia sempre più calda, man mano che la nonna li rigirava con un lungo cucchiaio di legno, prendevano quel colore tipico tra il bianco e l’avana. Quando, a suo parere, i ceci avevano preso la giusta tonalità, versava il contenuto della padella in un setaccio e, fatta cadere la sabbia, restavano i ceci tostati, coloriti e friabili, che travasava in un panierino di paglia intrecciata, con il fondo ormai sfilacciato e bruciacchiato. I ceci ci piacevano anche verdi; grosse bracciate di piante con i semi attaccati ne portava tante volte lo zio Francesco dalla campagna. Ceci tostati venivano venduti sulle bancarelle della frutta secca, soprattutto nel periodo natalizio, ma non avevano niente a che vedere con la friabilità, la freschezza e la bontà di quelli preparati dalla nonna. Ancora oggi i ceci tostati si trovano anche nei mercati rionali di Torino, in sacchetti o sfusi venduti a peso: «Quando vado al mercato» dice Maria «mi lascio attirare e ne prendo qualche bustina, li offro alle mie sorelle e agli amici che vengono a trovarmi e che volentieri li accettano come occasione di ritorno a vecchie sensazioni e ad allegri e nostalgici commenti».
Andando dalla nonna conoscemmo molte persone che non sapevamo fossero nostri parenti. Di parenti i nonni ne avevano tanti, sparsi nei diversi quartieri del paese; in molti venivano a trovarli di proposito o passavano a salutarli trovandosi nei dintorni di via Ville Superiori per i loro affari. Se ci fosse stato un dubbio su qualche persona di cui si stava parlando, la nonna lo risolveva subito: la persona in causa era ma cuscina Giuannina o ma niputi Cuncittina o ma cummari Filippa. E se uscivamo con lei era la stessa cosa, tutte le persone che incontravamo la salutavano: bongiornu cuscina Nì o  ssa bbanadica zi’ Nì, se era una persona giovane; e magari si fermavano a raccontarsi le ultime reciproche vicende familiari. Ed io spesso, continua Maria:
- «Ma mamma Nì, cu jera ssa fimmina ca t’ha ssalutato ora ora?»
- «Bbi’ Mariuzzè,… ma figliozza Catarina, figlia di ma cummari Maracava la Campanedda». (continua)

Maria e Salvatore Giordano




[1] Cf.  Filippo Marotta, La Settimana Santa e la Pasqua a Pietraperzia, p. 94: nella fotografia, “lu Signori di li fasci” in processione nella discesa Rosolino Pilo, di epoca successiva ai nostri ricordi, il corteo ha raggiunto proprio il nostro incrocio. I balconi che si vedono sulla sinistra appartengono alla casa, ristrutturata, che era stata della signora Ada Callari; sulla destra i muri prospicienti il corso Umberto della casa che fu di donna Caterina Nicoletti.
La foto di Antonio Caffo in questo articolo non è la foto citata dagli autori.

[2] Quelle preghiere troviamo ora in La Settimana Santa cit., p. 131




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